In campo scientifico, le guerre ideologiche, fatte di speculari arroganze e di ferree certezze, hanno l’effetto di produrre una democratica condivisione del torto.
Questa riflessione sorge spontanea alla lettura di un articolo di Gustavo Corbellini che descrive la polemica sul trattamento dei bambini autistici sorta in Francia fra psicoanalisti e terapeuti cognitivo-comportamentali, e le repliche che a tale articolo sono state opposte in un “manifesto” (definizione esagerata) co-firmato da due analisti freudiani, Bolognini e Argentieri, dallo junghiano Zoja e dal lacaniano Di Ciaccia. Già questa prova di ecumenismo fra psicoanalisti è una buona notizia per chi, come chi scrive, ama la psicoanalisi pur rifuggendo da quegli atteggiamenti di partigianeria che dovrebbero suonare inaccettabili per ogni psicoanalista, anche al fuori dai confini francesi, in omaggio al messaggio di Freud, che, depurato di alcune scorie dogmatiche, resta un messaggio di libertà.
Premetto che io, psichiatra che pratica la psicoanalisi in collaborazione con pazienti diversi dai bambini autistici, non ho pieno titolo, né piena competenza, per intervenire sul tema in discussione; tuttavia, gli argomenti sollevati non si limitano al solo trattamento dell’autismo, ma investono più in generale la questione fondamentale dell’identità delle discipline scientifiche e della relazione con i pazienti, argomenti sui quali mi sento di poter dire qualcosa.
Ha probabilmente qualche ragione Corbellini quando fa riferimento a comportamenti delle istituzioni psicoanalitiche che, più che settari, si potrebbero definire autoreferenziali, ma sbaglia quando sostiene un orientamento culturale che pretende di stabilire una volta per tutte ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e soprattutto ciò che si deve o non si deve fare.
Se il “verbo” di Lacan, non meno di quello di Freud, ha assunto più e più volte una connotazione dogmatica inserendosi in un sistema chiuso di pensiero, è questione sulla quale gli psicoanalisti (quelli che ancora si considerano “ortodossi”, perché molti dei cosiddetti “eretici” lo fanno da tempo) dovrebbero una buona volta iniziare a riflettere seriamente e serenamente.
Nella trasmissione “Fahrenheit”, andata in onda su RAI Radiotre il 24 febbraio scorso, in un dibattito a due con Corbellini, l’ottimo Di Ciaccia si è difeso molto male, pur disponendo, a mio giudizio, di qualche valido argomento che sarebbe stato spendibile se fosse stato espresso in buon italiano, anziché nel solito gergo lacaniano incomprensibile ai più. Continuare a parlare (per di più di fronte al grande pubblico) del “desiderio dell’Altro” senza voler spiegare che cosa ciò significhi quando si potrebbe più agevolmente parlare di “relazioni”, è una pratica da convento di clausura, è l’esercizio di una microlingua capace di produrre l’isolamento “autistico” di chi la parla in un mondo che è diventato uno sterminato open space telematico. Poiché Di Ciaccia non è certamente illetterato, viene il dubbio che le espressioni usate da Lacan, ancorché tradotte dal francese, siano diventate un feticcio intoccabile; e forse questo è un argomento degno di attenzione da parte degli storici della psicoanalisi.
Se dalla parte di Corbellini e dei critici dell’interpretazione psicoanalitica dell’Autismo si insiste soprattutto nella critica al concetto di “madre coccodrillo” di Lacan, o di “madre frigorifero” di Bettelheim, si ha il dovere di parlar chiaro, perché altrimenti, di fronte a famiglie atterrite dalla prospettiva dell’handicap, qualsiasi espressione che suoni come colpevolizzante, rappresenta un trauma ulteriore, che rende comprensibili, anche se non giustifica, le accuse vergognose che vengono rivolte in rete a Bruno Bettelheim del quale si mette persino in dubbio l’esperienza vissuta a Dachau e a Buchenwald, e seguita, come quella di tanti altri sopravvissuti allo sterminio, dal suicidio.
