Erri De Luca racconta (Il Torto del Soldato, Feltrinelli, 2012) che lo scrittore Isaac Bashevis Singer pochi anni dopo la guerra scrisse per il suo “La Famiglia Mushkat” due diversi excipit risultanti da un capitolo ulteriore, aggiunto all’edizione in yiddish, rispetto alla versione in inglese che non lo riporta.
Per quest’ultima, il romanzo si conclude con una scena ambientata a Varsavia nel settembre 1939, mentre la Luftwaffe bombarda la città, accanendosi in particolare contro i quartieri abitati prevalentemente da ebrei.
“Il protagonista -racconta De Luca- incontra per le vie deserte un conoscente, un anziano signore che si aggira sgomento nell'inutile ricerca di un medico per sua moglie. Nel breve colloquio l’anziano dice per congedo: «Presto verrà il messia». Alla domanda meravigliata di che cosa intenda, risponde: «La morte è il messia. Questa è la verità pura». Termina così -prosegue De Luca- il romanzo nell’edizione inglese. Il messia, capolinea della storia del mondo per ebrei e cristiani, qui è semplicemente la morte, senza riscatto e senza redenzione. E’ il più spietato finale dei libri che ho letto. La bestemmia suona ancora più forte perché messa in bocca a un uomo mite”.
Il capitolo supplementare, riservato ai lettori in yiddish, ha un finale più conciliante, diretto a un gruppo di giovani ebrei in fuga verso la Russia: “Dalla vostra parte sta la vittoria finale. Poi verrà il messia”.
Secondo De Luca, comunque siano andate le vicende editoriali che hanno portato ai due finali, Singer “volle lasciare in bocca alle lingue del mondo il sale amaro della versione corta”.
A me, però, la lettura di quella sentenza così asciutta e terribile, ha fatto accapponare la pelle in un punto: nell’aggettivo “pura”. La verità pura, ultima, quella dei filosofi e delle religioni.
La verità pura è che dopo c’è il nulla, il buio, l’assenza, lo spegnimento dell’Io. Il messia, la morte, la verità pura, sono la pietra tombale su millenni di letteratura, di poesia, di musica, di filosofie, di religioni e di guerre, di ingiustizie, di ragioni e di torti riparati e più spesso aggravati. Perché Platone e Dante, Milton e San Tommaso, San Paolo e San Giovanni, e Michelangelo, Bach e Aristotele sarebbero soltanto fiori sbocciati sulla tomba del nostro lutto a venire, la luce che emana da una ferita che non si richiuderà, il rimpianto per tutto ciò che non vedremo mai e per tutto ciò che dimenticheremo in un istante.
Freud aveva intuito genialmente l’aurora della coscienza e il suo mezzogiorno, raccontandola con una formula scarna e quasi rozza, una specie di algoritmo burocratico, con quel tanto di understatement che bastava, per non rischiare di perdersi in una impossibile terzina dantesca: “Wo Es war, soll Ich werden” che noi italiani traduciamo “là dove c’era l’Es, lì ci sarà l’Io”, e sul quale Lacan aveva voluto provare a misurarsi con l’ineffabile, recitando la formula con le parole della poesia: “Là où il fut ça, il me faut advenir”: “Là dove ciò era, bisogna che io accada”. Sante parole: ma dopo? Qui, dov’ero io, chi o che cosa ci sarà? Che cosa sarà dei nostri pensieri, dei ricordi, delle sudate carte ove il tempo mio primo e di me si spendea la miglior parte, degli amori, delle passioni e degli odi mortali, delle angosce e delle paure, di ciò che abbiamo saputo e di quello che non abbiamo voluto sapere, di ciò che ricordiamo e di quello che abbiamo imparato a memoria: tutto si colliquerà in umori maleodoranti -per chi potesse ancora annusarli- e infetti? E’ dunque il Nulla la verità ultima? E’ questo il segreto inconfessabile di tutte le gnosi? E’ questa la ragione per la quale Bion ha indicato con 0 l’ultima delle trasformazioni? e non venite a dirmi che quella è una O: lo sappiamo tutti che gli inglesi chiamano così lo zero.
