Normalmente, analista e paziente adulto si danno reciprocamente del lei. La regola non dovrebbe essere obbligatoria, ma l’uso del lei è utile a evitare scivolamenti in contiguità premature o false: qualcosa che, essendo diverso da una vicinanza autentica, rischierebbe di provocare ulteriore imbarazzo e persino umiliazione.
Gli anglosassoni, che hanno uno “you” che va bene per tutto (distanze siderali comprese), riescono a cavarsela benissimo lo stesso. Evidentemente hanno a disposizione altri sistemi per avvicinarsi o per allontanarsi.
La questione della distanza in analisi è complessa, perché dipende in primo luogo da un’angoscia di base del paziente che ha alle spalle esperienze precoci di malaccudimento.
Mario, un mio paziente, una volta mi raccontò che sua madre, ogni volta che lui, bambino, si arrampicava sul divano sul quale lei era seduta, diceva immediatamente “mi fanno male le gambe”, come a voler implicitamente avvertire: “bada bene di non salirmi in braccio”.
L’analisi di Mario durò molti anni, e fu difficile raggiungere un accettabile grado di vicinanza: era chiuso in una specie di “rifugio della mente”, e stentava molto a entrare in contatto. Per lui, che era un dirigente industriale, le sedute erano sempre “riunioni”, parola dai molti significati, che nel suo caso, tuttavia, evocava l’atmosfera rigida e formale dei briefing aziendali.
Se la lontananza affettiva di madri depresse e "poco entusiaste della vita" (rubo questa felice espressione a Franco Borgogno) è una condizione iniziale che può conferire alla personalità gravi difficoltà relazionali, è possibile che anche noi terapeuti, attraverso formalismi eccessivi, facciamo troppo poco per incoraggiare i nostri pazienti più introversi e bisognosi di un'accoglienza calda ed empatica.
Ed è proprio sull’ambiguità del “lei” che si gioca il desiderio impossibile del paziente di avvicinarsi, quando soltanto il ricorso a un vocativo (sempre difficile, sempre imbarazzante) potrebbe rompere certe distanze impossibili.
Pochi giorni fa, Rosa mi parlava di un’altra donna e diceva “lei mi ha detto … e mi sono ricordata che lei mi aveva detto ...”. E io: “ma lei chi?”, “Lei, lei!”, rispondeva Rosa. “Lei?” “Lei!” E alla fine, per “disperazione”, si è risolta a indicarmi con il dito, senza guardarmi.
L’episodio mi ha ricordato che, tanti anni fa, durante la mia analisi, mi era accaduta la stessa cosa. E ricordo ancora l’emozione e l’imbarazzo con il quale accarezzavo con la lingua la parola “lei”, che in quel caso aveva esattamente la funzione di vocativo. Un vocativo clandestino, come se chiamare la mia (prima) analista direttamente e per nome fosse un piacere segreto e proibito. Del secondo non dirò altro se non che il chiamarlo “professore” mi cresceva in bocca come un uovo a espansione.
(p.s.: Questo post ne sostituisce uno precedente che quasi nessuno aveva capito. Ci sarà un motivo?)
E' chiaro Gianni, talmente chiaro da lasciar ritornare il sapore della timidezza, del desiderio e della liberazione o conquista di quando, in analisi abbiamo osato un "ma tu ... mi scusi dottoressa, volevo dire lei ...". A quel punto, al di là del passo indietro formale, la con - fidenza e la fiducia
RispondiEliminaerano sentite e vissute e si era disposti a rischiare il prezzo più alto per la propria salute psichica, quello dell'intimità in cui siamo e ci possiamo mostrare nudi e indifesi all'altro.
Mi hai fatto pensare a certi movimenti non verbali che, a mio parere, nel loro significato sono un "darsi del tu" in modo implicito; penso in particolare ad alcuni pazienti profondamente psicotici a cui dopo molto tempo ho appoggiato una mano sulla spalla salutandoli. Momenti in cui ho sentito, senza pensarci, che mi potevo avvicinare, che era giunto il momento di fare un passo verso di loro. Momenti in cui percepivo anche la mia gratitudine per il loro condividere, giunto dopo tanto tempo di "rifugio", terrore, diffidenza. E penso che questo mio movimento di controtransfert, sperando che il timing fosse ben tarato sulla relazione, abbia suscitato nell'Altro un movimento emotivo significativo, traducibile col sentire che il terapeuta non teme l'incontro, ha rispettato i miei tempi, il mio territorio e ora è interessato a conoscermi ancor più da vicino.
RispondiEliminaSe provo a generalizzare sui pazienti in generale mi verrebbe da dire che il primo "tu" nella relazione lo esprime il corpo, col suo rilassarsi, col suo cambiare postura.
Un commento da Emilio Vercillo.