Ciò che dal dibattito in corso non traspare con sufficiente chiarezza è che soltanto dei clinici poco esperti, indipendentemente dalla scuola di appartenenza, potrebbero “colpevolizzare” chicchessia; e che il problema della relazione primaria fra madre e bambino, oltre a essere ineludibile non può essere soggetto ad alcun tipo di sanzione morale, perché nei casi d’inefficienza materna, la madre stessa è reduce da un passato di trascuratezza e di dolore. In questo campo, gli studi sulla trasmissione transgenerazionale delle conseguenze dei traumi precoci e dei difetti di accudimento, sono troppo universalmente noti e condivisi perché si possa accusare qualcuno: madri troppo giovani, inadeguate al compito di sostenere la nuova vita che nasce, sono spesso, a loro volta, ancora delle bambine non adeguatamente accudite e affettivamente nutrite; donne soggette alla diffusissima depressione post-partum che non riescono a rimanere in intimo contatto emotivo con il bambino che nasce, non possono essere di certo colpevolizzate ma aiutate a sostenere ciò che a loro appare insostenibile. E che dire degli aborti mancati, di quelle situazioni in cui la decisione di proseguire una maternità è stata presa controvoglia o per decisione altrui? Il bambino che nasce, come scriveva lo psicoanalista Sándor Ferenczi, ha un bisogno vitale di essere “bene accolto”: in caso contrario, non trovando affetto, calore e intimità, può essere tentato di “lasciarsi cadere all’indietro, nella non-esistenza”; di morire cioè, o di essere sempre ammalato, o di piangere in continuazione esasperando ulteriormente una madre già troppo stanca e provata.
Ma perché, si dirà, sempre le madri? Perché non i padri, o le nonne, le zie, gli zii? Perché la madre è, per il bambino che nasce, l’intero universo, la casa, “l’Altro” di cui parla Lacan, lo specchio, il contenitore, la fonte di ogni nutrimento, calore e rassicurazione in un’epoca in cui, tutti gli altri non sono ancora stati neppure percepiti. Poi una madre eccessivamente stanca o ammalata può certo, anzi deve!, essere sostituita da qualcuno che la possa alleviare, da qualcuno che possa far sentire al bambino che un temporaneo impedimento della madre non è la caduta in un precipizio senza fine.
Se si fosse detto questo, a Corbellini e alle sue certezze, non sarebbe rimasta altra consolazione che la fede nella medicina basata sull’evidenza, che con il suo corredo di statistiche, acronimi e protocolli costituisce un verbo non meno dogmatico (e per nulla esente da conflitti d’interesse), dello stanco esoterismo rituale di certa psicoanalisi.
Io non credo affatto che la terapia cognitivo-comportamentale sia più o meno efficace della psicoanalisi (che, fra l’altro, non è più una sola, ma si dirama in molti approcci differenti), perché sono fermamente convinto che la bontà di un trattamento sia funzione della relazione intima che si stabilisce fra psicoterapeuta e paziente, in entrambe le direzioni, quali che siano i riferimenti dottrinali del terapeuta. Io stesso, psichiatra di passione psicoanalitica, non ho esitato a rivolgermi a ottimi colleghi cognitivo-comportamentali per miei familiari, quando ho ritenuto giusto farlo. Credo però che si debba sapere a quale obiettivo ci si rivolge e perché lo si fa; quale che sia l’approccio alla patologia autistica, nessuno potrà mai negare l’importanza della cura della relazione fra “quella” madre e “quel” bambino. E se per caso una madre scoprisse di avere per tutta la durata della gravidanza sognato di avere la pancia vuota, sarebbe di certo un grave errore scientifico trascurare quel dato per ripensare l’origine di una patologia, quali che ne siano le concause neurobiologiche di cui nessuno nega l’esistenza o l’evidenza.
Tutti noi psicoterapeuti abbiamo oggi un vitale bisogno di una robusta iniezione di laicità, ottenibile soltanto attraverso lo studio onesto e privo di censure della storia delle nostre discipline. Soltanto così riusciremo a essere un po’ meno partigiani e un po’ più credibili con noi stessi, ogni volta che avremo l’impressione di aver conquistato un piccolissimo frammento di Verità.