Tutti questi pensieri inutili e oziosi mi sono venuti alla mente venerdì, mentre, assieme a una Collega riflettevo sul resoconto di una seduta con Giada, una bambina che in pochissimo tempo ha perduto il padre e la nonna, e ha deciso di non volerne sapere nulla, di non andare ai funerali, di parlare soltanto di sciocchezze, quisquilie e pinzillacchere, proprio come ho fatto io finora. Neanche dalla psicologa voleva andare: poi per qualche ragione misteriosa, ha accettato.
Dottoressa: A te piace scrivere?
G: Oh sì, ho scritto più di cento racconti
Dottoressa: Ti andrebbe di raccontarmene qualcuno?
G: Sì, dunque, vediamo ... ah sì: uno degli ultimi si intitola “Tenebrosa Tenebrax ed il viaggio nella misteriosa terra di Transilvania”:
Era un lunedì e Tenebrosa Tenebrax se ne stava seduta a leggere un bel libro in una giornata di sole.
Dottoressa: Ma anche oggi è lunedì.
G: Sì e c’è anche il sole!
Dottoressa: Eh già.
G: ecco: leggeva una storia di vampiri ambientata nella lontana terra di Transilvania e così, piena di curiosità, decise di partire alla volta di quella misteriosa terra. Così il lunedì successivo prese l’aereo, atterrò e andò a dormire in un bell’alberghetto.
Il giorno dopo alle dieci di sera si addentrò nel bosco chiamato “degli amici di cripta” e vide in lontananza tra la boscaglia un grande castello tenebroso.
Bussò e le aprì un maggiordomo pallidissimo con lunghi denti aguzzi che la fece entrare e la invitò a visitare il castello.
Nell’atrio vide in lontananza un vecchio baule. Si avvicinò e dopo aver spostato polvere e ragnatele lesse una strana iscrizione: qui giace il barone Von (…) si fece forza sollevò il coperchio e vide che il baule era vuoto. Allora Tenebrosa Tenebrax scappò via perché aveva capito che il vampiro che stava cercando non era lì.
Dottoressa: Ma il vampiro allora non c’era!
G: Sì che c’era! Era il maggiordomo che aveva aperto la porta ma che ormai era già andato via.
Visto com'è facile? Com'è tutto lineare? I luoghi abitati dai vampiri sono mete turistiche da visitare soggiornando in alberghetti carini in compagnia degli amici di cripta. L'unica cosa capace di terrorizzarci, facendoci scappar via, è la verità pura. (E questo non vale soltanto per me e Giada, ma anche per tuà, hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère).
(Post realizzato grazie alla cortesia della dottoressa Cristina Cavicchia)
Clelia Tuscano così commenta:
RispondiEliminaForse non rifuggiamo la verità, ma la purezza.
Abituati ad una realtà complessa e colorata, che ad ogni rilettura ci offre sfumature e prospettive diverse, che ci lascia scoprire assonanze e geometrie che cambiano a seconda degli elementi che mettiamo in relazione, abituati a verità relative che crescono con noi, la purezza è uno schiaffo sul marmo. La pura verità è la risposta definitiva oltre la quale non ha più senso trastullarsi con il gioco delle ipotesi e delle congetture, l’aspettativa delle combinazioni di reciproche posizioni e relazioni, la tensione di guardare sempre, per la gioia e la sorpresa di vedere la bellezza. Non ha più senso l’instancabile vivere. Il bianco della purezza, caro amico, è la somma di tutti i colori. Ma preferisco guardare l’allodola nel grano di Van Gogh.
E' interessante che un commento tanto ricco e profondo provenga da chi pratica la professione dell'architettura: vedere il bello come composizioni di colori e le forme come alternarsi di vuoti e pieni, strutture e spazi, aggettanze e profondità, dà evidentemente un senso radicale e definitivo dell'idea di complessità, della visione d'insieme che è altro dallo sguardo direzionale e a volte troppo selettivo che caratterizza il cercare verità ultime. Giustamente tu osservi che godere della visione è l'equivalente di vivere, mentre tentare di immaginare l'Universo in un momento successivo a quello dell'inevitabile distruzione dell'Allodola nel Grano di Van Gogh, ha in sè l'impensabile contraddizione che io, purtroppo o per fortuna, finirò molto prima del quadro.
Elimina