Carla è una collega con la quale sto
progettando un lavoro comune; in passato sono stato uno dei suoi supervisori.
Oggi noi abbiamo un rapporto molto "alla pari", però
in lei è
rimasto qualcosa di quel rispetto un po' "reverenziale" che spesso,
nelle relazioni magistrali, residua fra gli allievi psicoterapeuti non di rado
frenandone la crescita. Almeno a me, da discepolo, era accaduto questo, e perciò
oggi, nelle relazioni con chi mi è transitoriamente allievo, cerco di
essere attento a non lasciar crescere troppo l'idealizzazione, ricordando
sempre, a me stesso prima che ad altri, ciò che spesso ripeteva un mio professore
di liceo: "tutti nasciamo nudi", per dire che, alla fin fine, ci
riconosciamo tutti nelle medesime difficoltà, e soffriamo di identici timori. In
fondo, fra i peccati originali della Psicoanalisi, vi è anche quello di un
Maestro che si lasciò ripetere dagli allievi: "Lei è l'unica persona
che non ha bisogno di analisi, avendo già capito tutto". Fu davvero un
delitto che ciò sia passato senza essere messo al vaglio della potente
lente psicoanalitica, perché si permise che un pensiero tanto
superstizioso e subalterno inquinasse gravemente le sorgenti di un sapere
rivoluzionario.
Sono qui, con Carla, ma non sono
sereno. Dobbiamo progettare un lavoro tutto nuovo, che sostituirà,
almeno parzalmente, il lavoro pubblico che sto lasciando dopo un quarto di secolo
di attività, nel quale la mia identità personale si è in buona parte incarnata. Sono in lutto: mentre stiamo
parlando perdo spesso il filo del discorso perché altri pensieri mi attraversano la
mente.
Carla mi dice: "sei
depresso!", ma subito sembra spaventata di aver "osato" ciò
che evidentemente ritiene essere un eccesso di confidenza.
"Hai ragione" rispondo. E
vorrei cominciare a parlarle del fatto che i miei percorsi quotidiani stanno
cambiando, le mie abitudini mutano radicalmente, i punti di riferimento, le
scadenze orarie: tutto è improvvisamente diverso da come era prima, e mi devo
adattare. Niente di drammatico, nulla che possa essere paragonato a un'angoscia
grave o inquietante. Ma un senso di perdita, un nuovo e irrimediabile modo di
guardare il futuro sono ormai qui.
Questo vorrei dire a Carla, ma non
riesco. Mentre sto iniziando ad aprirmi, vengo alluvionato da un fiume di
parole che vorrebbero essere rassicuranti e ottimistiche, ma che hanno quale
unico effetto quello di impedirmi di parlare. Il mio senso di oppressione
aumenta.
A un certo punto la interrompo:
"chi è, ora, il paziente?". Carla rimane per un attimo
interdetta: "come chi è il paziente? C'è
un paziente?". "Io sono il paziente" rispondo. "Mi sto
aprendo con te che mi ascolti. E se sono il paziente, devi lasciarmi
parlare".
Intendiamoci: conosco Carla da molti
anni, avendola vista lavorare bene con pazienti difficili. In lei ho totale
fiducia. Quindi credo che questo suo atteggiamento scarsamente accogliente sia
il prodotto, momentaneo e assolutamente inusuale, del suo timore reverenziale
per me. Io mi sono rivolto a lei cercando ospitalità, spazi mentali
aperti e accoglienti per poter pensare. Avevo, come ogni paziente, bisogno di
vuoti, non di pieni. Di una casa dove rifugiarmi, non di comizi o di buoni
consigli.
Carla si è trovata
all'improvviso sprovvista della propria abituale saggezza terapeutica perché
imbarazzata dall'occuparsi per una volta di me anziché io di lei. Mi ha
persino ricordato che, in un tempo lontano, aveva fantasticato di chiedermi di diventare
suo analista. Come è possibile che ora le parti si invertano? Cos'è
questa storia che i genitori invecchiano? Com'è possibile che, a un certo punto,
dobbiamo diventare noi i genitori di chi ci ha messo al mondo? Sulla nave che
li trasportava in America, Freud ascoltava volentieri i sogni di Jung e
Ferenczi, ma quando venne il suo turno, accampò scuse, si sentì male, disse di non
poter rinunciare "alla propria autorevolezza". Quell'immodestia diede
un contributo non secondario all'allontanamento di Jung e contribuì
non poco all'infelicità di Ferenczi. Ma soprattutto inserì nel DNA spirituale di una grande famiglia
scientifica il gene della sottomissione.
P.S.: so bene che ciò che ho appena scritto farà arrabbiare qualcuno. E' proprio a loro che lo dedico.
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