Perché Wiesbaden 1932


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Detto ciò, benvenuti nel mio Blog, angolo per riflessioni da condividere con colleghi e amici selezionati.











martedì 25 novembre 2014

LA SOLITUDINE DEL MAESTRO

   Che ci potesse essere una via di scampo lo speravano in tanti, anzi era normale. Ciò che era meno normale era il pensiero che la si potesse scampare una volta per tutte, semplicemente imparando a comprendere come stavano le cose. Chissà, si diceva l'Allievo, forse così ci si può liberare, e magari si può guarire da queste pastoie che legano le gambe e impediscono di uscire, di correre per il mondo, come, almeno nella fantasia, sarebbe possibile. Perché non è che le strade siano chiuse, per andare là. Basterebbe andarci. Ma lo si dice sempre, e poi non lo si fa mai. Una volta, gli capitò di entrarci per sbaglio, "là". Ma fece in modo di uscirne subito, e si creò una serie di diversivi che fecero come se lui per quella porta non fosse mai passato. Così cominciò a pensare: ora era chiaro che non erano le sue gambe a essere legate. Era lui che non voleva camminare. Così prese la decisione, e andò da lui.
   Lui fu molto rassicurante: con lui c'era la soluzione. Lui la conosceva bene: era il suo mestiere, ripeteva con estrema sicurezza. Sembrava che le cose, nel pensiero di lui, avessero un senso unico, e non andassero mai incontro a dubbi. L'Allievo lo comprendeva bene, e istintivamente non se ne sarebbe fidato. Ma l'altro, se avesse saputo di quei dubbi, avrebbe assunto un atteggiamento sprezzante. E per di più, se avesse seguito i propri dubbi, l'Allievo si sarebbe certamente sentito respingere un’altra volta dentro al labirinto dal quale stava tentando di uscire. Così, decise di provare, e chiese al Maestro di prenderlo. Ma quello iniziò a trovare impedimenti. Aveva già qualcuno a Bottega: qualcuno che l'Allievo conosceva bene, e il Maestro non voleva persone che si conoscessero. Gli consigliò (o forse gli prescrisse) di fare un lungo percorso, bizzarramente tortuoso, andando a bottega da altri, ma con l’intento di affrontare un lavoro propedeutico all’incontro con Lui: insomma, una specie di anticamera.
   L'Allievo fu molto stupito di quella strana proposta: era nevrotico, non stupido. Comprendeva molto bene che se fosse andato da altri Maestri per dire loro di prenderlo in una sorta di crioconservazione pre-impianto, lo avrebbero preso per pazzo. Gli sembrava già di vederli, o di sentirli: lunghi silenzi, risposte evasive. E nessuno che sarebbe stato disposto a credere che quell’assurdo progetto non fosse farina del suo sacco. Fece qualche timido tentativo, solo al telefono, per carità: non avrebbe sopportato di vedere quelle facce che lo avrebbero sicuramente guardato come si guarda un matto. La prima signora che interpellò, lo coprì di insulti: "perché mi telefona a quest’ora? Non immagina che stia lavorando?". Comperati una segreteria telefonica, bagascia, pensò; le avevano già inventate. Decise di lasciar perdere con quella follia, ma era daccapo. Allora gli venne in mente G.. Andò da lui, che gli disse:"faccia minga il pirla, dutur. Corra ai ripari, subito e non dia retta a quello là. L'è mat". Così trovò una signora gentile e accogliente, e andò da lei.
  Ma quello era solo l'inizio. Perché non era che lui fosse disposto ad accontentarsi di andare là. Lui voleva diventare uno di quelli che ti ci fanno andare. Voleva impossessarsi delle chiavi e usarle per aprire la porta ad altri, che lo avrebbero amato e venerato. Voleva l'iniziazione; ma la voleva vera, mica tarocca. Perché lui al potere della conoscenza credeva davvero, anche se la confondeva ancora un po' con la magia. Infatti, di tanto in tanto accarezzava l'idea che, con quella conoscenza in tasca, forse avrebbe potuto evitare ciò che più lo spaventava, anche se non sapeva bene che cosa fosse. Certe volte si sorprendeva a pensare che, con quella conoscenza in tasca, non si sarebbe mai ammalato di cancro. Poi si riscuoteva, perché quello era un pensiero sospetto; molto sospetto.
