Perché Wiesbaden 1932


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Detto ciò, benvenuti nel mio Blog, angolo per riflessioni da condividere con colleghi e amici selezionati.











lunedì 28 gennaio 2013

RELIGIONI SCIENTIFICHE

La dottoressa Margareth Bourbon, psicologa clinica, lavorava presso un importante istituto pedopsichiatrico di fama internazionale, il cui Direttore, uomo di scarsa preparazione scientifica e di estrema arroganza, aveva instaurato un clima dittatoriale, scoraggiando negli studenti, negli allievi avanzati e persino nei collaboratori lo studio di ogni opzione scientifica che non fosse quella da lui prediletta, al punto che era persino loro impedito di rivolgergli domande durante lo svolgimento delle lezioni. Ciò era, presumibilmente, da mettersi in relazione con la segreta angoscia del Prof. M. di essere trovato impreparato su troppi argomenti.
La Collega, che ebbi occasione di conoscere, mi raccontò un giorno che, mentre somministrava test proiettivi come il Rorschach o il CAT ai suoi giovanissimi pazienti, il prof. M. soleva irrompere nella stanza interrompendo l’indagine diagnostica, per ingiungerle perentoriamente di fargli un caffè.

Quel racconto mi colpì particolarmente, perché pensai che in quel momento, M. avesse espresso una forma di disprezzo che si era dispiegato in svariate direzioni. Infatti, con quel gesto sprezzante, egli aveva insultato:

-La persona della Collega;
-Il paziente, che soffriva di uno status doppiamente svantaggiato, essendo, per l’appunto, paziente e minorenne;
-La donna;
-Il ruolo gerarchico, subordinato, ma non per questo meritevole di disprezzo;
-La materia (essendo la Psicologia Clinica considerata dal medesimo -come da lui lasciato intendere in svariate occasioni- una disciplina che non poteva competere con la Medicina, perché assolutamente insignificante);
-La tecnica diagnostica (i test proiettivi consistono nella somministrazione di immagini a un soggetto che ha in conseguenza di ciò delle reazioni emotive, la cui valutazione è l’oggetto dell’indagine. Va da sé che l’irruzione e l’interazione seguente erano stimoli, oltreché violenti, non previsti dal protocollo operativo, e pertanto suscettibili di alterarne l’esito in misura determinante);
-La relazione di cura fra la dottoressa e il suo paziente, che dovrebbe essere sempre contrassegnata da stima reciproca.

Ora, immagino che qualcuno, leggendo questo raccontino, potrebbe chiedersi se fosse proprio necessario narrare una piccola e imbarazzante storia di meschinità quotidiana, solo perché ammantata di supponenza accademica.
Questa storia non mi sarebbe di certo tornata alla mente, se non fossi stato costretto a riflettere sul significato dell’espressione “religione scientifica”, quando Federica, ieri, mi ha chiesto: “Secondo lei,  per quale ragione i miei genitori (due famosi clinici) non hanno mai fatto nulla, quando ero bambina, per farmi curare? Io ero una bimba gravemente problematica: ero molto intelligente e l’apprendimento avveniva in maniera fluida e ricca; ma non appena mi trovavo davanti a un’insegnante, mi fingevo totalmente impreparata, anzi: non proferivo parola. E non sapevo perché”.

Naturalmente, io non so rispondere a questa domanda: i genitori di Federica sono mancati da tempo, e nessuno avrà mai più la possibilità di immergersi in quell’intrico di pensieri e di emozioni che avrebbe dovuto essere l’incubatrice della sua mente di bambina all’alba dello sviluppo.
Però, ascoltando la paziente, mi è tornato alla mente il Professor M., uomo che condivise con i genitori di lei il medesimo ambiente accademico e lo stesso clima culturale.
La risposta che sono stato tentato di dare a F. ha rischiato di essere troppo semplificata o rozza, perché incapace di scalfire la grave esperienza di trascuratezza che la mia paziente ebbe a sperimentare su di sé. Ero infatti tentato di dirle -ben sapendo che l’argomentazione non avrebbe coperto che una piccola parte del problema- che i suoi genitori non erano stati in grado di aiutarla perché incapaci di riconoscere dignità scientifica al suo problema, così poco “organicistico”, e così lontano dalle loro sia pure notevoli conoscenze scientifiche.

