Non è certo un caso se Luiz Eduardo Prado de Oliveira,
psicoanalista franco-brasiliano, a esergo del proprio libro "Sándor
Ferenczi, la psychanalyse autrement" (Armand Colin, Paris, 2011) ha posto una frase di Freud tratta dall'Interpretazione dei Sogni, che suona così:
"Un amico intimo e un nemico odiato sono sempre state esigenze
indispensabili della mia vita sentimentale; ho sempre saputo procurarmene di
nuovi e non di rado l’ideale
infantile si è
ricostituito al punto di far coincidere nella stessa persona amico e nemico,
naturalmente non più
nello stesso tempo, o in varie alternative ripetute".
Se si parla di Ferenczi, la citazione precedente mi appare
significativa soprattutto se confrontata con la seguente, tratta da una lettera
scritta da Freud a Ferenczi il 21 novembre 1929:
"Senza alcun dubbio, nel
corso di questi ultimi anni, Lei si è
apparentemente allontanato da me. Interiormente non abbastanza lontano, io
spero, perché
mi possa aspettare da Lei, mio paladino e gran visir segreto, un passo verso la
creazione di una nuova analisi di opposizione".
Se molto si è scritto sulle ragioni obiettive e sui limiti personali che
condussero Freud e la sua cerchia a blindare la propria creatura all'interno di
una "chiesa" capace di somministrare l'approvazione e la condanna,
l'imprimatur e l'anatema, accogliendo in seno all'ortodossia oppure ripudiando
come eretici i contributi che non provenivano da Freud medesimo o dai suoi
fedelissimi, qualche parola occorre dire sui singolari rapporti che
intercorsero fra i due, anche e soprattutto in materia di adesione del secondo
alle idee del primo.
È noto che Freud, la cui attività epistolare fu quotidiana e
instancabile, scambiò con Ferenczi il maggior numero di lettere, fra tutte
quelle che inviò e
ricevette da discepoli, collaboratori, amici, pazienti, e persino familiari. Ed
è noto anche che Freud avrebbe
visto di buon occhio un matrimonio fra l'Ungherese e la propria figlia
Mathilde.
Ed è d'altra parte noto che l'idealizzazione di Ferenczi per il
maestro, amico e analista di tutta una vita, raggiunse livelli molto elevati.
Se si segue la corrispondenza e la produzione scientifica
del secondo, non si può far a meno di notare che a fronte delle sue scoperte più significativamente divergenti
dall'ortodossia freudiana -valga come esempio paradigmatico, il ruolo che
Ferenczi, in collaborazione con l'amico Otto Rank, attribuisce, negli Entwiklungsziele der Psychanalyse (Prospettive di sviluppo della psicoanalisi,
1924), al "ripetere" in analisi le esperienze traumatiche rispetto al
"ricordare", che, soltanto dieci anni prima, in Ricordare, Ripetere, Rielaborare, Freud aveva indicato quale
obiettivo della tecnica analitica- Ferenczi sarà continuamente portato ad
affermarne l'"assoluta fedeltà" alle idee di Freud (ciò anche a scapito
dell'evidenza), mentre questi mostra in più di un'occasione un'insolita e a tratti un po' forzata
tolleranza.
Tuttavia, durante la seconda metà degli anni Venti, con il
progredire delle scoperte di Ferenczi in materia di psicopatologia ad eziologia
traumatica, il solco fra il Maestro e l'Allievo si approfondirà fino alla rottura definitiva.
Tutto il resto, sia pure per troppo tempo mantenuto sotto
silenzio, è
ormai da anni cosa nota. Tuttavia, fra i non pochi aspetti della vicenda che
ancora mi incuriosiscono, c'è proprio la definizione
"mio paladino e gran visir segreto", la cui caratteristica di
ossimoro non è
forse ancora stata esaminata a fondo.
È noto che il richiamo ai paladini di Carlo Magno scaturisce
nelle discussioni fra Ferenczi e Jones all'epoca della costituzione del
"Comitato Segreto", nato per tutelare quello che oggi definiremmo il
"copyright" delle produzioni scientifiche considerate
"ortodosse" rispetto a lavori che tali non erano a giudizio di Freud
e della sua cerchia, soprattutto durante gli anni immediatamente seguenti il
traumatico allontanamento di Jung.
È d'altra parte noto che, essendo quello di Gran Visir il
titolo spettante al Primo Ministro (secondo solo al Sultano) nell'impero
Ottomano, esso appartiene a quella Religione Musulmana, a lungo combattuta dai
Paladini di Re Carlo. Quindi si può dire che "paladino e gran visir" sono due
opposti in uno: un ossimoro, per l'appunto, certamente rivelatore di una
duplicità,
forse di un ambivalenza, di una profonda contraddizione in colui che l'ha
formulata.
Di quale natura sia questa contraddizione inconscia è impossibile dire. Per questo
vorrei proporre una congettura.
Non vi è dubbio che, come afferma André Haynal per spiegarla, Freud
ebbe sempre in simpatia le personalità "scapestrate". Ma il vero problema è: perché? Forse perché riconosceva in loro quello
stesso febbrile ardore che aveva caratterizzato la sua gioventù e, almeno in parte, la sua
maturità di
scienziato fino all'esplodere della malattia che lo avrebbe portato, sia pure
in un tempo sensibilmente più lungo di quello ipotizzato, alla morte?
Perché Freud, così geloso della fedeltà alle proprie scoperte, avendo egli messo a nudo un aspetto
allo stesso tempo illuminante e imprigionante della "verità" dei contenuti
dell'Inconscio, offuscata dalle difese nevrotiche che impedirebbero al soggetto
"non sufficientemente analizzato" di accedervi, questione ineludibile
nell'analisi del singolo, ma anche foriera di arroccamenti dogmatici nella
ricerca e nella trasmissione dottrinale, perché Freud - mi chiedo- tollerò tanto a lungo quell'allievo
"scapestrato" e geniale, detestato da Jones e dai berlinesi al punto
da creare continue frizioni in seno al movimento, e tuttavia impossibile da
rigettare con la stessa determinazione con cui erano stati allontanati (o
lasciati allontanare), Adler, Stekel, Jung, e persino il "figlioccio"
Otto Rank?
Perché, ipotizzo, a Freud non sfuggiva né il fatto di essere troppo
vecchio per ricominciare a "ricercare nuovi filoni auriferi in gallerie
(provvisoriamente?) dismesse" trent'anni prima (all'epoca dell'abbandono
della "Teoria della Seduzione", 1897), né il fatto che al di fuori
delle alte mura erette attorno all'ortodossia potessero crescere germogli nuovi
e promettenti. Non potendo vivere, come noi tutti, più di una vita
contemporaneamente, forse Freud si concesse, in un angolo remoto del cuore, di
immaginarne un'altra. Ma troppo era il peso della responsabilità davanti alla Storia, per
potersi permettere ripensamenti ondivaghi o tardive revisioni. Questi furono,
forse, l'estensione e i i limiti del suo narcisismo.
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