Perché Wiesbaden 1932


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Detto ciò, benvenuti nel mio Blog, angolo per riflessioni da condividere con colleghi e amici selezionati.











sabato 24 novembre 2012

ALDO BUSI E IL BAMBINO TRANSGENDER


Sulla scia di un tristissimo episodio di cronaca (il suicidio di un adolescente che era stato oggetto di scherno da parte di compagni omofobi), su "Repubblica" di oggi 24 novembre 2012, Aldo Busi pubblica un lungo e interessante articolo che parla di un bambino transgender e della sua famiglia tollerante.
Dalle parole dello scrittore, da quel suo compiaciuto stupore per un padre e una madre che dicono "non ci vuol molto ad essere dei bravi pedagoghi: invece di strappare i suoni che vuoi tu, col rischio di avere in risposta le urla sincopate di una bestiola in gabbia, resti in ascolto dell'umanità per come è fatta", si intuisce tutto il dolore di chi si è sentito straniero nella propria famiglia, irrimediabilmente "diverso" e rifiutato.
Come si fa, allora, a non solidarizzare con Busi, come si fa a non condividerne l'ammirazione per una famiglia che compie lo sforzo estremo di rinunciare a proiettare nel figlio reale un qualsiasi figlio immaginato? La questione riveste primaria importanza anche perché non investe soltanto le scelte di genere o di orientamento sessuale dei nostri figli e il loro eventuale sviluppo "atipico". Essa riguarda ogni ambito dello sviluppo della personalità. Mio padre, buonanima, uomo buono ma devoto a un certo sistema di valori socioculturali e a una certa ideologia politica allora egemone, soffrì molto quando scoprì di essersi allevato in seno un figlio "comunista" e troppo incline a sfuggire le scelte di vita che la famiglia intera aveva sognato per lui. Questa fu  la storia di centinaia di individui appartenenti alla mia generazione, mentre a quelli appartenenti alle generazioni successive accadde, una volta diventati genitori, anche di "peggio", per essersi dovuti adattare ad accettare scelte dei figli imprevedibili nel costume, nelle aspirazioni, nei valori. Non tutto, di ciò che andava contro i desideri dei genitori, fu egualmente accettabile, egualmente condivisibile, sopratutto se incompatibile con la felicità e con la vita; ma certo, si pose, forse in misura mai sperimentata prima, la necessità di mettersi "in ascolto dell'umanità per come è fatta", rinunciando una volta per tutte al paternalismo, a quella "pedagogia nera", patriarcale e distruttiva, che tanti guasti aveva prodotto durante il secolo che ci aveva preceduti.
Tuttavia anche oggi, quarantacinque anni dopo quel fatale 1968, per ogni individuo che si affacci all'esperienza genitoriale si pone il tema stringente di una rinuncia alla soddisfazione narcisistica di promuovere in misura prioritaria il proprio compimento, in favore del compimento di qualcun altro. Ogni volta che diventiamo genitori dobbiamo compiere una rinuncia: se ciò non accadesse, i nostri figli dovrebbero subire la proiezione dei nostri desideri, delle nostre identificazioni fino a esserne riempiti fino a scoppiare e a ribellarsi; oppure a sottomettervisi, lasciando morire così la propria anima, assieme alla propria irripetibile unicità.
Fra le divergenze più acute che un individuo eterosessuale può incontrare lungo il percorso della propria paternità vi può essere quella di un figlio omosessuale o "addirittura" transgender. Questa trasgressione suprema del genere o dell'orientamento apparentemente assegnatoci dalla natura, può essere sì una espressione di totale aspirazione alla libertà, che come tale va difesa e valorizzata; ma può esse anche altro.
Intorno alla fondamentale questione dei diritti delle persone omosessuali e transgender, oggi, nel nostro sempre vivace Paese, si affrontano due partiti uno dei quali è sicuramente estremista, becero, violento e razzista, mentre l'altro corre il rischio di fare della propria generosità e sensibilità un rituale vuoto e conformista.
Dico ciò pensando proprio al bambino transgender raccontato da Busi e alla sua coraggiosa famiglia: perché quel bambino oggi rischia di essere sacralizzato, innalzato sugli altari, diventando un piccolo Buddha intoccabile, cioè un paria. Dico questo perché ho notato con preoccupazione che dalle parole del padre raccontate da Busi è assente qualsiasi idea di conflitto, di sofferenza, di insofferenza. In quella famiglia regna la Pace Perfetta, la Tolleranza Assoluta, la capacità definitiva di rinunciare al proprio narcisismo che ci spinge ad imporre al nostro bambino reale gli abiti mentali del bambino desiderato. 
Di certo, l'omosessualità non è una malattia, come è definitivamente chiaro anche agli occhi della psichiatria maggiormente ancorata al passato. Ma ciò non significa che un omosessuale sia una persona esente da angosce e sofferenze per le identiche umanissime ragioni per le quali soffriamo tutti. Nell'esercizio della professione, ho visto fin troppi individui fuggire da un'identità di genere per sottrarsi o per assecondare la bramosia dei loro stupratori: ragazze che volevano farsi amputare i seni, per diventare maschi. O ragazzini diventati gay per sottostare a una volontà altrui. Certo il modo gay non si esaurisce in questo: è molto altro, di più e di meglio. Ma di fronte ad ogni individuo, di qualsiasi orientamento e genere, dobbiamo porci in ascolto reale, a tutto campo, guardandoci dalle demonizzazioni come anche da idealizzazioni che possono rivelarsi altrettanto traditrici.
E ai genitori del bambino descritto tanto trionfalisticamente da Busi, vorrei dire di fare attenzione alle sue troppe personalità, e alla sua capacità di tenerle tutte assieme. Perché fra i pericoli del mondo non c'è soltanto la violenza degli intolleranti, c'è anche la capacità di tenuta della mente. Perché di confusione si può anche morire. 