In quell’epoca lontana, infatti, soltanto la medicina biologica aveva avuto diritto di cittadinanza; e soltanto ai medici, per quanto del tutto impreparati ad affrontare qualsiasi emergenza psichica (si pensi, ad esempio, al problema del dolore dei superstiti, in un reparto di pediatria, di fronte alla morte di un bambino), era spettato di dire l’ultima parola su tutto, essendo i loro subordinati (fossero essi psicologi, assistenti sociali, infermieri, ausiliari, tecnici di radiologia o di laboratorio) da considerarsi poco più che dei paria. Questa barbarie sociale era stata il frutto di un atteggiamento verso la scienza che aveva le stigmate della sottomissione a un credo religioso, anziché a metodi di indagine adeguati alla specifica natura dell’oggetto “umano”. E i genitori di Federica erano stati, a loro insaputa, loro malgrado e come tantissimi loro colleghi, involontari clerici di quell’oscura religione.
In uno dei suoi ultimi lavori, Franco Fornari, descrisse il funzionamento emotivo di un reparto ospedaliero di ginecologia, mettendo in luce due diversi codici affettivi contrapposti: il codice paterno, che costruisce l’azione sanitaria ispirandosi al modello dell’Esercito, imponendo stili relazionali di stampo militare caratterizzato dalla proiezione delle parti deboli, indifese e sofferenti che in origine appartengono al sé, sull’”altro”, che in tal modo diventa un “alienus” sideralmente lontano. L’alienus (il batterio, il virus, la degenerazione) diventa così un nemico da abbattere con ogni mezzo disponibile e lo stile diventa sorprendentemente simile  a quello militare (camici come divise, organizzazione gerarchica, rigida divisione funzionale fra uomini e donne, “consegna in caserma” per le più giovani allieve infermiere, che, a fine turno serale non potevano rientrare nelle proprie case fino al mattino seguente, essendo obbligate a pernottare in ospedale; e ciò in Italia, fino a tutti gli anni sessanta), e un codice alternativo al precedente, che egli definisce “materno”, fatto di calore, ascolto, attenzione,  accoglienza, identificazione.
Quando c’è in ballo la nascita alla vita (fisica, psichica o nascita tout-court), il codice ideale sarebbe in verità quello materno, perché il dolore, il sentirsi indifesi e preda dell’angoscia di morte, abbisognano di vicinanza affettiva, di ascolto e di attenzione. Invece, la medicina tecnologica post-ottocentesca aveva deciso di considerare la malattia un nemico da battere con tutte le armi di dissuasione e di sterminio che si fossero rese disponibili, e di conseguenza le virtù militari come le sole idonee all’impresa.