  Allora tornò da lui, questa volta per chiedergli di insegnargli l’Arte, un apprendimento secondario che era qualcosa di meno rispetto al percorrere la Via. Lui fu gentile e comprensivo: non si mostrò minimamente risentito per il fatto che l'Allievo aveva preso un'altra strada. Ora, anche se non faceva parte della sua Bottega, poteva istruirlo un poco, assieme a un gruppo di altri "apprendisti" come lui. La cosa continuò per qualche tempo, ma l'Allievo non si trovava bene. C'era qualcosa di troppo perentorio negli insegnamenti del Maestro, che sembrava considerare il proprio metodo come l'unico in assoluto; persino migliore di quello della Signora, con cui l’Allievo stava percorrendo la Via. In pratica, infallibile, mentre tutti gli altri erano sbagliati. Ora, siccome l'Allievo intendeva percorrere la Via per guarire dalla propria ingenua incapacità di conoscere la complessità dell'Essere, che supponeva multiforme (anche se ciò complicava terribilmente le cose), gli sembrava molto strano che Il Maestro si proponesse come una specie di vangelo. Lui aveva capito che la Via avrebbe svelato gli inganni dei vangeli. Di tutti, se stessa compresa.
  Così si sentì sempre più a disagio. Ne parlava con la Signora, che a un certo punto gli disse: "chi glielo fa fare di tormentarsi? Ė presto per apprendere l’Arte. Verrà anche quel tempo, e lei potrà scegliere il maestro che più le piacerà. Non c'è soltanto lui". Così lui prese il coraggio a quattro mani, andò dal Maestro e gli parlò chiaramente: voleva smettere. L'altro fu molto sorpreso, ma poi non aggiunse nulla. Si salutarono.
  Accadde poi una serie di coincidenze che portarono Allievo e Maestro a essere temporaneamente vicini di casa. L’allievo vinse una borsa di studio per un soggiorno di alcuni mesi presso una nota università straniera; per una fortuita combinazione, lo stesso ateneo dal quale il Maestro, per quello stesso periodo, aveva ricevuto un invito quale “visiting professor”. E così, i due si trovarono a vivere per un periodo di tempo nel medesimo campus.
  Fu qui che l'Allievo cominciò a notare cose alquanto strane. Innanzitutto, quando i loro cammini s’incrociavano, il Maestro non sempre lo salutava. Lì per lì ci rimase male, pensando che l'altro lo avesse preso in antipatia per qualche ragione che lui non sapeva. Poi si rese conto che non era che non lo salutasse proprio. Lo salutava in maniera alterna, come capitava. A volte, vedendolo, si voltava vistosamente da un'altra parte. Altre volte invece gli "concedeva" un saluto cordiale e frettoloso, come chi "si degna".
  Allora gli venne in mente un aneddoto curioso: al tempo in cui lui frequentava la Bottega, il Maestro aveva raccontato di essere di famiglia nobile; al punto che, agli inizi di carriera, aveva dovuto rimuovere dalla Bottega alcuni preziosi dipinti che recavano sulla cornice le insegne del blasone, perché i novizi non li vedessero. Lui, che non era certo nobile, aveva provato disagio a quel racconto, come se il Maestro lasciasse involontariamente trasparire una propria debolezza, una forma di esibizionismo che stonava con il ruolo.