RispondiEliminaPsichiatra e psicoanalista che dalla natia Calabria si era trapiantato a Roma, dopo aver preso atto dell'impossibilità di lavorare bene nelle patrie strutture sanitarie, Emilio ha preso l'aereo per Maiorca e ha cominciato a esercitare là, riuscendo persino a farsi assumere (da un po' di tempo non è più un ... neolaureato) da un ospedale del posto. Oggi mi scrive:
Beh, io ho un problema simile agli inglesi: qui nella imbarbarita Spagna hanno perso l'abitudine al "usted" (diversamente da quello che succede in America Latina, molto più formale), e mi sono trovato a vedermi chiesto un "tuteo" da pazienti a cui mai mi sarei sognato di darlo, nello studio privato. Poi ne ho apprezzato il vantaggio, a volte: mi scioglie e mi rende "ardito" se sento di poterlo fare; in fondo la mia personale difficoltà linguistica, dover parlare una lingua non mia, con una versione idiosincrasica dello spagnolo, mi riguadagna la distanza, oltre che sollecita a mio vantaggio una collaborazione.
A volte i pazienti che ci chiedono il "tu" possono farci provare un senso di disagio se sentiamo che quella richiesta è una fuga in avanti, paradossalmente, finalizzata a sfuggire a una possibilità di intimità autentica.
RispondiEliminaIl problema della vicinanza emotiva è, per noi terapeuti maschi, tanto più problematico quando lavoriamo con donne che abbiano vissuto reali esperienze incestuose. Alcune di loro mi sono sempre apparse del tutto inconsapevoli del fatto che si potesse ottenere amore (non mi riferisco qui né a eros né ad agape, ma a quella varietà asimmetrica dell'amore che caratterizza le relazioni trofiche fra un genitore e un bambino) senza doverne pagare il prezzo in termini di offerta sessuale.
Questa è un'idea dalla quale la donna vittima d'incesto è spesso impossibilitata a liberarsi, e la scopri anche dopo molto tempo, quando una paziente ti confessa di aver sempre temuto un tuo cambiamento improvviso di atteggiamento ...
Quanto allo "schierarsi", poi, il discorso sarebbe lungo: ti basti pensare al fatto che un mio maestro soleva ripetermi che di fronte a un adolescente che fosse venuto a parlami male dei suoi genitori avrei dovuto mantenere sempre un atteggiamento rigidamente neutrale, evitando di "schierarmi". La mia esperienza di lavoro, però, mi ha scoraggiato quasi subito dal seguire tale consiglio, e se il mio Maestro avesse lavorato in un servizio pubblico come il mio, a contatto con certi genitori, avrebbe probabilmente fatto lo stesso.
L'argomento non è facile da esprimere perchè è come la musica, come le note stonate che alle volte fanno sentire che qualcosa non va bene. Il tu, il lei, fanno parte di quella partita musicale, di quel TONO DI VOCE, che oltre il contenuto della parola detta ti fa sentire un calore, un gelo o una confusione nella testa. Come dice Ogden (Conversazioni al confine del sogno): "..nel lavoro analitico, paziente e analista leggono e sono letti ciascuno dall'inconscio dell'altro".
RispondiEliminaCaro Gianni, io credo che il Tu o il Lei non dicano nulla, in realtà, sulla distanza/vicinanza tra Paziente e Terapeuta: è vero che possono accentuare sia l'una sia l'altra ma è un qualcosa in più, un discorso "residuale" rispetto alla sostanza della relazione. Io, personalmente, sono vicinissimo a pazienti ai quali dò del Lei, mentre nei confronti di pazienti a cui mi rivolgo col Tu esiste una distanza alle volte non piccola... Poi bisognerebbe vedere come nasce il tu o il lei in terapia. Ad esempio, chi prende l'iniziativa di dare del tu? (a me viene spontaneo nei confronti di ragazzi giovani e lo esplicito loro). Alcuni pazienti (per lo più non giovani) spingono perché ci si dia del tu, cosa che io interpreto, solitamente, come un bisogno eccessivo di vicinanza (protezione? accudimento? ...possesso?): in questi casi lascio che sia il fluire della nostra comunicazione/relazione a stabilire se il tu può andare bene. In ogni caso cerco di non forzarmi mai, né in un senso né nell'altro, e come regola prioritaria stabilisco che "io per primo devo sentirmi bene" con i termini che utilizzo.
RispondiEliminaIo spesso sono un po' salomonico... Chiamo per nome ma do del lei, e devo dire che questo mi permette di sentirmi a mio agio
RispondiEliminaDopo queste interessantissime dissertazioni gradirei sapere come fare per uscire dal transfert, ne sono dentro fino al collo .Cambiare medico credo sia la cosa più saggia, credo. Patrizia.
RispondiEliminaNon so che cosa Lei intenda esattamente con l'espressione "uscire dal transfert". Ma, in ogni caso, l'argomento dovrebbe essere trattato in analisi, o, qualora ciò non fosse più possibile, perlomeno all'interno di una conversazione privata. Se crede, può contattarmi.
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