Fin
dalla più tenera infanzia, la giovane Lucrezia F. ha avuto, quale sua preoccupazione prevalente, quella di rimanere al palo.
Essendo
figlia unica, già in età prescolare, quando la mamma l'accompagnava in piazza
per farla giocare con gli altri bambini, guardava i compagni con sospetto e
antipatia, preferendo ignorarli piuttosto che staccarsi dalle vicinanze degli adulti.
Poiché,
per sua grande fortuna, i genitori non furono mai collusivi con questa
intenzione simbiotica, provvedendo anche a riempirle la casa di amichetti,
mandandola ai campi scout e a scuola di recitazione (dove almeno l’essere qualcun
altro può diventare persino un modo per guadagnarsi da vivere) Lucrezia eluse
la maggior parte dei richiami alla socialità rinchiudendosi in un coloratissimo
mondo di sogni: parlava da sola e si aiutava con la visione forsennata e
ripetitiva di ogni sorta di cartoon e
di racconto fantastico che capitasse a sua disposizione. Non riuscendo a
contrastare più di tanto tale tendenza, i genitori provvidero almeno a
selezionare la qualità dei consumi culturali, cosicché Lucrezia evitò, per lo
meno, di diventare dipendente dai programmi più insulsi che le televisioni
solitamente ammanniscono. L’esperienza della scuola materna fu per la bambina
un vero e proprio trauma: l’idea stessa di doversi muovere di casa e di
rimanere separata dalla mamma e dalle sue videocassette per alcune ore, le
appariva come una cattiveria gratuita.
Una
volta, tornata a casa dopo una lezione di religione, chiese: “mamma, le maestre mi hanno detto che un giorno rivedrò la nonna Bina; è vero che dopo la morte risorgeremo tutti?” e alla spiegazione della mamma, ribatté: “questo significa
che quando saremo risorti dovrò ritornare all’asilo?”
I
genitori erano molto preoccupati e scoraggiati nei loro tentativi di opporsi a
questa tendenza perniciosa, fin tanto che un giorno accadde qualcosa che cominciò a
chiarir loro le idee: dopo aver visto il film “Amadeus” di Milos Forman,
Lucrezia se ne uscì con questa frase lapidaria: “io non voglio più andare a
scuola, non voglio studiare né fare i compiti. Mozart aveva studiato troppo e
per questo è morto”.
Diventata
un po’ più grandicella, riuscì persino a intrecciare una storia d’amore con
Dick Shelton, il protagonista della serie televisiva (degli anni sessanta) “La
Freccia Nera”, che le fu regalata in VHS. A poco valsero i tentativi del padre
di spiegare a Lucrezia che l’attore che aveva impersonato l’eroe di Stevenson
era addirittura più anziano di lui: Lucrezia si rifiutò ostinatamente di
credergli.
Da
allora, sia pure obtorto collo,
Lucrezia è un po’ cresciuta, riuscendo persino a concludere gli studi liceali e
a iscriversi all’università.
L’impatto
con l’adolescenza, naturalmente, fu per lei un invito a nozze: l’adolescenza è
in fondo il periodo più noioso e insulso e piatto di tutta la vita, quello nel
quale lo “star fermi al palo”, è quasi una mission
contrattuale.
La
ragione di tutto ciò è, probabilmente, la trasformazione fisica che segna in
maniera visibile e concreta l’uscita dall’infanzia. Credo si possa dire che è
anche (per tutte quelle persone fortunate che nell’infanzia non hanno patito
gravi malattie, disabilità, lutti o severe esperienze traumatiche), il primo
passo importante verso la piena consapevolezza del nostro destino mortale. Ciò
può comportare vari tipi di reazione che possiamo, almeno grossolanamente,
dividere in due grandi categorie: gli arroccati e i dispersi, o per dirla con
due parole “difficili”, care a Michael Balint, i filobatici e gli ocnofilici (*).
Di
questi ultimi, che di fronte all’angoscia di sentirsi staccati dal cordone ombelicale
non fanno nulla per aggrapparvisi tentando anzi di disperdersi nel mondo
all’insegna del “tanto peggio, tanto meglio”, sappiamo tutto o quasi, dalle
cronache giudiziarie alle relazioni delle scuole che interpellano i servizi per
l’età evolutiva. Si tratta di giovani che si sottraggono spesso (sovente perché
trascurati o privi di una famiglia vera e propria) alle attenzioni del mondo
adulto, che trascorrono le notti fuori casa, che hanno una vita
sessuale tanto precoce quanto priva di emozioni, che abusano di sostanze e di
alcol, che abbandonano la scuola o commettono reati. Sono giovani e spericolati
acrobati dell’esistenza che spesso cadono rovinosamente dalla fune sulla quale,
per orgoglio o per disperazione, avevano deciso di tentare di rimanere in
equilibrio.
All’estremo
opposto ci sono quelli come Lucrezia, che rifiutano caparbiamente di
“spendersi”, nell’illusoria convinzione che l’accumulo bancario di energie
vitali abbia come conseguenza una pensione illimitata, ovvero l’immortalità.
E
si ha un bello spiegare a Lucrezia e a quelli come lei che proprio
l’immortalità sarebbe la peggior disgrazia per gli uomini, abituati come sono a
compiere ogni atto della loro esistenza e a sviluppare ogni pensiero in
relazione al fatto che la morte c’è e che non può essere evitata.
Ma
per Lucrezia, tutte queste sono prediche inascoltabili. Persino l’invecchiare
dei genitori è da lei negato, in nome di una tanatofobia che la fa rifuggire da
ogni previsione del domani.
In
effetti, a pensarci bene, l’ocnofilia rende problematico e doloroso anche il
passaggio alla genitorialità: in fondo, prima o poi, il ruolo del “più giovane”
(e del destinatario delle cure) bisognerà pur cederlo a qualcuno, perché la
genitorialità impone a chi non vi si sottrae una sterzata a gomito nel percorso
del proprio narcisismo: fino a questo punto sono stato io il beneficiario
esclusivo del mio progetto di vita, mentre da questo momento in avanti, dovrò
lavorare per “un altro”. E la prospettiva non è nemmeno tanto spiacevole: se i
vitelli hanno bisogno d’essere nutriti, anche le mucche hanno bisogno d’essere
munte. Non tutto è sempre, e necessariamente, conflitto.
(*)
Ocnofilia =
tendenza ad instaurare legami con l'oggetto improntati alla dipendenza.
Filobatismo =
tendenza a provare piacere solo nelle situazioni di brivido o paura. E’ la spinta
(che può essere aggravata da relazioni di accudimento ambivalente o trascurante)
a instaurare relazioni oggettuali che lascino un certo grado di distanza
(fisica e/o emotiva) tra sè e l'oggetto.
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