Nel 1915, Ferenczi scriveva: “Si può pensare che, da un certo punto di vista, gli avvenimenti più atroci e sconvolgenti possano apparire come esperienze smisurate di psicologia sperimentale, una sorta di Naturexperiment che lo scienziato non può realizzare nella sua stanza ma tutt’al più nel laboratorio del proprio pensiero. La guerra costituisce una di queste sperimentazioni su scala cosmica”. (L’era glaciale dei pericoli, 1915, in: Opere, Cortina, vol. II p. 212).
Ferenczi, che sarebbe morto nel 1933, non seppe mai nulla della Shoah, anche se dai suoi scritti clinici si può facilmente intendere com’egli ne abbia perfettamente intuita la logica perversa e soprattutto l’effetto che essa avrebbe avuto sulla mente dei sopravvissuti. Toccherà poi ad altri, fra i quali lo psicoanalista Bettelheim, verificarne, sul campo e sulla pelle, le intuizioni.
A leggere “Sopravvivere” di Bruno Bettelheim (Feltrinelli, 1989), si resta sconcertati nel constatare quanto lucidamente Ferenczi avesse colto il meccanismo di “introiezione dell’aggressore” da lui identificato nell’analisi di pazienti gravemente traumatizzati, che ha persino un puntuale riscontro nella notizia, tramandataci dallo stesso Bettelheim, che alcuni prigionieri dei campi di sterminio usassero raccogliere, a rischio della vita (in una dimensione psicologica talmente devastata da rendere ormai tale rischio inavvertibile), vecchi brandelli di uniformi dimesse dalle SS per potersene adornare.
Sulla stessa scia di Ferenczi, Bettelheim scrive che “Il campo di concentramento fu per la Gestapo una sorta di laboratorio in cui sottoporre gli uomini liberi a un processo di disgregazione dell’autonomia individuale” (ibid. p. 85).
Quest’idea di una “specializzazione psicologica” sia pure volta a fini distruttivi ha qualcosa di misterioso e inquietante.
Se da un lato è piuttosto facile comprendere da quali fonti il medico Joseph Mengele avesse appreso le proprie nozioni di anatomia, chirurgia, e genetica, rimane misteriosa la fonte della specializzazione che i campi di concentramento nel loro insieme (e quelli di sterminio in particolare), utilizzarono per estrarre dall’anima dai corpi dei prigionieri fintanto che erano viventi, trasformandoli irrimediabilmente in “qualche cosa d’altro” che ancor oggi ci pone la terribile domanda “se questo sia (ancora) un uomo”.
Nella tecnica di spoliazione delle qualità umane, ciò che maggiormente impressiona è la (mi si perdoni il termine) “raffinatezza strumentale”, la precisione operativa, quasi che chi l’ha messa in pratica avesse conoscenze non banali né superficiali di natura psicoanalitica e filosofica. E non mi riferisco soltanto ai mandanti, ai pianificatori del genocidio, né tantomeno agli oscuri e “banali” contabili della distruzione alla Eichmann, quanto piuttosto a chi seppe tradurre quella minuta e millimetrica psicodistruzione in agire quotidiano. Certo: chi programmò la spoliazione dei beni più intimi e personali, a cominciare dal nome, per arrivare alle fotografie dei congiunti, alle scarpe (che ci separano dalla sporcizia indifferenziata e tossica della terra), ai vestiti e ogni più piccolo effetto personale, disponeva oltreché di un’organizzazione mentale sadica anche di un’intelligenza luciferina.
Ma è possibile che ciò diventi fenomeno diffuso in così larga misura? Se è vero che per intercettare le sacche più riposte di vitalità bisogna ricorrere a strumenti di precisione, di quanti potenziali premi Nobel per la psicologia del profondo disponeva il III Reich?
Qualcosa sfugge nel funzionamento dell’intelligenza umana che presiede alle scoperte, utili sia a riparare che a distruggere, qualcosa che acquista un livello di inaspettata lucidità e profondità, che ci appare incomprensibile di fronte all’evidenza delle testimonianze e della voce delle vittime.
Ma come avrà fatto quello “grande e grosso” di cui Primo Levi parla nel capitolo “Sul fondo” di “Se questo è un uomo” a cogliere in maniera così millimetrica il senso della “spoliazione di senso” che è alla base di ogni trauma estremo?
“Spinto dalla sete, ho adocchiato, fuori dalla finestra, un bel ghiacciolo a portata di mano. Ho aperto la finestra, ho staccato il ghiacciolo, ma subito si è fatto avanti uno grande e grosso che si aggirava là fuori, e me lo ha strappato brutalmente. «Warum?» gli ho chiesto nel mio povero tedesco. «Hier ist kein Warum» (qui non c’è perché), mi ha risposto."
Incredibile: molti anni prima che Bion intuisse che la nascita psicologica consiste in un rifornimento di significato che ci giunge dalla mente di nostra madre a rivestire i nostri protopensieri senza nome, “quello grande e grosso” aveva già intuito tutta la strada del ritorno, della decostruzione, del senso e dell'individuo.