domenica 27 gennaio 2013

TEMPO DI EROI


Quando ero bambino, l'eroe con il quale mi identificavo maggiormente era Nembo Kid, il "character" (cioè il personaggio, parola che preferisco scrivere in inglese per sottolinearne l'irrealtà che il termine italiano non rende a sufficienza), che oggi è noto al pubblico, nella sua edizione più volte aggiornata, con il nome di Superman.
"Essere" Nembo Kid era quasi come avere un'identità segreta. Anzi, quella caratteristica del personaggio era infinitamente comoda, perché consentiva a chi la portava di distinguere fra un interno in qualche modo esoterico (la parte intima e segreta del processo di fantasia che si mostrava soltanto alla ristretta cerchia degli iniziati, cioè a se stessi) e l'esterno da mostrare in pubblico, identità manifesta e artefatta come lo è ogni espressione destinata a celare la verità.
Quell'uso della fantasia megalomanica che pure ha una sua utilità rispetto all'esigenza di padroneggiare l'angoscia ispirata dagli ostacoli che paiono insuperabili non solo nella giovane età, era reso agevole proprio dalla sua "doppia" identità, dalla compresenza di quel versante segreto e inconfessabile che, seppur collegato a un imbarazzante senso di vergogna, forniva un prezioso sistema di orientamento fra il dentro e il fuori, fra il mondo della fantasia e quello della realtà, indispensabile all'uso maturo dello strumento hi-tech che chiamiamo "mente".
Oggi, invece, non è più tempo di eroi. O meglio: gli eroi sono diventati monodimensionali, non essendo più possibile distinguerne l'apparenza dalla realtà interiore, la sostanza reale dalla raffigurazione fantastica. Ciò accade perché la società dello spettacolo e la televisione in particolare promettono un quarto d'ora di celebrità a tutti, e perché la dimensione supernaturale è troppo banalmente a portata di mano. Oggi chiunque può sognare di diventare famoso, restando però deprivato della consapevolezza, seppure parziale, di star muovendosi in una dimensione di fantasia, utile a fronteggiare i mostri della crescita, ma letale, se ridotta a pura bidimensionalità. Basta diventare calciatore, velina, cantante, attore, e persino escort.
Leggo su un magazine inglese che un adolescente su dieci abbandonerebbe volentieri la scuola se avesse l'opportunità di lavorare in televisione, che il nove per cento crede che diventare famosi sia il modo più rapido per diventare ricchi, che la ricchezza faccia tutt'uno con la felicità e che quest'ultima sia ormai indistinguibile dal divertimento.
Timothy, sedici anni, i cui eroi sono il calciatore Thierry Henry e l'attore Denzel Washington, dice che lascerebbe volentieri la scuola se gli fosse offerto di recitare in televisione, perché in tal modo diverrebbe ricco, e la fama, si sa, "rende tutto più facile". Anch'io, da ragazzo sognavo cose che mi rendessero tutto più facile: volare, essere invulnerabile, avere la vista a raggi X e l'ultra-soffio che fermava gli uragani, e le ciglia sbattenti di Lois Lane, mi avrebbero reso la vita molto più agevole nonostante la kryptonite. Ma la loro irrealizzabilità era anche una pesantissima àncora che mi legava saldamente a terra. Qui invece si rischia di vivere esclusivamente dentro sogni seriali indistinguibili dalla realtà.
Al risveglio, quei ragazzi non troveranno nessuno ad aspettarli. Neppure se stessi.

sabato 19 gennaio 2013

NOTA SUL TRANSFERT NEGATIVO


Nell’articolo “Due tipi di nevrosi di guerra” (1916, in: S.F., Opere, vol. II, pp. 219-233,  Cortina Editore), Sándor Ferenczi descrive le reazioni psicogene che, al tempo della Prima Guerra Mondiale, si manifestavano in molti soldati affidati alle sue cure di medico militare in seguito a esperienze traumatiche quali rimanere sepolti sotto cumuli di terra a causa di deflagrazioni, dover restare a lungo immersi in acqua gelida in inverno e in condizioni di pericolo, essere colpiti dallo scoppio di granate.
Soffermandosi sulle reazioni emotive conseguenti a raffreddamento massiccio e improvviso, Ferenczi distingue fra reazioni immediate e reazioni insorte in epoca successiva all’episodio.
Non era raro infatti, che alcuni di essi riprendessero le normali mansioni subito dopo l’episodio, per ammalarsi improvvisamente dopo un incidente banale che aveva assunto la funzione di “richiamare” vividamente alla memoria la precedente esperienza.
Di questo articolo mi colpisce,  in particolare, un passo:

“In molti di questi casi di raffreddamento, i pazienti dicono che avevano cominciato spontaneamente a migliorare quando, per curare il loro presunto reumatismo, furono sottoposti a un trattamento a base di bagni caldi, oppure mandati a passare la convalescenza in una delle nostre stazioni termali (dove le sorgenti di acqua calda sono naturali: Trencsén-Teplitz, Pöstyén); qui subirono la ricaduta” (ibid. pag. 226).

