Esiste certamente, in analisi, una condizione di reciproco e asimmetrico nutrimento fra paziente e analista; essa ha a che fare con i bisogni primari di essere nutriti e anche di nutrire, che sono diversi ma complementari. Un esempio di ciò può essere fatto pensando al senso di fame di un cucciolo, e al senso di oppressione mammaria di una mucca che non viene munta quando è il momento.
In analisi il paziente ha bisogno di attenzione, comprensione e significato. Il significato dev’essere fornito dal linguaggio verbale e non verbale dell’analista. Le parole dell’analista, nei casi fortunati, scendono come un buon nutrimento nella mente del paziente.
Anche l’analista ha «bisogno» di esperire il paziente; e ciò avviene in massimo grado attraverso le produzioni oniriche, -del sonno e della veglia- di quest’ultimo, che stimolano la rêverie dell’analista. In tal modo, l’analista nutre il paziente e nutre se stesso, attraverso un lavoro di continua manutenzione del proprio apparato per sognare; perché “psicoanalizzare” è, in fin dei conti, un peculiare modo di ri-sognare i sogni di qualcun altro.
In questa prospettiva, si colloca il problema del silenzio in analisi, condizione che priva l’analista delle parole del paziente (d’altra parte, l’analista non dovrebbe mai tacere più del necessario, né parlare più del dovuto).
Privato delle parole del paziente, l’analista può seguire diversi filoni di pensiero, ivi compresi quelli che costituiscono distrazione, evasione, allontanamento dal paziente. Altrimenti, nel corso di una seduta silenziosa, l’analista può riempire l’attesa, ripercorrendo tutto il “recentemente detto”, per cercare, per via di congettura, una possibile via d’uscita a una situazione di impasse.
Il silenzio del paziente è per definizione un sintomo non interpretabile, quando non fornisce alla fantasia dell’analista il minimo appiglio. Esso diventa, per l’analista, una fonte di disagio, e qualche volta persino di rabbia. Al pari della mucca che non viene munta, egli è tentato di muggire via quel fastidioso turgore mammario. E la sua impazienza, quando è dissimulata, è probabilmente più dannosa di una scenata ben fatta.
Nel suo libro “Analisi Finale”, Jeffrey Moussaieff Masson racconta in maniera molto incisiva come, durante le sue analisi di controllo, il silenzio fosse stato usato contro di lui da una paziente infuriata con i propri precedenti analisti, e come la consegna, imposta da un algido supervisore del Toronto Institute of Psychoanalysis presso il quale l'Autore stava svolgendo il proprio training, fosse quella di non fare assolutamente nulla, in attesa che la paziente si decidesse a parlare. In un mio lavoro recente, ho paragonato l'esperienza di Masson a quella dei soldati che, nelle trincee dell'altipiano di Asiago nella guerra 1915-18 (raccontataci in maniera esemplare da Emilio Lussu in Un Anno sull’Altipiano, e riproposta nel film di Francesco Rosi Uomini Contro), erano schiacciati fra il fuoco nemico e quello “amico” minacciato dai Regi Carabinieri che puntavano i fucili alle loro spalle per impedire fughe e disobbedienze all’ordine perentorio di uscire allo scoperto, che li avrebbe mandati incontro a morte sicura.
Sul silenzio in analisi si è scritto molto, tentando di ridurre la sua sostanziale inafferrabilità a pochi e sempre uguali scenari interni: tentativo di nascondere pensieri ora erotici, ora aggressivi (che non di rado sono la stessa cosa); oppure tentativo di far provare all’analista una disperante condizione di solitudine e abbandono, inesprimibile a parole.
In ogni caso, il silenzio, quando non è momentaneo, è quasi sempre considerato (ed è) una “resistenza”, o uno stato di impasse.
Raramente, invece, si incontrano psicoanalisti che rappresentano il silenzio in analisi come un valore positivo. E’ su questo aspetto, per me abbastanza nuovo, che intendo soffermarmi.
Da qualche giorno ho nel mio tablet un libro che racconta del percorso formativo di un analista: “Ferenczi’s Language of Tenderness. Working with Disturbances from the Earliest Years”, di Robert W. Rentoul.
L’Autore racconta di essersi sottoposto a due analisi didattiche, la prima delle quali, assolutamente ligia al “canone”, si rivelò fallimentare. Mentre dalla seconda, condotta con Ben Churchill, l’Autore testimonia il ruolo cardine da essa rivestito nella propria esistenza.
