Dentro la stanza a tre letti c'è un'indefinibile odore di chiuso, misto ad altri che fanno pensare a corpi rilavati da poco, a farmaci e a cibi poco invitanti. La vecchia del letto di mezzo dorme con la bocca aperta. È immobile: sembra morta. Sono mesi che sembra morta.
Nel corridoio, fra l'andirivieni di infermiere vocianti e di degenti che si preparano per tempo per la cena serale delle cinque, la donna passeggia nervosamente avanti e indietro come chi sia pressato da un compito urgente che la riporta subito sui suoi passi, una volta esaurite le mattonelle di quel breve percorso. Ogni tanto la donna entra nelle stanze più affollate, dove i parenti scambiano concitatamente informazioni con le ausiliarie di turno (qui tutto è frenetico, a dispetto del tempo che non passa: chi può, ha fretta di andar via). La donna guarda gli interlocutori con aria interrogativa, come chi si senta chiamato a un compito urgente. Si inserisce nelle discussioni senza interloquire, con l'aria un po' stupita per il fatto di esserne estranea e all'oscuro. Forse è alla ricerca di un'efficienza perduta, di un protagonismo domestico che ne aveva fatto, al suo buon tempo, una donna spiccia e abituata al ponte di comando.
Dopo aver guardato gli interlocutori con aria perplessa, la donna esce di scatto dalla stanza, per riprendere quel suo affaccendarsi inoperoso, percorrendo a passi decisi quel piccolo corridoio, come a risolvere una nuova incombenza subito destinata a dissolversi contro un muro in penombra.
Oggi ci siamo parlati. Mentre sono nel corridoio in attesa, si affianca e mi guarda. Vedendo che ricambio lo sguardo, dice come se io comprendessi: "è là ...", indicando un punto vuoto, a metà del corridoio. Io non dico nulla, ma la guardo annuendo, con un gesto d'intesa. Mi guarda e prosegue, con l'aria quasi rassicurante: "ma non è ...". Sembra che voglia alludere a qualcosa o a qualcuno rispetto a cui ci si può rassicurare. Allora io dico: "ma non fa paura, vero?" "No, no, assolutamente". "Proprio così, proseguo, sembra anche a me che non faccia paura".
Subito dopo mi allontano. Le stesse ragioni che mi hanno condotto qua, mi portano fuori dal reparto per circa un quarto d'ora. Poi ritorno dentro.
Sono ancora nel corridoio, in attesa. La donna sta procedendo verso di me, e inizia a gesticolare, come per chiedermi di andarle incontro, intanto che procede. Io rimango fermo, con lo sguardo a terra. La signora mi viene accanto: "lei è quel signore di prima, vero? perché non è venuto? La chiamavo!" "Mi scusi, rispondo mentendo, ero soprappensiero, guardavo per terra e non ho visto che mi chiamava". In realtà volevo risponderle, evitando però di andarle incontro per non trasformare la nostra conversazione di prima in una pantomima che non avrebbe fatto bene né a lei né a me.
Mi guarda e dice: "io sono andata. Ho cercato di ..." fa un gesto con le mani, come chi mette assieme qualcosa. Fantastico di un oggetto assemblato in maniera precaria, la cui persistenza durerà un tempo molto limitato.
"Io, sa, ho fatto quello che potevo ... Per adesso sembra che ... Ma non so se ... Non so per quanto ...." La ascolto attentamente: davanti a quel discorso che in altri momenti della mia vita avrei considerato fastidioso, mi sento a mio agio. Lei non sa dire, ma ciò che vorrebbe dire per me è chiaro: basta pensare a quanto futuro le resta. È una donna dal fisico ancora energico e scattante, ma il suo destino potrebbe misurarsi su di una corona di rosario fatta di piccoli istanti.
Ho pensato altre volte al significato di un futuro che si accorcia. E mi sono chiesto anche come sarò io quando me ne resterà pochissimo. Per questo non mi sembra per niente strano o incomprensibile quel suo sconsolato bisogno di dirmi che lei il suo futuro sta cercando di tenerlo assieme, e per un po', forse, ci riuscirà. Ma per quanto tempo ancora? Non è tutto così dolorosamente precario?
Più tardi, siamo seduti nella caffetteria dell'Istituto, assieme alla persona che siamo venuti a trovare. "Sono contenta", dice mia figlia, all'improvviso. "Di che cosa?", le chiedo. "Di tutto!".
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