Rimango
sempre stupito quando Matilde intercetta i miei momenti d’irritazione
di fronte alle sue resistenze. A volte si tratta di stati d'animo subliminali
di cui io prendo coscienza piuttosto lentamente. Si può dire che
in più
di un'occasione mi sono sentito analizzato, diagnosticato, e alla fine della
mia autoriflessione non ho trovato traccia di proiezioni. Semplicemente,
Matilde aveva ragione.
La
consapevolezza che ne è
seguita si accompagnava a un sentimento d'incertezza, non tanto per
l'inversione di ruolo: è
stato Ferenczi ad insegnarci che il paziente può avere ragione e noi torto, in un
tempo in cui gli analisti avevano rimosso questa semplice ovvietà. Quello
che mi ha lasciato incerto è
stato il dubbio di aver perduto, sia pure transitoriamente, la barra del
timone, ciò
che rende il terapeuta terapeuta e il paziente paziente. O, se vogliamo dirla
in modo meno crudo, di aver oltrepassato il confine invalicabile
dell'asimmetria della relazione terapeutica, quella che ci fa sentire che il
genitore non può
mai smettere di essere tale, caricando sulle spalle del figlio il peso della
propria inadeguatezza.
Queste
riflessioni mi vengono alla mente stasera, ultimo giorno delle vacanze estive,
alla vigilia della ripresa. Mi vengono in mente mentre sto leggendo un piccolo
testo straordinario di Irvin Yalom nella traduzione francese perché la mia
lettura in questa lingua è
molto più
spedita di quanto non lo sarebbe nella versione originale inglese: il libro non
è
mai stato tradotto in italiano, e nella versione scaricata sul mio tablet si
intitola "La malediction du chat
hongrois. Contes de psychotherapie", edito in Francia da Galaade. In
inglese: "Momma and the meaning of
life. Tales of psychotherapy" Harper Collins, New York).
Yalom, noto
al pubblico italiano per tre romanzi di grande successo (La cura Schopenhauer,
Le lacrime di Nietzsche, Il problema Spinoza), e per il denso "Teoria e
pratica della psicoterapia di gruppo" scritto in collaborazione con Molyn
Leszcz e pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri, è uno
psichiatra psicoterapeuta che mi toglie, non senza procurarmi sollievo, ogni
illusione di originalità,
poiché
il suo stile di lavoro, che lui definisce "interattivo", è improntato
alla più
grande libertà
immaginativa sia nelle parole che nelle azioni terapeutiche, nulla concedendo
all'obbedienza a una tecnica che nei tempi remoti della mia formazione assimilai (per responsabilità
certamente condivisa) come una perentoria questione di "tutto o
nulla".
Sulle orme
di un extra ecclesiam nulla salus che ha storicamente segnato, nel
bene e nel male, il cammino dell'ortodossia psicoanalitica, l'apprendimento
della tecnica era stato trasmesso o recepito come un "dover essere" da
rispettarsi con estrema puntualità, pena lo scadimento della nobiltà del
metallo analitico -causa l’attenuarsi
di un rituale composto di lettino, numero e durata delle sedute, neutralità,
silenzio, divieto di ogni autodisvelamento, astinenza da qualsiasi forma di improvvisazione o
creatività- in un metallo molto più
vile, anche se a parole accettato con benevola e paterna degnazione dai
sacerdoti di quello che era a tutti gli effetti un sapere iniziatico.
Il mio
percorso personale, dalla timorosa e frustrata obbedienza all'inflessibilità
dell'insegnamento alla tardiva decisione di "fare con ciò che c'era
in casa" senza aspettare un’ulteriore investitura che non sarebbe
venuta, è
stato doloroso e difficile, e a stento supportato dall'insegnamento di un
maestro che, negli interstizi di un silenzio tombale e non sempre capace di
contatto, seppe far filtrare in me l'idea che soltanto disobbedendo e
sopportando la solitudine che sarebbe seguita alla trasgressione, avrei potuto
trovare "un senso", magari lontano dagli approdi che mi ero proposto.