“Fu con Churchill -spiega fra altre cose- che imparai l’incommensurabile valore del silenzio. La mia più importante seduta con lui fu quella in cui non dicemmo altro che “hello” all’inizio, e “grazie” alla fine: ad eccezione del momento in cui mi venne in mente che lui si aspettava da me che iniziassi a parlare, mentre io desideravo continuare a rimanere in silenzio. Fu allora che dissi: “non se ne vada”, e lui rispose: “non lo farò”; e il silenzio rimase. Egli mi permise di rimanere così fino alla fine.
Fu un’esperienza piena di significato, mai provata prima: ero capace di rimanere seduto in una stanza con un’altra persona, senza sentirmi obbligato a dire o fare qualcosa; essere e basta, sapendo che quell’altra persona sarebbe rimasta con me. Ciò accade di solito soltanto fra madre e neonato, o tra innamorati, o forse nella cura degli ammalati, anche se di ciò si parla poco. Con Ben Churchill non vi fu alcuna delle usuali interpretazioni del silenzio. Nella mia esperienza della tradizione classica, il silenzio è quasi sempre interpretato in maniera ostile o sospettosa, come un modo per nascondere rabbia o desideri sessuali. Esso invece nascondeva (o piuttosto, come sempre accade, rivelava) profonda emozione; ma le emozioni erano di amore, pace, sicurezza e gratitudine. Da quella esperienza, ho imparato a valorizzare sempre e ad onorare il silenzio; a consentirlo fino a quando non finisce spontaneamente se il paziente lo sente confortevole, e a chiedergli se provi tensione o se stia rimuginando dubbi” (traduzione mia).
Quando si parla di silenzio in analisi correrebbe l'obbligo di precisare se ciò avvenga con il paziente sdraiato sul lettino, oppure nella posizione vis-à-vis (nel testo citato si legge "I was able to sit in a room with another person", il che fa pensare alla seconda ipotesi), perché in quest'ultimo caso la comunicazione mimica cambia radicalmente la situazione.
In ogni caso, quella proposta da Rentoul è una prospettiva indubbiamente interessante, la cui meditazione non mancherà di avere effetti sul mio modo di lavorare.
In ogni caso, quella proposta da Rentoul è una prospettiva indubbiamente interessante, la cui meditazione non mancherà di avere effetti sul mio modo di lavorare.
Considero il silenzio un linguaggio e per questo ho sempre pensato (e sperato) che esistessero, di fronte al silenzio in analisi, dei terapeuti madrelingua. Il valore positivo del silenzio è difficile da cogliere in un mondo comandato dalla parola e la "resistenza" di un paziente forse cambierebbe significato se vista come opposizione a una "dittatura". Condivido quindi pienamente quanto osservato da Rentoul: se la stessa emozione provata dal neonato con la madre ( "amore, pace, sicurezza e gratitudine per poter essere, essere e basta, senza per questo temere incomprensione o abbandono") fosse vissuta dal paziente con il proprio analista, il silenzio si trasformerebbe in una normale, positiva e sorprendente tappa evolutiva della terapia.
RispondiEliminaN.B. Senza nulla togliere alle mucche preferisco rappresentarmi lo psicanalista come una madre, che non manifesta rabbia evidente se deve ricorrere per il nutrimento del suo neonato al latte artificiale preoccupandosi prima di tutto di come provvedere alla crescita del figlio e solo marginalmente del turgore del proprio seno. In questo blog, se non ricordo male, si è parlato delle donne in analisi, evidenziando che il sesso femminile, si avvale molto più di quello maschile di un aiuto psicologico. Viste le precedenti considerazioni “materne” mi chiedo quanto conti, anche a proposito dell'approccio al silenzio, il sesso del terapeuta.
Non so quanto conti il sesso del terapeuta. In una prospettiva di esperienza emozionale correttiva, che è quella nella quale io mi muovo, penso che, nei limiti della relazione analitica, si debba essere pronti a svolgere quelle funzioni genitoriali di cui il paziente ha bisogno. Quanto al silenzio, ciò che dice Rentoul è importante, ma non bisogna dimenticare che, sulla scena analitica, si esprimono soprattutto difficoltà e inibizioni, molto più che momenti di creatività.
EliminaUn silenzio che comunica è il benvenuto, ma occorre anche ricordare che ci sono silenzi carichi di sofferenza, di angoscia, di paura o di rancore, e vi sono mutacismi che esprimono un'insuperabile condizione di isolamento, di fronte ai quali l'analista è chiamato a compiere ogni sforzo possibile per estrarne il significato al fine di sviluppare una nuova relazione.