Questa riflessione sorge spontanea alla lettura di un articolo di Gustavo Corbellini che descrive la polemica sul trattamento dei bambini autistici sorta in Francia fra psicoanalisti e terapeuti cognitivo-comportamentali, e le repliche che a tale articolo sono state opposte in un “manifesto” (definizione esagerata) co-firmato da due analisti freudiani, Bolognini e Argentieri, dallo junghiano Zoja e dal lacaniano Di Ciaccia. Già questa prova di ecumenismo fra psicoanalisti è una buona notizia per chi, come chi scrive, ama la psicoanalisi pur rifuggendo da quegli atteggiamenti di partigianeria che dovrebbero suonare inaccettabili per ogni psicoanalista, anche al fuori dai confini francesi, in omaggio al messaggio di Freud, che, depurato di alcune scorie dogmatiche, resta un messaggio di libertà.
Premetto che io, psichiatra che pratica la psicoanalisi in collaborazione con pazienti diversi dai bambini autistici, non ho pieno titolo, né piena competenza, per intervenire sul tema in discussione; tuttavia, gli argomenti sollevati non si limitano al solo trattamento dell’autismo, ma investono più in generale la questione fondamentale dell’identità delle discipline scientifiche e della relazione con i pazienti, argomenti sui quali mi sento di poter dire qualcosa.
Ha probabilmente qualche ragione Corbellini quando fa riferimento a comportamenti delle istituzioni psicoanalitiche che, più che settari, si potrebbero definire autoreferenziali, ma sbaglia quando sostiene un orientamento culturale che pretende di stabilire una volta per tutte ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e soprattutto ciò che si deve o non si deve fare.
Se il “verbo” di Lacan, non meno di quello di Freud, ha assunto più e più volte una connotazione dogmatica inserendosi in un sistema chiuso di pensiero, è questione sulla quale gli psicoanalisti (quelli che ancora si considerano “ortodossi”, perché molti dei cosiddetti “eretici” lo fanno da tempo) dovrebbero una buona volta iniziare a riflettere seriamente e serenamente.
Nella trasmissione “Fahrenheit”, andata in onda su RAI Radiotre il 24 febbraio scorso, in un dibattito a due con Corbellini, l’ottimo Di Ciaccia si è difeso molto male, pur disponendo, a mio giudizio, di qualche valido argomento che sarebbe stato spendibile se fosse stato espresso in buon italiano, anziché nel solito gergo lacaniano incomprensibile ai più. Continuare a parlare (per di più di fronte al grande pubblico) del “desiderio dell’Altro” senza voler spiegare che cosa ciò significhi quando si potrebbe più agevolmente parlare di “relazioni”, è una pratica da convento di clausura, è l’esercizio di una microlingua capace di produrre l’isolamento “autistico” di chi la parla in un mondo che è diventato uno sterminato open space telematico. Poiché Di Ciaccia non è certamente illetterato, viene il dubbio che le espressioni usate da Lacan, ancorché tradotte dal francese, siano diventate un feticcio intoccabile; e forse questo è un argomento degno di attenzione da parte degli storici della psicoanalisi.
Se dalla parte di Corbellini e dei critici dell’interpretazione psicoanalitica dell’Autismo si insiste soprattutto nella critica al concetto di “madre coccodrillo” di Lacan, o di “madre frigorifero” di Bettelheim, si ha il dovere di parlar chiaro, perché altrimenti, di fronte a famiglie atterrite dalla prospettiva dell’handicap, qualsiasi espressione che suoni come colpevolizzante, rappresenta un trauma ulteriore, che rende comprensibili, anche se non giustifica, le accuse vergognose che vengono rivolte in rete a Bruno Bettelheim del quale si mette persino in dubbio l’esperienza vissuta a Dachau e a Buchenwald, e seguita, come quella di tanti altri sopravvissuti allo sterminio, dal suicidio.
