Perché Wiesbaden 1932


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mercoledì 7 settembre 2011

RACCONTARSELA


(pubblicato sul n. 2/2011 di MinoriGiustizia, rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, Franco Angeli Editore, Milano)

Alzarsi
Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finché suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:
“Wstawàc”:
E si spezzava in petto il cuore.
(…)

(da “Ad ora incerta” di Primo Levi, Garzanti)


La violenza contro le persone fragili ha un suo lato nascosto, un corollario insospettato, i cui effetti sono spesso più devastanti del trauma originario, perché si sottraggono all’indagine e alla sanzione: parlo di quelle “omissioni di soccorso” che possono provenire dal gruppo familiare, dall’istituzione sanitaria, dal servizio sociale, dall’autorità giudiziaria, o dall’agenzia educativa, il cui compito di riconoscere la violenza e di proteggere la vittima viene meno per sordità emotiva, odio inconfessato, superficialità, conformismo, trascuratezza, incapacità professionale, interesse, o paura.
Quando veniamo fatti oggetto di un’aggressione, di un affronto, di una ferita dell’anima che sentiamo come eccessiva, soverchiante, tale da renderci impotenti e quasi-morti, ciò di cui abbiamo immediato bisogno è un rapporto di condivisione. Ci occorre, nell’immediato, poter raccontare a qualcuno che sia capace di rimanere lì ad ascoltarci senza essere preso dal bisogno incontenibile di andarsene o di liquidare i nostri racconti come inverosimili e inventati, frutto di fraintendimento o, peggio, di un’evoluzione patologica delle nostre capacità di percepire e di pensare.
Quando patiamo un dolore che non può essere sopportato in solitudine, abbiamo bisogno di poterlo raccontare a qualcuno che ci accolga come una casa che spalanca le porte per offrirci accoglienza e protezione.
Ogni volta che da bambini ci siamo trovati in pericolo, abbiamo tutti sperimentato il desiderio di poter dire “mamma, lo sai che cosa mi è successo?”. E’ questa la prova dello scampato pericolo, il sentirsi “tornati a casa”, dove la minaccia che simbolicamente o realisticamente allude alla morte, è ormai lontana. Anche nel linguaggio adulto, noi frequentemente diciamo: “meno male che siamo qui a raccontarcela … se non fosse accaduto questo e questo, oggi non sarei qui a raccontarla …”.
Essere qui, a casa; l’imboccatura dell’inferno è lontana.
C’è un passo di “Se questo è un uomo” di Primo Levi che mi ha sempre colpito. E’ quando il protagonista, detenuto nel campo di sterminio, sogna di essere a casa sua, a Torino. Egli sale le scale, suona alla porta dell’appartamento abitato dai familiari. La porta viene aperta da sua sorella, che non lo vede: lo sguardo di lei gli passa attraverso come se fosse fatto d’aria. L’angoscia è troppo forte e il protagonista si sveglia.
Svegliarsi per far cessare un brutto sogno: quante volte lo abbiamo sperimentato! Quante volte nel mezzo di un incubo, abbiamo improvvisamente percepito di stare sognando e abbiamo fatto uno sforzo per svegliarci! “E’ soltanto un sogno”: gli occhi si aprono e la persecuzione è definitivamente lontana.
Svegliarsi.
Ma da quale angoscia ci si può voler risvegliare nella consapevolezza preconscia di riaprire gli occhi in una baracca gelata di Auschwitz-Birkenau? Fra poco sarà l’alba di un giorno che forse sarà l’ultimo; magari finirà subito, in una pozza di orina, sangue e orrore. Speriamo. Speriamo che almeno finisca. Non avere nessuno a cui raccontare.

Lo psicoanalista Leonard Shengold, nel suo famoso libro “Soul Murder” (Omicidio dell’Anima) scrive che quando ad aggredire sessualmente il bambino è la stessa persona che dovrebbe proteggerlo, la vittima è costretta a “scindere” la figura dell’aggressore in due parti, una buona e una cattiva. Se ad abusare di me è mio padre io sarò costretto a rapportarmi a lui tanto come a un aggressore quanto come a un difensore. Alla scissione dell’oggetto, cioè della figura dell’aggressore, segue sempre la scissione dell’Io del bambino, che spesso non potrà mai più ricomporsi. Non di rado gli aggressori accettano di impersonare tale duplice ruolo, diventando a loro volta i consolatori delle vittime delle loro stesse violenze, in un gioco circolare la cui perversità è la più solida garanzia del mantenimento del legame di sottomissione.
Questo perché tutti: aggressori, vittime, e anche chi non è né l’uno né l’altra, sappiamo bene quanto sia indispensabile “poterla raccontare”.