martedì 20 novembre 2012

DAL TRONO DI DIO

Soledad è una donna appassionata, la cui disposizione all’attaccamento si è rivelata, fin dal primo istante, estremamente tenace. La “sento” solidamente attaccata e bisognosa di legame, anche se ciò contrasta con l’ipotesi di ambivalenza che si può avanzare di fronte al ripetersi dei suoi piccoli ritardi, che sono giustificati dal fatto che il mio studio sarebbe “a tron di dio”, vale a dire in un punto lontanissimo, irraggiungibile (prima di questa circostanza non avevo mai pensato - che potere straordinario ha la scrittura!- al significato di questa frase idiomatica: il trono di Dio è il punto più lontano da raggiungere, da qualsiasi latitudine noi partiamo, e forse anche la sorgente del TUONO di Dio, cioè della paranoia primaria).
Forse è per questa ragione che, come chi abbia compiuto un cammino tanto lungo, Soledad deve trattenermi saldamente dentro il suo campo visivo rimanendo seduta di fronte a me, anziché sdraiarsi sul lettino come pure le ho più volte suggerito.
Se io fossi uno psicoanalista blank screen (qualcuno obietterà: “se tu fossi uno psicoanalista”) avrei forse, con un po’ di fatica e una buona dose di imposizione, ottenuto che Soledad si sdraiasse, lasciando poi al lavoro interpretativo il compito di venire a capo del suo conflitto, che è quello -mi par di capire- di chi è molto preoccupato di suggere il latte materno fino all’ultima goccia, non lasciandosi sfuggire niente, nella probabile convinzione che comunque niente basterà.
Per ottenere questo scopo, Soledad si attacca con gli strumenti di un’allegria di fondo che pervade la sua depressione, e che mi diverte molto.
E’ molto piacevole stare a contatto con Soledad, anche se ciò mi impedisce di fare un lavoro più pulitamente psicoanalitico (anche noi terapeuti bipersonalisti ci proviamo); qualcuno potrebbe chiamare tutto ciò seduzione, ma essere sedotti significa essere trascinati in un luogo dove un altro ci conduce prima ancora che noi abbiamo deciso di andarci, mentre io sono un compagno di viaggio ostinato e piuttosto litigioso. Così non ho paura della seduttività di Soledad (siamo tutti e due abbastanza anziani da non farci venire idee troppo strane o pericolose), e per questo, nel cammino che abbiamo intrapreso, mi pongo soprattutto l’obiettivo di precederla sempre di qualche passo, per aspettarla dietro ogni curva, seduto sulla seggiola della Madre, anziché sul trono di Dio. Prima o poi lei, che è una donna molto intelligente, imparerà a distinguere.

Ciò premesso, mi chiedo che cosa perdiamo, Soledad e anche io, dal fatto che non si stia facendo un lavoro conforme al canone.
Da tempo considero il lavoro terapeutico di questo genere come una possibile risposta al tema sollevato da Winnicott, quando parla della funzione di specchio esercitato dal volto della madre sullo sguardo del bambino (o del paziente). E’ questo, io credo, il punto dal quale dobbiamo partire, se vogliamo riflettere sulla dinamica della relazione terapeutica vis-à-vis, che può essere una riedizione del legame madre-bambino quale si presenta nei primi anni di vita.
In confronto a ciò, il lavoro psicoanalitico con il paziente sdraiato sul lettino mi sembra più simile alla rêverie che si instaura fra madre e figlio (figlia) durante la gravidanza. Escluso ogni altro tipo di comunicazione mimica e persino verbale, la comunicazione è condotta attraverso le identificazioni reciproche; una specie di telepatia, insomma.