Fu solo
attraverso una rabbiosa quanto ostinata ricerca di un punto di convergenza con
un sapere che sentivo intimamente mio e il suo rifiutarmisi, che mi fu
possibile "fare di testa mia" (anche grazie alla strada segnata da
altri ben più
geniali e tragici trasgressori), seguendo la traccia dell’empatia,
senza perdere il valore di un atto
terapeutico per nulla "minore" o degradato, come l'inflessibile
insegnamento originario mi aveva fatto temere.
Durante
tutto questo lungo percorso, Matilde è stata con me, sin dall'epoca delle
scelte "ortodosse" quando la terapia non riusciva a decollare a
causa del suo ostinato e interminabile silenzio e della mia totale incapacità di farvi
fronte.
Nonostante
questo fallimento, Matilde non ha mai smesso di aspettare che io potessi
offrirle qualcosa di diverso che evidentemente covava sotto la cenere, e che
lei, forse addirittura prima di me, aveva oscuramente intuito.
Oggi, Matilde
è
con me, in un percorso accidentato ma ricco e fiorito di parole, sue e mie,
essendo stato definitivamente appurato che lettino, silenzio e astinenza sono,
in quella situazione specifica costituita da noi due, strumenti inservibili.
Leggendo
Yalom, oggi scopro di non essere affatto solo nel perseguire la "verità" (e
non la "pietosa bugia rispettosa delle difese del paziente"!)
attraverso mezzi inconsueti, non codificabili, e improntati all'interesse
primario per la relazione, alla sincerità dell'ispirazione nel qui e ora, e
alla radicata convinzione di partecipare della medesima natura difettuale del compagno
di viaggio, fatta salva la consapevolezza della mia inalienabile responsabilità di
genitore-terapeuta.
È stato proprio leggendo il capitolo
"Una terapia del lutto in sette lezioni", nel libro che ho appena
menzionato, che ho ripensato frequentemente a Matilde, proprio a causa della
conflittualità
che si instaura fra il terapeuta e una paziente apparentemente
"impenetrabile", in un contesto nel quale il terapeuta non fa nulla
per nascondere i propri momenti di rabbia.
Ho
ripensato a Matilde, sempre così
acuta nell'anticiparmi intercettando ogni mio più nascosto malumore nei suoi
confronti, perché
la so spinta da un'angoscia specifica: quella che la mia rabbia serva a punirla per avermi "costretto" a
separarmi dal sapere materno, accompagnandola lungo sentieri impervi e
sconosciuti, senza alcun manuale di tecnica che ci possa servire da bussola.
Forse
Matilde si sente in colpa per questo, e forse anche in cattive mani, avendo in
un tempo remotissimo introiettato lei stessa quella lezione inflessibile che aveva
reso difficoltosi i miei primi passi. Dovrò convincerla, ora, che non ci aspetta
un ritorno alla casa perduta dei miei antichi genitori scientifici, per poter
conquistare uno spazio all'interno di un setting canonico che la possa
definitivamente liberare. La nostra meta è un'altra, e non sarà un
ripiego, né
per me né
per lei. Bentornata Matilde, bentornati tutti.
Sono passati 3 anni e la traduzione in italiano di " Momma and the meaning of life. Tales of psychotherapy" è finalmente arrivata. In questo blog ne ho scoperto l'esistenza, in molte situazioni ne ho letto capitoli prima di ritrovarli su queste pagine di Yalom. Caro Gianni, se nei tuoi confronti sono in debito per la scoperta di questo autore, devo a me, lettrice troppe volte distratta, la riconoscenza per essere entrata in questo libro, oggi, con occhi più attenti. Ogni estate trascorsa la si può guardare con rimpianto ( stagione in meno, andata perduta ) o rallegrandosi, scoprendo che è una parte di vita in più, faticosamente conquistata.
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