Il tema mi incuriosisce molto perché investe la problematica del transfert negativo e delle resistenze all’analisi in generale, quando si tratta un paziente che ha subito un trauma singolo o cumulativo.
L’esperienza di un ambiente familiare non accuditivo, di figure genitoriali rifiutanti o addirittura violente, favorisce lo sviluppo di una disposizione caratteriale all’autoprotezione del Sé, in sostituzione di ciò che dovrebbe offrire una famiglia normalmente accogliente e affettiva. Persone che hanno sviluppato un forte sentimento di diniego del proprio bisogno di dipendenza a causa di un grave rifiuto materno, sviluppano un atteggiamento caratterizzato da “durezza” e apparente insensibilità al dolore, di proclamati cinismo e assenza di bisogno, che ha la funzione di proteggere dall’angoscia di annichilimento che proverebbe un qualsiasi neonato normale, qualora fosse privo di ogni tutela.
Gli stessi sentimenti luttuosi riferiti alla perdita di un precedente stato appagante o di una figura di attaccamento venuta a mancare improvvisamente, sono sottoposti a diniego, mentre lo stato di sofferenza può essere scisso o somatizzato.
In tali condizioni, quando la disposizione emotiva dell’analista sia mossa da sentimenti di protezione nei confronti della parte sottoposta a scissione (cioè della parte bisognosa di cui il Sè ha perduto la consapevolezza), la reazione transferale è sempre estremamente ambivalente e in qualche caso addirittura aggressiva.

Chi alla nascita sia stato male accolto o gravemente maltrattato, ha bisogno di continuare a misconoscere i propri bisogni, per ridurre le occasioni di sperimentare il rifiuto e per evitare di piombare troppo spesso nell’angoscia. E’ per questo che i soggetti che fanno queste esperienze diventano molto gelosi della loro autosufficienza narcisistica, imparando a caro prezzo a rinunciare alla soddisfazione dei propri bisogni, nell’illusione di tacitarli. In queste condizioni, il venire a contatto con un ambiente maggiormente accogliente (quale deve essere necessariamente la stanza di analisi) può comportare reazioni di rifiuto e di svalutazione dell’analista che sarebbe erroneo e semplicistico etichettare come invidiose.
Se ripensiamo all'esempio clinico citato da Ferenczi, siamo obbligati a osservare come, dopo lo shock che aveva riportato il soggetto in una condizione di pericolo estremo dovuto al raffreddamento, il contatto con l’acqua calda dello stabilimento termale doveva essere risultato intollerabile per l’improvviso venir meno della capacità di "non notare" le differenze di temperatura maturata all'epoca del trauma, allo scopo di tener lontana l'angoscia di morire.
D'altra parte le capacità dell'organismo di modificare, in condizioni estreme, i propri meccanismi di regolazione termica sono sorprendenti: la letteratura che  narra la vita dei prigionieri dei campi di sterminio, a cominciare dalle testimonianze di Primo Levi, descrive chiaramente come coloro che sopravvissero ai lager svilupparono eccezionali capacità organiche di difesa da insulti eccezionale intensità. 
I meccanismi mentali degli Häftlinge [prigionieri] -scrive Levi- erano diversi dai nostri; curiosamente, e parallelamente, diversa era anche la loro fisiologia e patologia. In Lager, il raffreddore e l’influenza erano sconosciuti [i prigionieri vi trascorrevano tutta la giornata all’aperto, vestiti di un indumento di pesantezza pari a un pigiama leggero, calzando ai piedi, nel migliore dei casi, soltanto degli zoccoli di legno senza calze, essendo denutriti e sottoposti a lavori massacranti] ma si moriva, a volte di colpo, per mali che i medici non hanno mai avuto occasione di studiare. Guarivano (o diventavano asintomatiche) le ulcere gastriche e le malattie mentali, ma tutti soffrivano di un disagio incessante, che inquinava il sonno e che non ha nome”. (Primo Levi, I Sommersi e i Salvati, pagg. 65-66).

