Quando ero bambino, l'eroe con il quale mi identificavo maggiormente era Nembo Kid, il "character" (cioè il personaggio, parola che preferisco scrivere in inglese per sottolinearne l'irrealtà che il termine italiano non rende a sufficienza), che oggi è noto al pubblico, nella sua edizione più volte aggiornata, con il nome di Superman.
"Essere" Nembo Kid era quasi come avere un'identità segreta. Anzi, quella caratteristica del personaggio era infinitamente comoda, perché consentiva a chi la portava di distinguere fra un interno in qualche modo esoterico (la parte intima e segreta del processo di fantasia che si mostrava soltanto alla ristretta cerchia degli iniziati, cioè a se stessi) e l'esterno da mostrare in pubblico, identità manifesta e artefatta come lo è ogni espressione destinata a celare la verità.
Quell'uso della fantasia megalomanica che pure ha una sua utilità rispetto all'esigenza di padroneggiare l'angoscia ispirata dagli ostacoli che paiono insuperabili non solo nella giovane età, era reso agevole proprio dalla sua "doppia" identità, dalla compresenza di quel versante segreto e inconfessabile che, seppur collegato a un imbarazzante senso di vergogna, forniva un prezioso sistema di orientamento fra il dentro e il fuori, fra il mondo della fantasia e quello della realtà, indispensabile all'uso maturo dello strumento hi-tech che chiamiamo "mente".
Oggi, invece, non è più tempo di eroi. O meglio: gli eroi sono diventati monodimensionali, non essendo più possibile distinguerne l'apparenza dalla realtà interiore, la sostanza reale dalla raffigurazione fantastica. Ciò accade perché la società dello spettacolo e la televisione in particolare promettono un quarto d'ora di celebrità a tutti, e perché la dimensione supernaturale è troppo banalmente a portata di mano. Oggi chiunque può sognare di diventare famoso, restando però deprivato della consapevolezza, seppure parziale, di star muovendosi in una dimensione di fantasia, utile a fronteggiare i mostri della crescita, ma letale, se ridotta a pura bidimensionalità. Basta diventare calciatore, velina, cantante, attore, e persino escort.
Leggo su un magazine inglese che un adolescente su dieci abbandonerebbe volentieri la scuola se avesse l'opportunità di lavorare in televisione, che il nove per cento crede che diventare famosi sia il modo più rapido per diventare ricchi, che la ricchezza faccia tutt'uno con la felicità e che quest'ultima sia ormai indistinguibile dal divertimento.
Timothy, sedici anni, i cui eroi sono il calciatore Thierry Henry e l'attore Denzel Washington, dice che lascerebbe volentieri la scuola se gli fosse offerto di recitare in televisione, perché in tal modo diverrebbe ricco, e la fama, si sa, "rende tutto più facile". Anch'io, da ragazzo sognavo cose che mi rendessero tutto più facile: volare, essere invulnerabile, avere la vista a raggi X e l'ultra-soffio che fermava gli uragani, e le ciglia sbattenti di Lois Lane, mi avrebbero reso la vita molto più agevole nonostante la kryptonite. Ma la loro irrealizzabilità era anche una pesantissima àncora che mi legava saldamente a terra. Qui invece si rischia di vivere esclusivamente dentro sogni seriali indistinguibili dalla realtà.
Al risveglio, quei ragazzi non troveranno nessuno ad aspettarli. Neppure se stessi.
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