Magari qualcuno si offenderà, perché sarà preso dall'irritazione di sentirsi paragonato a una bestia, per di più selvatica. Magari qualcuno mi annovererà fra gli psicoterapeuti ottusi e autoritari che si ostinano, sotto le più sofisticate spoglie, a guardare al paziente come a un alieno, nel migliore dei casi simpatico.
Però, se tra i miei pazienti ve n'è qualcuno (o qualcuna) capace di emozionarsi di fronte alla scoperta di un'etimologia (secondo Borges, chi "scopre" un'etimologia, poco importa se già nota, "salva il mondo"), forse l'idea che "domesticare" derivi da "domus" (casa, o anche famiglia), potrebbe persino risultare gradita. Freud aveva descritto l'esperienza "perturbante" come "unheimlich", cioè non domestica, estranea; da "heim" che vuol dire, appunto, "casa".
Ora, con buona pace di tutti coloro che prediligono l'idea dell'analista "funzione della mente", è diventato oggi possibile raccontare l'esperienza psicoterapeutica come un processo di avvicinamento fra due persone, che finiscono per condividere uno spazio intersoggettivo comune, che qualcuno chiama "campo bipersonale". Una sorta di familiarizzazione che per i più audaci potrebbe persino apparire reciproca. Ci si apparenta per il solo fatto di condividere uno spazio comune, straordinariamente intimo, finendo per appartenere, in qualche modo, a una medesima "domus", casa. Quindi, possiamo dire che la psicoterapia è anche un processo di domesticazione.
È stato Jeffrey Moussaieff Masson, un ex-psicoanalista passato a indagare l'affettività degli animali e la loro condizione di vittime della nostra sordità emotiva, a suggerire l'idea (Il cane che non poteva smettere di amare, Tropea editore) che la domesticazione del lupo in cane sia avvenuta di pari passo, e attraverso mutui scambi, con quella degli ominidi in Homo Sapiens. Un'evoluzione-civilizzazione reciproca, insomma, compiuta fra le due sole specie apparentemente capaci di amare. Niente di nuovo: noi nasciamo alla vita grazie a una relazione amorosa che si instaura fin dal primo momento fra il bambino e la madre. Se questa relazione non ci fosse, e il bambino si sentisse respinto, potrebbe essere tentato dall'idea di "tornare" nella non-esistenza, come scrive Ferenczi. Perciò nell'essere addomesticati non c'è proprio niente che possa risultare offensivo. Per poter continuare a vivere, bisogna pur appartenere alla domus di qualcuno, nell'attesa di costruirne una propria.
Leggendoti questa mattina ho sentito nella casa che porto dentro entrare un vento leggero, una tramontana mite, essenziale, umile e pura per quanto si può. E' questo il tipo di casa in cui mi sento vivo e a cui sento di appartenere.
RispondiEliminaGrazie, Rudi. Lavorare e discutere con te è sempre un piacere.
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