  Così cominciò a pensare che in quel negare a tratti il saluto ci fosse un residuo, diciamo un fossile, di un'educazione aristocratica. Ne ebbe la conferma un giorno in cui entrò negli uffici amministrativi dell’università per sbrigare certe pratiche, e vide il Maestro parlottare con un impiegato. Lui si diresse a un altro sportello, ma il Maestro si mosse rapidamente dicendo: "eh no! Qua ci sono io!". In realtà, quando l'Allievo era entrato, il Maestro si trovava allo sportello adiacente. Chiunque non avesse conosciuto profondamente il Maestro come lui aveva imparato a conoscerlo, davanti a un comportamento del genere, avrebbe protestato vivacemente. Lui preferì ricorrere a una sottile forma d'ironia, una delle armi che sapeva usare meglio: "Nessun problema", ripose facendo un passo indietro. "Ho tutta la giornata libera". L'altro non dette alcun segno di aver colto in quelle parole una sfumatura leggermente sarcastica. Sembrava sordo. Eppure, il suo era un mestiere per esercitare il quale due sole orecchie erano considerate insufficienti.
  Accaddero altri episodi. Una volta, che furono ambedue rientrati in patria, un Collega straniero amico di entrambi giunse nella loro città, pensando di trascorrere qualche giorno in compagnia loro e delle loro famiglie. Ma il Maestro volle invitarlo a cena escludendo di invitare anche l'Allievo. Il collega –uno straniero poco abituato a certe formalità- fu molto imbarazzato, e l'Allievo gli disse di non preoccuparsi, perché aveva già imparato a riconoscere la logica feudale di quel comportamento. Era una questione di gerarchie. E, obiettivamente, sul piano delle gerarchie accademiche, il Collega straniero contava più dell'Allievo: parecchio di più.
  Con il passare del tempo, il Maestro sofferse degli acciacchi dell'età. Ma chi gli stava accanto notava che il comportamento dell'Illustre Paziente era totalmente irrazionale, bizzarro, controproducente; soprattutto nell'assumere i farmaci indispensabili alle cure di cui aveva bisogno. I medici che lo curavano diventavano matti, perché, nel richiedere i loro interventi, il Maestro pretendeva di imporre orari assurdi. La sua, sosteneva convinto, era una missione che non poteva ammettere interruzioni, e pertanto il mondo si doveva adeguare ai suoi ritmi e alle sue finestre temporali, senza curarsi affatto delle proprie. Così i medici, dopo alcuni tentativi andati a vuoto, rinunciavano a curarlo. Il lettore non si stupirà di apprendere che, un brutto giorno, il Maestro fu colpito da un accidente che lo privò della parola e di una consistente parte della memoria.
  Fu allora che il Collega straniero tornò a trovarlo, e assieme andarono in visita a casa dell'Allievo. Questa volta, il Maestro "si degnò", forse perché troppo dolorosamente colpito da quella ferita profonda all'immagine di sé, o forse perché del tutto immemore di Allievi, Maestri, blasoni e gerarchie. Ma, agli occhi dell'Allievo quell'esperienza fu impressionante e significativa al tempo stesso. Lo impressionò la totale assenza di garanzie rispetto alla morte, che poteva anche arrivare a puntate, e ben prima del passaggio definitivo. E lo consolò l'idea che non esistesse alcun blasone che non fosse immaginario: l'unica barriera che impedisce al simile di rispecchiarsi nel simile. Forse, si diceva, a dispetto dell'asserito possesso della Via, il Maestro era stato un uomo profondamente solo, perché rinchiuso in una fortezza inaccessibile, nella quale si era autoconfinato per sempre. Forse -si azzardò a pensare- persino lui aveva segretamente coltivato l'illusione che la conoscenza della Via portasse a godere dell'immunità dal cancro.
  Poi, tutta questa storia gli tornò in mente un giorno in cui, ormai anziano, osservò la propria immagine riflessa nello specchio del proprio inarrestabile declinare. E ripensò a un racconto di Borges nel quale Io e l’Altro sono la stessa persona.

