In queste brevi note
non mi soffermerò più di tanto a parlare del pensiero di Winnicott, che pure
fece della distinzione fra Vero e Falso Sé uno dei pilastri portanti della sua
costruzione teorica. Anche perché definire esattamente che cosa sia il Vero Sè
è impresa temeraria e probabilmente votata all’insuccesso, dato che di questa
entità nascosta non si possono che avere approssimative anche se a volte
folgoranti intuizioni.
Le
riflessioni che seguono sono il resto di due esperienze susseguitesi nel giro
di poche ore: una seduta con P., donna la cui appassionata vitalità si nasconde
dietro una cortina molto ben strutturata di preoccupazioni estetiche, e la
lettura di un articolo comparso sulle pagine culturali nel numero di oggi, 8
Settembre 2014, di Repubblica.
P.,
che in sogno teme di perdere la propria bellezza che verrà poi restaurata da
manufatti chirurgici della cui efficienza e stabilità sembra fortemente
dubitare, è angosciata dall’idea che l’analisi stessa possa contribuire a
metterla a nudo rivelando impietosamente ciò che lei stessa teme o dispera di
conoscere; mentre l’autore dell’articolo, lo scrittore Michael Cunningham,
racconta magnificamente il linguaggio di un’opera d’arte, la statua funeraria
di Ilaria del Carretto di Jacopo della Quercia, conservata nella cattedrale di
San Martino a Lucca.
Seconda
moglie di Paolo Guinigi, aristocratico e tirannico signore del luogo, Ilaria
morì a 26 anni dopo aver dato alla luce il secondo figlio della coppia.
Alla sua morte, il consorte commissionò il monumento funerario che la ritrae
dormiente con un cane (simbolo di fedeltà) accovacciato ai suoi piedi.
L’articolo
di Cunningham passa in rassegna tutto ciò che la statua non può dire dei
sentimenti di Ilaria morente, compresa la rabbia per dover rendere la vita in
un’età così precoce, dopo aver adempiuto i propri “doveri” di madre e moglie
esemplare, quale l’intenzione del committente intendeva ritrarla.
Jacopo,
in un’epoca in cui Bernini, Michelangelo e Leonardo non erano nati, realizza
un’opera magnifica, infondendo nel viso della donna un’ineffabile aura di
mistero e di muta compostezza.
Ciò
offre all’Autore dell’articolo l’occasione per addentrarsi in riflessioni che
hanno avuto su di me un effetto di vertigine e di affascinata passione, in
particolare in alcuni passaggi che voglio qui riportare:
“Il
compito dell’artista è riprodurre la nostra umanità nascosta. Il compito
dell’impresario di pompe funebri è farci assomigliare, seppur fugacemente, a
come eravamo in vita”.
O
meglio: a come pensavamo noi di essere, o come gli altri ci vedevano. Oppure
(come nel caso di una giovane donna consegnata alla memoria eterna dal volere
di un marito dispotico, preoccupato soprattutto di ricordarne la fedeltà, e già
proiettato verso nuove imprese erotiche o matrimoniali), come gli altri
pretendevano di rappresentarci.
Ma
c’è qualcosa che l’Autore descrive e che rappresenta l’incontro del soggetto
con la propria “vera” realtà (il Vero Sè, direbbe Winnicott), che lascia senza
fiato.
Cunningham
racconta: “Ho un amico che è morto, per qualche minuto, durante un’operazione
chirurgica. Niente battito, niente respiro. e, grazie alla strana magia della
medicina moderna, è stato riportato in vita. Dopo quello che ci parve un
rispettoso intervallo di tempo, noi che lo conoscevamo gli chiedemmo che cosa
avesse provato in quei quattro minuti e poco più che era stato, tecnicamente,
morto. (...) «Ebbi la sensazione -fu la risposta dell'amico- di essere in
presenza di qualcosa che mi aveva riconosciuto». Aggiunse poi che non era come
se fosse stata riconosciuta la sua identità, la sua persona; a quanto pareva,
le sue azioni terrene avevano ben poca importanza. Disse di aver avvertito la
presenza di qualcosa che lo conosceva a un livello più intimo e profondo,
che non aveva niente a che vedere con quanto immagino chiameremmo la sua
identità. Si sentì riconosciuto nello stesso modo in cui una neo-mamma
riconosce il suo bebè appena nato”.
Confesso
che queste righe mi hanno emozionato non poco. La conoscenza che una mamma ha
del proprio neonato va al di là di ogni linguaggio e di ogni capacità cognitiva
a noi nota se non in larga approssimazione; e siccome io non sono affatto
disposto a ricorrere alla semplificazione logica di un’interpretazione che
immagini l’anima del quasi-defunto posta transitoriamente alla presenza di
un'Entità onnisciente, ho piuttosto la tendenza a immaginare che
una regressione così massiccia abbia posto la mente del soggetto di fronte
a una percezione di sé non mediata dai linguaggi, dalle narrative storiche,
dalla serie infinita delle sovra-trascrizioni della propria memoria
autobiografica, che contraddistinguono la nostra vita psichica adulta.
Molto
spesso, come nel caso di P., queste trascrizioni sono l’effetto di complicate
relazioni simbiotiche che includono nella percezione di sé molti pensieri
introiettati attraverso l’intimo contatto con altri, anche nel caso che tali
introiezioni abbiano trascinato dentro il Sé sentimenti anaffettivi, o
antlibidici transitoriamente o stabilmente presenti nei propri antichi caregivers, che conferiscono al
soggetto un senso di smarrimento e un’angoscia che richiede di essere rivestita
di immagini tanto appariscenti quanto malferme.
Ma,
analogamente a quanto accade alle giovani madri, allo psicoanalista è concesso
il privilegio di riuscire a individuare da piccoli segni, da fugaci impressioni
e da propri stati d’animo, elementi il più delle volte frammentari di una
realtà affettiva profonda e degna di essere apprezzata e amata, di cui rendere
partecipe il paziente.
Sono
i nostri sentimenti più difficili da definire a essere maggiormente in contatto
con ciò che l’Altro non riesce a cogliere di Sé.
E
la realizzazione di questo compito, di certo rudimentale e approssimativa, è
ciò che di più prezioso la psicoanalisi possa perseguire, al di là di ogni
possibile definizione, da tale angolo visuale estremamente riduttiva, di stati
morbosi e di rimedi terapeutici.
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