Sono infantilmente stupito –e istupidito- da questo pensiero che si fa beffe della mia sapienza accumulata in anni e anni.
A risvegliarmi dal torpore provvede la mia collega Susanna Lorenzetti, pedagogista presso il mio Servizio che mi dice: “ma come non capisci? Se ci fosse un perché, il soldato sarebbe morto. Nel senso che non potrebbe resistere. Certo che non c’è perché”.
Susanna ha certamente ragione, ma da quello grande e grosso, mi sarei aspettato più un “crepa!”, che un pensiero tanto raffinato. Continuo a non capire: qualcuno mi aiuti, per favore.
Riflessione in posizione mooolto a sbalzo rispetto alle mie competenze.
RispondiEliminaWarum è avverbio che si usa solo per introdurre una domanda (= why?), e il tipo grande e grosso risponde usando il warum del prigioniero, e non il weil, che si usa per spiegare.
La sua è una risposta frettolosa che nega l’esistenza di qualsivoglia significato, oppure è una risposta ancora più raffinata che vuole negare anche il diritto di porsi delle domande, di pensare, di esistere?
Ti mando anche il link a un’intervista di un amico a Germano Facetti (direttore Penguin Books anni ’60 e ’70), compagno di prigionia di Ludovico Belgiojoso (architetto dei BBPR) pubblicata da Domus http://www.domusweb.it/it/art/mauthausen-facetti-belgiojoso-/ “Le sere, e nei pochi momenti di riposo che ci erano concessi, a bassa voce e guardando altrove per evitare le punizioni dei Kapò, ci raccontava la storia degli Sforza a Milano, ci spiegava come costruivano gli architetti italiani del Rinascimento, ci ripeteva le poesie dei lirici greci… parlandoci del bello, dei valori della cultura, liberava le nostre menti dall’orrore quotidiano e ci consentiva di sperare ancora: l’unico modo per non arrendersi alla bufera che ci assediava. “
Non esiste un perchè? Quando mai?
RispondiEliminaA proposito dei Lager ne ho trovati molti nel libro “I sommersi e i salvati” di Primo Levi (Einaudi 1986).
Nella conclusione del capitolo -Violenza inutile- vengono riportate alcune battute ricavate dalla lunga intervista di Gitta Sereny a Franz Stangl, ex comandante di Treblinka ( "In quelle tenebre" (Adelphi, 1975):
' "Visto che li avreste uccisi tutti... che senso avevano le umiliazioni, le crudeltà?", chiede la scrittrice a Stangl, detenuto a vita nel carcere di Dusseldorf; e questo risponde: "Per condizionare quelli che dovevano eseguire materialmente le operazioni. Per rendergli possibile ciò che facevano". In altre parole: prima di morire, la vittima dev'essere degradata, affinché l'uccisore senta meno il peso della sua colpa. E' una spiegazione non priva di logica, ma che grida al cielo: è l'unica utilità della violenza inutile.'
Anche Bettelheim ha scritto qualcosa del genere: la Shoah avebbe fatto parte di un progetto più ampio, da portare a compimento una volta portato a termine il genocidio: la sottomissione della società intera, ottenuta attraverso un regime di terrore imposto agli stessi tedeschi cosiddetti "ariani" (parola che si ha difficoltà a pronunciare e che dovrebbe essere eliminata dai dizionari).
EliminaI primi tedeschi a subire questo tipo di terrore sarebbero stati quindi coloro che dovevano vivere più a contatto con i prigionieri; anch'essi, in una certa misura, furono espropriati di qualità etiche eliminabili attraverso l'appartenenza a un gruppo dotato di un funzionamento mentale di tipo paranoide.
Tuttavia, quando mi riferivo all'assenza di un "perché" non pensavo alla mancanza di una causa in senso filosofico o storico; pensavo piuttosto a ciò che le vittime erano costrette a pensare. La filosofia aristotelica ci aveva insegnato che tutto ha una causa, ad eccezione del Principio primo che è causa di se stesso. Ai prigionieri nei campi si tentò persino di cambiare le categorie del pensiero: fu un omicidio dell'anima ancor prima che del corpo.
Grazie in ogni caso, caro amico o amica, del commento. Mi farebbe piacere sapere chi sei, e ancor più ritrovarti ancora su questo Blog
La mia osservazione sull'assenza dei perché era riferita alla frase perentoria della sua collega.... Vorrei aggiungere ancora una breve osservazione personale. Non riesco ad attribuire alla risposta dell'uomo grande e grosso nulla di raffinato. Non se lo merita. Capisco però che, filtrata attraverso la sua raffinata rilettura , possa apparire tale...
RispondiEliminaCi ritroveremo sicuramente su questo Blog anche perché l'anonimato aiuta i vili ma, in questo caso, anche i timidi .
L'intelligenza degli aguzzini atterrisce sempre, e non cessa di stupirmi anche se non lo meritano.
RispondiEliminaRispetto il suo riserbo, ma si scelga almeno uno pseudonimo, magari accompagnato (mi perdoni la curiosità) da una connotazione di genere. Altrimenti, come fare a distinguere un Anonimo da un altro Anonimo? o da un'altra Anonima?