La considerevole difficoltà che deriva dalla pretesa di effettuare del lavoro psicoanalitico da una posizione vis-à-vis è quella della comunicazione gestuale, il più delle volte inconscia, che si svolge in entrambi i sensi fra paziente e analista.
In questo caso lo sguardo e la mimica facciale veicolano comunicazioni che l’analista non è quasi mai in grado di controllare, e che possono essere comprese e decodificate soltanto in parte e soprattutto dopo che si sono manifestate.


Un esempio: l’altro giorno, pochi minuti prima che una Soledad insolitamente puntuale entrasse nella stanza, avevo appreso dal computer una notizia (non ricordo esattamente quale) che doveva avermi reso pensieroso. Pertanto, devo aver accolto Soledad con una faccia particolarmente “blank screen”. In seguito a ciò, quando la donna, con l’espressione preoccupata, mi ha chiesto: “è arrabbiato?”, mi sono sentito per un attimo spiazzato, e ho risposto proprio quello che non avrei dovuto, ciò che chiude ogni ipotesi, anziché aprirla: “no, non sono arrabbiato”, senza approfondire ulteriormente l’argomento.
Nel rivedere criticamente quella mia risposta, mi sono giustificato con me stesso dicendomi che, se la paziente fosse stata sdraiata sul lettino, avrei avuto tutto il tempo di rimanere in silenzio e di pensare, ricorrendo a quel rallentamento del tempo forse un po’ artificiale ma tanto prezioso per il lavoro dell’analista; e poi -ho aggiunto fra me e me- la percezione di Soledad non era il frutto di una sua proiezione, perché il mio stato d’animo era effettivamente occupato da un pensiero spiacevole.
Ma è sufficiente tutto ciò a liquidare la questione? Direi di no, anzi: posso ipotizzare persino che la percezione angosciata dei contenuti provenienti dal mio interno e l’aspettativa che essi avessero un significato per lei persecutorio (il "Tuono di Dio") debba essere, a seguito della mia performance così intempestiva e poco brillante, persino aumentata.

Soledad ha percepito la reale esistenza di miei pensieri “neri”, percezione che ha coinciso con il saluto, quindi con l’accoglienza (in un certo senso: con la nascita). Il mio comportamento successivo è stato quello di affermare con sbrigativa perentorietà che non c’era rabbia dentro di me (effettivamente, non ero arrabbiato), evitando di spiegare la vera causa della mia espressione mimica. La paziente potrebbe aver percepito un messaggio del genere: “ciò che c‘è dentro di me e che ti fa paura non devi saperlo”: un viatico poco rassicurante per la notte. Poiché non si può dormire con un pensiero del genere, si seppellisce tutto nel più profondo della cantina; poi, dal buio, saliranno gl’incubi. Soledad è stata “male accolta”, e il bambino male accolto, sostiene Ferenczi, è soggetto in maniera particolarmente intensa a desideri di morte.
E allora che fare? Non posso essere certo che la prossima volta farò meglio, perché il ritmo della comunicazione vis-à-vis non consente più di tanto il controllo preventivo delle comunicazioni. E allora non c’è che una strada: quella di tornare, appena se ne presenterà l’occasione, sull’argomento, scendendo “attivamente” in cantina a cercare quello che si è depositato per portarlo alla luce del sole. Il cantiere è aperto, e la psicoterapia vis-à-vis può essere non inutilmente l’analisi fatta con il senno di poi.

martedì 6 novembre 2012

AVER TORTO

Carlotta (nome di fantasia) è una psicologa da anni impegnata nella tutela dei bambini e nel sostegno alla genitorialità.
L'altro giorno, mentre pranzavamo assieme, abbiamo a lungo ragionato sulla diversità fra il sentirsi arbitri di vicende familiari complesse, e il far fronte alle nostre normali (e talvolta dolorose) incombenze di genitori. Pochi giorni dopo, mi ha fatto pervenire questa "lettera indirizzata a se stessa", che mi ha autorizzato a pubblicare sul Blog.

Lettera a me stessa
di Carlotta B.