lunedì 10 novembre 2014

LA DURATA

ALLORA
Allora il mondo era intatto. La bella stagione sapeva di fieno tagliato e di busa di vacca. Il sole accarezzava i capelli biondo-oro di sua madre con un riverbero che colorava l'aria, attorno al fiore rosso delle labbra. San Martino era la libertà.
Ma, a cercare un po' più lontano, c'era anche un'angoscia indefinibile, che rendeva il suo sguardo pigro e distratto.
Quel giorno, sessant'anni più tardi, si ricordò dell'unghia nera sull'alluce di suo padre. "Papà, perché è così?", chiedeva con apprensione. "Uno specchio", rispondeva il padre ridendo, completamente ignaro dell'importanza della domanda. "Mi è caduto lo spigolo di un grosso specchio sul ditone". "Quando?" "Tanto tempo fa".
Dunque, non c'era guarigione. Non come le sue ginocchia sbucciate, che dopo un po' guarivano, e al massimo lasciavano delle strie bianche sottili, che poi il sole cancellava. Dunque, c'era qualcosa che si corrompeva per sempre. Come il collo di sua madre, deturpato da un uovo. Una specie di uovo ingoiato intero e rimasto lì, in gola. Un nodo tiroideo calcificato, aveva detto il medico. Per forza: anche il guscio dell’uovo è fatto di calcio; lo aveva imparato a scuola. L’unica cosa che gli sembrava certa, per averla sentito dire in casa, era che quell’uovo c’entrava qualcosa con la sua nascita.
Allora fantasticava di spingerglielo giù, con le dita, ma la cosa lo angosciava molto, perché quel gesto sarebbe stato uguale a quello visto al cinema: il gesto che serve per strozzare. Per un tempo lungo, deviò quell'angoscia su polli e galline, a causa del loro gozzo. Morte e spiumate, appese sopra il banco della Gisella, la pollivendola, la loro testa e il collo apparivano minacciosi e in grado di animarsi all'improvviso.

ADESSO
Adesso era in pensione. Nonostante il passare del tempo, aveva coltivato e accumulato abbastanza passioni da pensare che non si sarebbe intristito. Ma una cosa lo opprimeva ugualmente: quel senso del limite, piombatogli addosso all'improvviso. Come una corsa non più interminabile, ma con un capolinea certo. Non che prima non lo sapesse. Ma ora il limite era sempre lì, davanti ai suoi occhi. E a volte era colto da una sottile angoscia di non farcela. Anche i segni che gli dava il suo corpo gli dicevano che bisognava economizzare. Che il tempo dello scialo era finito per sempre. E poi, ci si metteva anche la crisi mondiale, a ricordarglielo.

ONICOMICOSI
Alcuni anni prima, aveva sofferto di un'onicomicosi all'unghia dell'alluce sinistro. Sulle prime non gli era tornata alla mente l'unghia nera di suo padre, ma poi ci pensò, quando ormai le cure intensive che ottenevano effetti così lenti duravano da un paio d'anni.  Ora, sull'unghia alla fine guarita, rimanevano i segni di una piccola lunga battaglia.

ANTROPOLOGIA
Il giorno prima del sogno ha ascoltato la conferenza di un’amica: il ruolo del femminile, fra psicoanalisi e antropologia. Patriarcato e Matriarcato. Le Cariatidi femminili di Atene che accompagnano il guerriero morto nell’ultimo viaggio. Mentre l’amica parla, lui pensa a Sisifo che incatena Thanatos. Sisifo che si ribella alla decisione di Zeus di farlo morire per punirlo di uno sgarbo, e imprigiona la Morte. Sisifo che si oppone al destino dei mortali con la forza dei muscoli. Con Thanatos incatenato la terra languisce perché nessuno muore più, nemmeno in battaglia. Ares che libera Thanatos, imprigiona Sisifo e lo conduce al Tartaro.
La morte non si sconfigge con la forza dei muscoli. Il guerriero, accompagnato nel Regno dei Morti da un corteo di fanciulle rappresentate dalle Cariatidi, ha bisogno di ricongiungersi alla sua parte femminile, alla pietà, alla sim-patia, alla sollecitudine. Tutti attributi che in guerra sono inutili e pericolosi orpelli che rallentano la rapidità dell’azione, ma che di fronte all’ineluttabilità della Morte diventano ridicolmente grotteschi. Davanti alla Morte, non si può che essere seri. I muscoli di Sisifo, la virilità degli Eroi, non servono a nulla. Occorre la Pietas, che è femminile. Le Cariatidi sono le colonne portanti dell'Eretteo; senza di esse è il Cielo che crolla.

