Budapest, 3 Giugno 2012.
Ieri, a una seduta della International Ferenczi Conference che si conclude oggi, la Collega Giuditta Ceragioli (Milano) ha presentato uno splendido lavoro intitolato: La ragazza che scrisse a Primo Levi, nel quale ha raccontato la vicenda, personale e psicoanalitica, di Emma, una donna che da bambina subì terribili esperienze di abuso sessuale senza poter contare su alcuna protezione e neppure ascolto da parte degli adulti della sua famiglia, e in particolare della madre, anche negli anni successivi alle esperienze traumatiche subite durante l’infanzia.
A un certo punto della sua vita, Emma, dopo aver letto Se questo è un uomo in epoca antecedente alla morte dell’Autore, decise di scrivergli una lettera, e Primo Levi le rispose parole affettuose e calde, come di chi capisce con le viscere prima che con la mente, cogliendo alla perfezione l’esigenza profonda della ragazza, che era quella di trovare, molti anni prima di cominciare la propria analisi, qualcuno con cui avere una profonda, anche se momentanea esperienza di condivisione emotiva; ciò che ad Emma era sempre mancato, e che costituiva l’oggetto di un bisogno primario indispensabile alla vita psichica.
Ascoltando le parole di Giuditta, ho pensato alle due donne di cui avevo parlato nella mia relazione del giorno precedente, entrambe profondamente danneggiate da relazioni incestuose con i rispettivi padri, che ne avevano segnato terribilmente l’esistenza.
Avevo descritto alcuni aspetti delle loro vicende terapeutiche per dimostrare che esperienze estreme vissute nell’infanzia privano di un elemento fondamentale, autentica chiave di volta dell’identità, che alcuni autori chiamano “fiducia di base” (basic trust): ciò che consiste nella perdita, quasi sempre definitiva, della possibilità di affidarsi. Come terapeuta maschio e adulto ho più volte constatato che anche nelle situazioni in cui la relazione terapeutica diventa calda e affettiva (mi riferisco a un calore e un’empatia che o sono reciproci oppure non sono), il fantasma dell’assalto sessuale da parte dell’analista permane, sotto traccia, anche dopo anni di scambi fruttuosi. Si tratta di persone il cui modello di funzionamento genitoriale è stabilmente compromesso e confuso con quello dell'aggressore; Sofia, una donna gravemente sofferente, mi chiese una volta di poter continuare il trattamento faccia a faccia anziché sul lettino, dopo aver trovato il coraggio di confessarmi che ogni volta che la mia sedia cigolava, lei temeva che potessi avvicinarmi per approfittare di lei, dando per scontato il fatto che non si potesse desiderare di stare con lei per motivi diversi da quello di disporre di lei sessualmente.
Emma, la paziente di Giuditta, nel cercare aiuto per la prima volta aveva scelto in Primo Levi una “madre” sostitutiva come e più di lei danneggiata, mentre le mie pazienti si rivolgono a me, nella maggior parte dei casi, con la fantasia che io sia addirittura un superuomo, invulnerabile e potentissimo, salvo poi essere assalite dai dubbi più atroci. Quello di ricorrere a un'idealizzazione esasperata dell'altro è sempre un'espediente poco efficace per far fronte all'angoscia di esserne schiacciati.
Quanto la nostra esperienza di reale o presunta integrità di psicoterapeuti sia idonea a farci comprendere il dolore di persone gravemente danneggiate è argomento che deve farci riflettere, assieme all’ipotesi che in casi in cui ciò risulti opportuno o addirittura necessario, non sia lecito all’analista condividere con il proprio paziente la propria esperienza di dolore. Anche se ciò può (ancora) suonare scandaloso.
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