Hai sempre avuto ragione. Come tutti, del resto, hanno sempre ragione. Avevi ragione quando litigavi con tuo padre per la politica, e l'avesti persino quella volta che ti bocciarono sonoramente lasciandoti con il culo per terra. Quella volta lì eri sicura di aver torto perché loro non potevano sbagliare; ma capire dove avevi sbagliato tu era un rebus impossibile da risolvere. Ci vollero anni di penitenza per arrivare a comprendere che tutta quell'infallibilità che avevi loro attribuito era l'esigenza nevrotica di una bambina insicura che aveva deciso di costruirsi un padre onnipotente che la proteggesse per sempre. E fu una grande emozione scoprire un giorno che in quei tuoi fallimenti c'era una verità: fallivi perché qualcosa in quel padre onnipotente non ti piaceva affatto. E l'errore era stato quello di non aver dato voce a quel tuo dissenso, nell'averlo soffocato nascondendolo persino a te stessa, perché eri terrorizzata dall'idea di rimanere sola. Quindi hai avuto ragione anche quando hai avuto torto: una discreta soddisfazione, anche se il prezzo pagato era stato alto. E poi hai avuto ragione un mucchio di volte, scontrandoti in maniera sanguigna, e arrabbiandoti fino a rischiare di star male, contro la superficialità la rozzezza e l'ignoranza dei tuoi avversari. Avevi combattuto, insomma. In nome dell'aver ragione.
Ma ora hai torto. Ora che lei se ne va, e tu ti arrabbi perché non lo fa rispettando i modi e i tempi canonici. Ora che fa qualcosa che accoglieresti con soddisfazione in qualsiasi tuo paziente: uno qualsiasi di quelli che speri imparino a stare in piedi da soli. Perché è per questo che si fanno i figli (come non ti stanchi di ripetere ogni volta in cui ostenti la tua ragione da vendere): per vederli andar via e dire: "ho fatto il mio lavoro". Perché sai (lo predichi da anni) che tutto nasce dal narcisismo dei genitori che considerano i figli come un dono per sé. Quando era nata, tu ti eri consolata di quel distacco da te, pensando: "ora il mio narcisismo ha imboccato una curva a gomito: prima la mia vita era esclusivamente dedita alla realizzazione di me stessa, mentre ora io passo in secondo piano". Ma quanta autenticità vi era in tanta saggezza? E dov'era finito l'egoismo di sempre? Sparito per sempre? O messo solo momentaneamente da parte? Certo, non ci si può annullare per i figli come aveva fatto tua madre con te, ma almeno non bisogna perdere le coordinate: il tuo GPS interno dovrebbe sempre indicarti il punto in cui ti trovi. E tu ora sei nel punto del torto marcio.
Ti preoccupavi tanto per quella figlia che non cresceva, sempre un po' imbambolata, sempre lenta. Hai speso ogni sforzo e ogni soldo per aiutarla. Volevi che diventasse adulta, una bella mente. Come la tua. Diciamo la verità: avresti voluto farne una copia di te, qualcuno che potesse portare avanti la tua voglia di sapere, avida e incessante. Perché una vita non basta, e ogni volta che guardi la tua libreria ti chiedi dove finirà tutto questo, dopo. Non sei abbastanza importante perché possa diventare un museo né così irrilevante da poter mandare tutto al negozio dei libri usati senza nemmeno un rimpianto. Così avresti voluto che lei ti continuasse. Ma se tanto mi dà tanto, potrebbe essere che anche lei abbia tentato di fallire per sottrarsi ai tuoi desideri di farne una copia; in fondo, è la stessa cosa che hai fatto tu con i Maestri. Così è rimasta lì, sospesa fra il crescere e il non crescere, ostinatamente attaccata alle favole dell'infanzia fintanto che un giorno vi ha detto, senza che nessuno se lo aspettasse, che avrebbe preferito vivere da un'altra parte. Dapprima hai sorriso, poi hai pensato che ci fosse qualcuno con cui volesse aver campo libero, poi hai cominciato a sentire che lei ci tiene davvero, che non è la sfuriata di un momento, che è un'esigenza e non un capriccio. E hai cominciato a non voler capire più e ad arrabbiarti. Ma siccome hai capito benissimo, ciò che ti resta è questa tua tristezza. 
E quindi, che dire adesso delle curve a gomito del narcisismo? Se tuo figlio decide di provare a camminare da solo dovresti prendere la notizia con soddisfazione. Ma non puoi perché questo  è un altro segno del tuo invecchiare. E allora non ti restano che rabbia e tristezza, e alla fine di tutto questo, la calma sensazione di aver torto."