SOGNO
Osserva i suoi piedi, e scopre di avere un'estesa onicomicosi a un alluce. Decide di provare a rimuovere l'unghia con un movimento dolce, come quando si prova a scollare un'etichetta.
L'unghia viene via facilmente, portando con sé un ampio lembo di pelle della grandezza e della forma di un sacchetto di plastica. Di quelli che si usano per la spesa.
Osserva a lungo il sacco di cute al suo interno, e a un tratto gli viene in mente che occorre esplorarlo bene, perché potrebbero esserci dei vermi.
Guarda meglio, e, in un angolo, riconosce una forma a lui molto familiare: un bigattino, o cagnotto, la larva della mosca carnaria, che si sviluppa nella carne in putrefazione. Per anni, ha usato i bigattini per pescare le trote.
Mentre sta osservando la larva, la sua attenzione è attirata da urla concitate. È sua figlia, in preda a una crisi di panico: corre terrorizzata per la casa, gridando "c'è Satana! Aiuto! Satana! Via, via! Aiuto!".
È soltanto, pensa tranquillamente, un po' di angoscia. Sua figlia, ventenne, ha una terribile paura della morte, che non riesce nemmeno a nominare. Satana uguale Thanatos; quasi un anagramma. Pensa che la ragazza ha bisogno di essere tranquillizzata. Butta la pelle e il verme nella spazzatura, e corre da lei.

RISVEGLIO
Si sveglia, con il pensiero che la morte sia pensare soltanto a se stessi. Che occorra tornare a quel punto in cui aveva sentito di non essere più lo scopo esclusivo di tutto, quando sua figlia aveva riempito, all’improvviso, il mondo. Quando il suo narcisismo aveva incontrato una curva a gomito, ed era stato costretto a deviare. Ed era stato così bello.


“Chissà –si chiede- se questo sogno annuncia qualcosa. Magari che, fra un po’ di tempo, comincerò a pensare un po’ meno alla durata”.

sabato 11 ottobre 2014

IL PECCATO ORIGINALE DELLA PSICOANALISI

(a B.)

"Nell'estate del 1897 (...) Freud dette inizio alla sua più eroica impresa - un'analisi del proprio inconscio. Oggigiorno per noi è difficile renderci conto dell'importanza di questa conquista, come del resto avviene per la maggior parte delle imprese pionieristiche. Rimane però il fatto che si tratta di un'impresa unica: una volta compiuta, è compiuta per sempre, perché nessuno può essere di nuovo il primoa esplorare quelle profondità".(E. Jones, Vita e Opere di Freud, Il Saggiatore, Vol. I, cap. XIV)


"Senza dubbio Lei è il solo che possa fare a meno dell'analista. (...) Nonostante tutte le carenze dell'autoanalisi (che sicuramente è più noiosa e ardua dell'essere analizzati) dobbiamo confidare che Lei sia in grado di padroneggiare i suoi sintomi. (...) Se Lei ha avuto la forza di superare dentro di sé senza guida alcuna (per la prima volta nella storia dell'umanità) le resistenze che l'intero genere umano oppone ai risultati analitici, noi dobbiamo confidare che Lei abbia la forza di risolvere anche i sintomi di secondaria importanza. I fatti ne danno decisamente conferma"
(Ferenczi a Freud, 26 dicembre 1912)


Il peccato originale della psicoanalisi è stato quello di credere in Dio: un dio barbuto, i cui doni divini furono la Creazione e l'Onniscienza (accanto ad essi ve ne furono altri, molto umani e di vitale importanza).
Questo credo, reso obbligatorio attraverso l'iniziazione sacerdotale cui ogni analista si sottopone, è un lascito che si trasmette di generazione in generazione, in obbedienza a quello che Jurgen Reeder chiama "The Superego Institutional Complex" ("Love and Hate in Psychoanalytical Institutions. The Dilemma of a Profession", Other Press, New York 2004), e che finisce per costituire un fardello la cui sopportazione richiede il sacrificio della creatività e della libertà di pensiero.
Un lascito che è anche una malattia mentale, che può essere affrontata con mezzi umani oppure divini.
Se si ricorre agli strumenti divini, allora non c'è che da proclamare ex cathedra l'infallibilità dell'analista, e assumerne le conseguenze. In questo caso, se la realtà stride con il Verbo, allora la la realtà ha torto: perché essa discende da Dio. Pertanto nessuna scienza né alcuna autocoscienza potranno esistere che non siano fondate sulla Fede.
Nel caso in cui la realtà (interna o esterna) debba essere indagata con mezzi umani, allora non ci sarà che da assumere programmaticamente l'errore dell'analista come uno dei nodi da sciogliere.
Tale impresa può essere esaltante, a patto di essere condotta con la collaborazione dell'analizzando.
Essa ha certamente il difetto di deludere troppo precocemente l'aspettativa magica e onnipotente di quei pazienti che affrontano l'analisi come si affronterebbe un intervento chirurgico, nel quale si mette la propria vita nelle mani di un altro augurandosi (o credendo fortemente) che sia infallibile.
Essa però avrà il supremo vantaggio di impedire che ogni comunicazione dell'analista, sia essa un'interpretazione verbale o un comportamento, venga introiettata passivamente anche quando risulti indigesta al contatto che si percepisce nella relazione reale. Perché tale assunzione sarà resa inelaborabile perché ignorata dall'analista e resa inaccessibile alla coscienza propria e altrui dall'analizzando.
L'altro grande vantaggio costituito da un atteggiamento criticamente vigile e improntato a onesta umiltà da parte dell'analista, sarà quello di rendersi indisponibile come oggetto di culto sul quale si possa o si debba costruire una religione idolatrica fondata sulla sottomissione. Ciò avrà per conseguenza il fatto che i nostri pazienti, al pari dei figli, considereranno non solo possibile ma anche naturale succederci e quindi superarci.
La nostra specie si perpetua attraverso le generazioni, e il nostro desiderio maturo è che esista il progresso. Ciò implica che il superamento dei padri da parte dei figli sia una necessità da favorire più che generosamente, e la considerazione che il complesso di Laio sia una condizione non particolarmente favorevole al progresso dell'Umanità.

