Fino agli anni ottanta, i concetti di "intrapsichico" e "interpersonale" furono considerati di diversa natura e quindi il loro impiego nell'ambito delle scienze umane fu posto in termini alternativi.
Secondo il mainstream freudiano, egopsicologico e kleiniano, sia pure con diverse sfumature, soltanto l'inconscio individuale e monopersonale poteva essere oggetto di indagine e trattamento psicoanalitico, mentre tutto ciò che indulgeva allo studio delle relazioni fra gli individui (non escluse quelle precoci) doveva essere considerato come non pertinente alla psicoanalisi considerata "vera", e distinta dalle sue forme "eretiche", dette anche "selvagge", per tacere di discipline ad essa estranee come la sociologia e la pedagogia. Tutto ciò nell'illusione che l'oggetto di indagine scientifica, soprattutto in ambito di scienze dell'Uomo, potesse essere indagato obiettivamente, come "cosa in sé", senza essere influenzato dalla presenza dell'osservatore.
A me che scrivo, ad esempio, accadde spesso di partecipare a seminari di baby observation, portando anche riferimenti allo stato mentale materno, e incontrando perciò una sorta di riprovazione per il fatto che tali rilievi "distraevano" dall'osservazione diretta del bambino. Ciò poteva accadere perché intrapsichico e interpersonale apparivano come concetti dal significato neppure parzialmente sovrapponibile e quindi irrimediabilmente alternativo.
Con lo sviluppo delle declinazioni bipersonaliste della psicoanalisi intervenute sopratutto negli Stati Uniti a partire dagli anni novanta, il panorama cambiò parecchio e i due concetti furono considerati meno distanti non più soltanto nelle aree culturali definite "neofreudiane" che avevano maggiormente risentito dell'influsso interpersonalista di Harry Stack Sullivan e della sua scuola, ma in generale anche fra molti psicoanalisti scontenti dell'autoritarismo che aveva permeato la cultura psicoanalitica fino allora dominante, e in qualche caso, addirittura perché personalmente danneggiati da analisi didattiche troppo "ortodosse".
Le radici di una diversa concezione dei legami fra l'Io e le sue relazioni è da ricercarsi, tra gli altri, in studiosi come Sándor Ferenczi e John Bowlby.
Il primo, attraverso lo studio dei fenomeni dissociativi arrivò a concepire una "mente esterna" cui il soggetto può fare ricorso per stivarvi contenuti mentali intollerabili; Bowlby, d'altra parte, avendo formulato il concetto di "base sicura" come luogo materno della protezione, aveva identificato nelle fasi dello sviluppo che precedono l'autonomia una singolare attitudine, fra i piccoli dei primati, ad affidarsi alla madre non soltanto per riceverne le necessarie cure parentali, ma anche un lavoro di vigilanza e di messa in sicurezza del territorio, al fine di scongiurare gli incontri con i predatori.
Perciò, dovendo le funzioni di tutela diventare in toto, con il procedere dell'individuazione, prerogativa e patrimonio del soggetto che -per così dire- se ne appropria, almeno in una fase transitoria coincidente con il trasferimento di tali funzioni, la mente del soggetto non solo si relaziona con l'oggetto, ma è in larga parte e per un tempo non breve con esso almeno parzialmente coincidente. Va da sé quindi che, se il soggetto "è" anche l'oggetto, ha poco senso affermare che l'attività di relazione esterna sia una funzione puramente "sociale" e perciò qualitativamente distinta dalle funzioni endopsichiche.
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