Ciò che dal dibattito in corso non traspare con sufficiente chiarezza è che soltanto dei clinici poco esperti, indipendentemente dalla scuola di appartenenza, potrebbero “colpevolizzare” chicchessia; e che il problema della relazione primaria fra madre e bambino, oltre a essere ineludibile non può essere soggetto ad alcun tipo di sanzione morale, perché nei casi d’inefficienza materna, la madre stessa è reduce da un passato di trascuratezza e di dolore. In questo campo, gli studi sulla trasmissione transgenerazionale delle conseguenze dei traumi precoci e dei difetti di accudimento, sono troppo universalmente noti e condivisi perché si possa accusare qualcuno: madri troppo giovani, inadeguate al compito di sostenere la nuova vita che nasce, sono spesso, a loro volta, ancora delle bambine non adeguatamente accudite e affettivamente nutrite; donne soggette alla diffusissima depressione post-partum che non riescono a rimanere in intimo contatto emotivo con il bambino che nasce, non possono essere di certo colpevolizzate ma aiutate a sostenere ciò che a loro appare insostenibile. E che dire degli aborti mancati, di quelle situazioni in cui la decisione di proseguire una maternità è stata presa controvoglia o per decisione altrui? Il bambino che nasce, come scriveva lo psicoanalista Sándor Ferenczi, ha un bisogno vitale di essere “bene accolto”: in caso contrario, non trovando affetto, calore e intimità, può essere tentato di “lasciarsi cadere all’indietro, nella non-esistenza”; di morire cioè, o di essere sempre ammalato, o di piangere in continuazione esasperando ulteriormente una madre già troppo stanca e provata.
Ma perché, si dirà, sempre le madri? Perché non i padri, o le nonne, le zie, gli zii? Perché la madre è, per il bambino che nasce, l’intero universo, la casa, “l’Altro” di cui parla Lacan, lo specchio, il contenitore, la fonte di ogni nutrimento, calore e rassicurazione in un’epoca in cui, tutti gli altri non sono ancora stati neppure percepiti. Poi una madre eccessivamente stanca o ammalata può certo, anzi deve!, essere sostituita da qualcuno che la possa alleviare, da qualcuno che possa far sentire al bambino che un temporaneo impedimento della madre non è la caduta in un precipizio senza fine.
Se si fosse detto questo, a Corbellini e alle sue certezze, non sarebbe rimasta altra consolazione che la fede nella medicina basata sull’evidenza, che con il suo corredo di statistiche, acronimi e protocolli costituisce un verbo non meno dogmatico (e per nulla esente da conflitti d’interesse), dello stanco esoterismo rituale di certa psicoanalisi.
Io non credo affatto che la terapia cognitivo-comportamentale sia più o meno efficace della psicoanalisi (che, fra l’altro, non è più una sola, ma si dirama in molti approcci differenti), perché sono fermamente convinto che la bontà di un trattamento sia funzione della relazione intima che si stabilisce fra psicoterapeuta e paziente, in entrambe le direzioni, quali che siano i riferimenti dottrinali del terapeuta. Io stesso, psichiatra di passione psicoanalitica, non ho esitato a rivolgermi a ottimi colleghi cognitivo-comportamentali per miei familiari, quando ho ritenuto giusto farlo. Credo però che si debba sapere a quale obiettivo ci si rivolge e perché lo si fa; quale che sia l’approccio alla patologia autistica, nessuno potrà mai negare l’importanza della cura della relazione fra “quella” madre e “quel” bambino. E se per caso una madre scoprisse di avere per tutta la durata della gravidanza sognato di avere la pancia vuota, sarebbe di certo un grave errore scientifico trascurare quel dato per ripensare l’origine di una patologia, quali che ne siano le concause neurobiologiche di cui nessuno nega l’esistenza o l’evidenza.
Tutti noi psicoterapeuti abbiamo oggi un vitale bisogno di una robusta iniezione di laicità, ottenibile soltanto attraverso lo studio onesto e privo di censure della storia delle nostre discipline. Soltanto così riusciremo a essere un po’ meno partigiani e un po’ più credibili con noi stessi, ogni volta che avremo l’impressione di aver conquistato un piccolissimo frammento di Verità.