giovedì 25 settembre 2014

BION

Confesso di avere molte difficoltà con il pensiero di Wilfred Bion, perché si presenta in modo seducente, misterioso, affascinante, esageratamente ellittico, perentorio, e mai del tutto convincente.
Ė qualcosa che non si capisce fino in fondo ma che si percepisce come molto prezioso. È come quel frammento della Civitas Dei che si salvò dalle fiamme in un racconto di Borges. Quel frammento racconta che Platone "insegnò in Atene che alla fine dei secoli, tutte le cose riacquisteranno il loro stato anteriore, e che egli in Atene, davanti allo stesso uditorio, insegnerà tale dottrina" (J. L. B., I Teologi, nella raccolta l'Aleph). Quel frammento, prosegue il racconto, divenne oggetto di una forma speciale di devozione, dando luogo al formarsi di sette religiose che avevano come loro credo l'Eterno Ritorno e come simbolo la Ruota al posto della Croce. Ma i loro adepti ignoravano che nel testo originale da essi venerato, Agostino aveva esposto la dottrina per meglio confutarla.
Così, di fronte alle parole di Bion le cui premesse (il)logiche mi sono sconosciute, sono tentato dalla Fede, tanto più che Lui la raccomanda. L'unica ragione che mi fa esitare sulla via della Dottrina è la certezza che Bion non sarebbe affatto contento di tutto ciò, di me suo chierico indegno, e forse addirittura della sua stessa Creazione. Salvo disconoscerne come fa quell'Altro, la traduzione blasfema fornita dai Suoi interpreti.