L’inclusione di un atteggiamento aggressivo verso un’accoglienza positiva da parte dell’analista arricchisce così di un ulteriore elemento le tipologie del transfert negativo.
Oltre alla reazione terapeutica negativa determinata dalla coazione a ripetere la relazione con il genitore originario, e all’aggressività mossa da atteggiamenti poco accoglienti da parte dell’analista nell’ambito della relazione reale, si può aggiungere quindi anche la difficoltà, per il paziente, di tornare ad essere fiducioso in qualcuno che sia disposto ad accoglierlo e ad accettare di dipendere dalla sua favorevole disposizione affettiva e dalla sua persistenza.

domenica 13 gennaio 2013

LONGEVITÀ


1. Viene a trovarmi in sogno Rudi Lucini, un figlio con i capelli grigi, che mi dice: "nell'affidarmi un caso di adozione, avete tenuto conto della mia longevità?". "Perché avremmo dovuto?" rispondo. "I miei maestri sono ancora tutti vivi e in attività. Vorresti che non lavorassero più? Io ho ancora molto da imparare da loro". Bé, anche se Freud ci ha insegnato a guardare al sogno come a un luogo di verità, non è scritto da nessuna parte che nei sogni non si possa mentire, e io, in questo sogno, ho detto almeno due bugie, delle quali devo rendere conto a me stesso, devo rendermi conto. Non è vero che i maestri siano tutti vivi o in attività, così come è del tutto falso che io segua ancora i loro insegnamenti. Ma, a pensarci bene, io e Rudi un maestro in comune lo abbiamo realmente, il che mi pone in una luce ancora più incerta nella filiera delle generazioni: essendo io figlio (di un maestro più giovane di me di qualche mese), ma con i giorni contati, da padre guardo alla mia sudata saggezza senza avere più, davanti a me, tutto il tempo sterminato che mi servirebbe. Non c'è abbastanza tempo: si può ancora pensare, si può ancora scoprire qualcosa, mentre il futuro ci mostra il suo limite impietoso?
2. La settimana scorsa, dopo una malattia di cui non ero al corrente, è morto Gianni, un antico paziente con cui condivisi due lunghe avventure, la prima durante la mia giovinezza professionale e la seconda nella maturità. Lucy mi ha ricordato le parole che Gianni le disse l'unica volta in cui parlarono al telefono: "anagraficamente suo marito potrebbe essere mio figlio, ma per me è come un padre". Figli che sono padri, generazioni che si sovrappongono, filiazioni che nascono nel dolore e nella tenerezza, a volte senza che gli interessati lo sappiano.
3. Di tutti i personaggi che popolano questo Blog, Lucrezia è colei che ha sviluppato una singolarissima e dolorosa angoscia tanatofobica, arrivando a dire, da ragazza grande e intelligente qual è, che i suoi genitori saranno immortali.
4. Ada mi ha detto: "ho paura che lei possa non esserci più". Questa frase è un risveglio dopo un lungo sonno gelato, ed è probabilmente la radice più importante del mio sogno. Ho tenuto conto della mia longevità, quando ho deciso di adottarla?
5. Che importa? Le ho risposto. Ciò che conterebbe, se io sparissi, sarebbe ciò che di me continuerà a vivere in lei. Noi siamo qui per il viaggio, non per la meta. Il viaggio non finisce che molto tempo dopo la fine del viaggiatore. Noi, se lo avremo meritato, sopravviveremo negli altri, almeno per un po'.
6. Forse, è per sfuggire a tutti questi accavallamenti generazionali che c'è chi continua a sognarmi come un fidanzato fedifrago, ostinata nostalgia d'edipi e di psicoanalisi che furono. In ogni giardino di gesso, i nani hanno un impiego assicurato che sembra eterno anche se è soltanto posticcio. Fortuna che, dietro ogni ostinazione, si cela una vitalità senza fine; in fondo, Matilde è con me fin dal primo giorno, o giù di lì. E questa eternità condivisa ha trovato, alla fin fine, la sua ragion d'essere, rivelandosi fatta di un materiale prezioso.