Quando i nostri operatori provvedono al compito di tutelare le vittime minorenni di abusi intrafamiliari, sono spesso risucchiati in avvilenti diatribe peritali e controperitali che sospingono loro e le madri denuncianti nella condizione psicologica di presunti colpevoli. Quelle a loro indirizzate non sono vere e proprie accuse: si tratta piuttosto di un clima neppure troppo sottilmente ostile, che chiede loro di giustificarsi su tutto, e che spesso li sospetta di essere professionalmente incapaci, o visionari, o fanatici persecutori che vedono incesti dappertutto, pronti ad allontanare i figli da genitori quasi per definizione innocenti. Il più delle volte, quando si denunciano le enormi sofferenze psicopatologiche di bambini gravemente traumatizzati ci si sente chiedere se per caso tali sofferenze non dipendano dalla lontananza forzata dal genitore accusato. In alcuni casi è persino capitato di sentire qualcuno che proclamava l’assoluta necessità di mantenere il legame tra un bambino e un genitore “sia pure gravemente colpevole”!. Come se essere padri fosse qualcosa che prescinde dall’amore, dalla relazione, dalla preoccupazione per i figli. Un mero attributo biologico, o una convenzione sociale.

Tali preoccupazioni che tendono a garantire gli adulti in misura sproporzionata rispetto a ciò che occorre fare per tutelare i bambini, non raramente sono fatti propri da tecnici, psicologi, psichiatri, periti. In questi casi il rapporto fra il bambino e il professionista è gravemente compromesso fin dall’inizio.
Quando si sospetta che un bambino subisca abusi nell’ambito familiare, per poterlo portare in salvo occorre ottenere da lui, senza influenzarlo, una rivelazione attendibile. E’ un lavoro estremamente difficile, soprattutto quando il bambino ha parzialmente o totalmente cancellato l’esperienza traumatica dalla propria memoria cosciente. Un prerequisito fondamentale per ottenere qualche risultato consiste nella capacità dell’operatore di instaurare una relazione di fiducia, pari o addirittura superiore a quella precedentemente instaurata con i genitori (che è spesso gravemente carente).
Se poi, per ragioni di procedura giudiziaria, il bambino dev’essere affidato in un secondo tempo ad un altro psicologo incaricato di perizia, se il nuovo operatore non è altrettanto accogliente, disposto a crederlo, e capace di empatia, ma freddo, diffidente o addirittura svalutante, o se cerca di falsificare le affermazioni del bambino facendo “l’avvocato del diavolo”, è facile che il bambino si senta non creduto, bugiardo e quindi implicitamente accusato di calunnia nei confronti dell’abusante (che frequentemente è un parente stretto) del quale in tal modo torna a sentire il potere intimidatorio e capace di confondere.
Sotto la spinta inconsapevole di un operatore incaricato di tutelarlo, il bambino è così ricacciato in quell’atmosfera psicologica nella quale viveva in uno stato di “adattamento” alla relazione traumatica (subire tacendo, assecondare gli abusi per evitare spaventi peggiori, “farsi piacere” la violenza, come accade nella “sindrome di Stoccolma”). Ora, di fronte a un trattamento peritale che gli ricorda quel clima, il bambino si sentirà spinto ad adattarsi nuovamente al trauma, ritrattando le rivelazioni precedenti, negando e difendendo l’aggressore, nella convinzione che il primo psicologo lo abbia sadicamente ingannato, che lo abbia “fatto parlare” per riconsegnarlo all’aguzzino.
Questo accade quando la violenza non viene riconosciuta: all’abuso segue un riabuso di cui questa volta hanno responsabilità le Istituzioni, un’esperienza dalle conseguenze ancor più devastanti, perché difficilmente la vittima ritroverà la propria fiducia in una terza prova d’appello. A volte il nostro compito è anche quello di riabilitare, agli occhi dei bambini, il mondo adulto, barbaro e crudele.


1 commento:

  1. Penso sia una lotta di adulti contro adulti. Una prova eroica, comunque.

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