lunedì 8 settembre 2014

FUGACI CONTATTI CON IL VERO SÉ

In queste brevi note non mi soffermerò più di tanto a parlare del pensiero di Winnicott, che pure fece della distinzione fra Vero e Falso Sé uno dei pilastri portanti della sua costruzione teorica. Anche perché definire esattamente che cosa sia il Vero Sè è impresa temeraria e probabilmente votata all’insuccesso, dato che di questa entità nascosta non si possono che avere approssimative anche se a volte folgoranti intuizioni.
Le riflessioni che seguono sono il resto di due esperienze susseguitesi nel giro di poche ore: una seduta con P., donna la cui appassionata vitalità si nasconde dietro una cortina molto ben strutturata di preoccupazioni estetiche, e la lettura di un articolo comparso sulle pagine culturali nel numero di oggi, 8 Settembre 2014, di Repubblica.
P., che in sogno teme di perdere la propria bellezza che verrà poi restaurata da manufatti chirurgici della cui efficienza e stabilità sembra fortemente dubitare, è angosciata dall’idea che l’analisi stessa possa contribuire a metterla a nudo rivelando impietosamente ciò che lei stessa teme o dispera di conoscere; mentre l’autore dell’articolo, lo scrittore Michael Cunningham, racconta magnificamente il linguaggio di un’opera d’arte, la statua funeraria di Ilaria del Carretto di Jacopo della Quercia, conservata nella cattedrale di San Martino a Lucca. 
Seconda moglie di Paolo Guinigi, aristocratico e tirannico signore del luogo, Ilaria morì a 26 anni dopo aver dato alla luce il secondo figlio della coppia.  Alla sua morte, il consorte commissionò il monumento funerario che la ritrae dormiente con un cane (simbolo di fedeltà) accovacciato ai suoi piedi.
L’articolo di Cunningham passa in rassegna tutto ciò che la statua non può dire dei sentimenti di Ilaria morente, compresa la rabbia per dover rendere la vita in un’età così precoce, dopo aver adempiuto i propri “doveri” di madre e moglie esemplare, quale l’intenzione del committente intendeva ritrarla.
Jacopo, in un’epoca in cui Bernini, Michelangelo e Leonardo non erano nati, realizza un’opera magnifica, infondendo nel viso della donna un’ineffabile aura di mistero e di muta compostezza.
Ciò offre all’Autore dell’articolo l’occasione per addentrarsi in riflessioni che hanno avuto su di me un effetto di vertigine e di affascinata passione, in particolare in alcuni passaggi che voglio qui riportare: 
“Il compito dell’artista è riprodurre la nostra umanità nascosta. Il compito dell’impresario di pompe funebri è farci assomigliare, seppur fugacemente, a come eravamo in vita”. 
O meglio: a come pensavamo noi di essere, o come gli altri ci vedevano. Oppure (come nel caso di una giovane donna consegnata alla memoria eterna dal volere di un marito dispotico, preoccupato soprattutto di ricordarne la fedeltà, e già proiettato verso nuove imprese erotiche o matrimoniali), come gli altri pretendevano di rappresentarci.
Ma c’è qualcosa che l’Autore descrive e che rappresenta l’incontro del soggetto con la propria “vera” realtà (il Vero Sè, direbbe Winnicott), che lascia senza fiato.
Cunningham racconta: “Ho un amico che è morto, per qualche minuto, durante un’operazione chirurgica. Niente battito, niente respiro. e, grazie alla strana magia della medicina moderna, è stato riportato in vita. Dopo quello che ci parve un rispettoso intervallo di tempo, noi che lo conoscevamo gli chiedemmo che cosa avesse provato in quei quattro minuti e poco più che era stato, tecnicamente, morto. (...)  «Ebbi la sensazione -fu la risposta dell'amico- di essere in presenza di qualcosa che mi aveva riconosciuto». Aggiunse poi che non era come se fosse stata riconosciuta la sua identità, la sua persona; a quanto pareva, le sue azioni terrene avevano ben poca importanza. Disse di aver avvertito la presenza di qualcosa che lo conosceva a un livello più intimo e profondo, che non aveva niente a che vedere con quanto immagino chiameremmo la sua identità. Si sentì riconosciuto nello stesso modo in cui una neo-mamma riconosce il suo bebè appena nato”.

Confesso che queste righe mi hanno emozionato non poco. La conoscenza che una mamma ha del proprio neonato va al di là di ogni linguaggio e di ogni capacità cognitiva a noi nota se non in larga approssimazione; e siccome io non sono affatto disposto a ricorrere alla semplificazione logica di un’interpretazione che immagini l’anima del quasi-defunto posta transitoriamente alla presenza di un'Entità onnisciente, ho piuttosto la tendenza a immaginare che una regressione così massiccia abbia posto la mente del soggetto di fronte a una percezione di sé non mediata dai linguaggi, dalle narrative storiche, dalla serie infinita delle sovra-trascrizioni della propria memoria autobiografica, che contraddistinguono la nostra vita psichica adulta.
Molto spesso, come nel caso di P., queste trascrizioni sono l’effetto di complicate relazioni simbiotiche che includono nella percezione di sé molti pensieri introiettati attraverso l’intimo contatto con altri, anche nel caso che tali introiezioni abbiano trascinato dentro il Sé sentimenti anaffettivi, o antlibidici transitoriamente o stabilmente presenti nei propri antichi caregivers, che conferiscono al soggetto un senso di smarrimento e un’angoscia che richiede di essere rivestita di immagini tanto appariscenti quanto malferme.
Ma, analogamente a quanto accade alle giovani madri, allo psicoanalista è concesso il privilegio di riuscire a individuare da piccoli segni, da fugaci impressioni e da propri stati d’animo, elementi il più delle volte frammentari di una realtà affettiva profonda e degna di essere apprezzata e amata, di cui rendere partecipe il paziente.
Sono i nostri sentimenti più difficili da definire a essere maggiormente in contatto con ciò che l’Altro non riesce a cogliere di Sé. 


E la realizzazione di questo compito, di certo rudimentale e approssimativa, è ciò che di più prezioso la psicoanalisi possa perseguire, al di là di ogni possibile definizione, da tale angolo visuale estremamente riduttiva, di stati morbosi e di rimedi terapeutici.

venerdì 27 giugno 2014

LA GRANDE TRUTH

“The truth is beauty, the beauty is truth”: verità e bellezza come quasi sinonimi. Molti anni fa, negli anni settanta, questo aforisma era uscito, con tono secco e ispirato, dalla bocca di Donald Meltzer, durante uno dei memorabili seminari organizzati a Perugia  da Carlo Brutti e Franco Scotti.
Quelle parole mi erano sembrate strane e incomprensibili, forse addirittura arroganti nella loro perentorietà. Sarà stato perché allora, la parola “bellezza” aveva ancora un sapore scolastico, e mi faceva venire in mente, in maniera intellettualistica e anaffettiva, unicamente il Canone di Policleto. Oppure sarà stato perché dalle verità sul mio conto che dovevo ancora scoprire, tutto m’aspettavo tranne che fossero belle o anche solo attraenti. E così, d’un tratto, il desiderio di confrontarmi su un piano di accessibilità con un “grande” della psicoanalisi, subiva un arresto improvviso, rivelandomi una dimensione di pensiero irraggiungibile e misteriosa.
Questa frase mi è tornata in mente oggi, quando, camminando per strada, il mio sguardo si è posato sulla foto di Toni Servillo vestito dei panni (molto studiatamente raffinati) di Jepp Gambardella, il protagonista de “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino.
Ho ripensato a quelle parole che riassumono tutto il film: alla “Santa” che gli chiede “perché non hai mai più scritto un libro?”, risponde: “perché cercavo la grande bellezza, ma … non l’ho trovata” . E lei: “lo sai perché io mi nutro di radici? Le radici sono importanti….”
Ma prima, nel riflettere sul passato, il protagonista aveva raccontato il proprio errore percettivo senza tuttavia poterlo ancora riconoscere: “io non volevo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire”.
Ecco: essere belli e vestiti in certo modo, essere “il re dei mondani”, andare il televisione, è la grande e inconsolabile tristezza. Perché è una bellezza disgiunta dalla verità. Anzi: un’apparenza che si nutre, e si gonfia fino a scoppiare, di inautenticità.
A sentire le parole della Santa, sembra che si possa ritrovare l’autenticità soltanto nutrendosi delle proprie radici. Forse, noi abbiamo una necessità vitale di stringere saldamente fra le mani la nostra storia, e per farlo dobbiamo riuscire ad amarla nei suoi avallamenti e nei suoi picchi, nelle sue miserie e nelle sue grandezze.
Se la bellezza è la verità, se la verità è ciò che (non) sappiamo di noi stessi, tutto ciò diventa comprensibile soltanto quando acquisiamo la capacità di leggere le nostre radici.

E’ per questo che, durante tutta la mia vita professionale, fra gli scarni ferri del mestiere, ho sempre attribuito un posto speciale alla ricerca, meticolosa e dettagliata, dell’anamnesi, cioè della storia personale, e persino pre-natale delle persone che mi erano state affidate. Perché soltanto così si scoprono le radici: quelle dei pazienti che si rivolgono a noi, ma soprattutto le nostre. Per scoprire le quali ci possono venire in soccorso soltanto la filosofia, la grande letteratura, l’arte, la grande musica, e per le anime più semplici come la mia, la psicoanalisi. Ma non qualsiasi psicoanalisi. Soltanto quella capace di amare qualcosa oltre se stessa. E di saperne cogliere l’invisibile bellezza.