Perché Wiesbaden 1932


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Detto ciò, benvenuti nel mio Blog, angolo per riflessioni da condividere con colleghi e amici selezionati.











sabato 22 ottobre 2011

SE IL PAZIENTE ANALIZZA IL TERAPEUTA

Scrive Ferenczi: “Il narcisismo dell’analista risulta atto a divenire una fonte abbondante di errori in quanto, dando luogo a una specie di controtransfert narcisistico, induce l’analizzato da un lato a mettere in evidenza cose che lusingano l’analista, dall’altro a reprimere critiche sul suo conto e associazioni a lui sfavorevoli. (Ferenczi 1924) (*).

Leggendo queste righe, non cesso di sorprendermi: com’è stato possibile che nessun altro prima e durante (e ben pochi, dopo) abbia potuto pensare che transfert e controtransfert non appartengono ad alcuno per contratto?
Se in seduta io dico qualcosa che disturba il paziente e questi mi risponde: “lei deve aver avuto una madre molto cattiva”, se volessi ricorrere a un’interpretazione “di maniera” potrei dirgli: lei vuol invertire i ruoli, perché non tollera la dipendenza. Ma che cos’ha che non va l’inversione dei ruoli? E quali danni provoca un’interpretazione “di maniera”?
Di fronte ad essa, il paziente ha due sole risposte:
  1. Un silenzio rassegnato, espressione dell’introiezione patologica del mio rifiuto di confrontarmi. «Se il mio analista si comporta così -penserà- sarà giusto così. Sarò io ad essere sbagliato: troppo avido, onnipotente, maniacale. Arrogante».
  2. Proverà ostinatamente a remare contro corrente, spingendosi in una direzione non autorizzata. E in questo caso, io starei difendendo una mia “area cieca” inanalizzata e inaccessibile all’analisi, sia pure proveniente da un paziente. (Che cos’hanno che non va le interpretazioni dei pazienti?).

La psicoanalisi è una straordinaria occasione di vicinanza fra gli inconsci di due persone. In questo contatto ravvicinato i messaggi non verbali transitano nei due sensi.
Per il paziente, l’analisi è un lungo addestramento a riconoscere il contenuto delle acquisizioni di provenienza empatica; una speciale forma di intuito, che permette di vedere un po’ al di là di ciò che comunemente appare.
Immaginare che il paziente debba acquisire insight verso i propri contenuti inconsci, tacitando contemporaneamente la consapevolezza di quanto proviene dall’analista perché non autorizzato dallo stesso, è un’operazione complessa che, chiudendo la porta alla mutualità della conoscenza, da un lato offre al paziente una sorta di double-bind (doppio legame, doppio e contraddittorio messaggio), mentre dall’altro impedisce allo stesso analista di autoanalizzarsi, partendo dal suggerimento che proviene dal paziente.


(*) Ferenczi S. (1924), Prospettive di sviluppo della psicoanalisi, in: Opere, Vol. III, pag. 213, Milano: Cortina 1992.

venerdì 14 ottobre 2011

LA "PIETAS" DELLO PSICOANALISTA

A volte, incontriamo parole che si depositano dentro di noi perché cariche di un’attrattiva misteriosa, il cui senso profondo ci si chiarisce solo nel corso del tempo.
Nei miei ricordi è rimasta appuntata la parola latina “pietas”, udita alle scuole medie, e rivelatasi immediatamente capace di muovere in me un affascinato rispetto, perché così simile e allo stesso tempo distante da  “pietà”, parola comune e banale, sgradevole e di senso irrimediabilmente compiuto.
Se la pietà era un inchinarsi verso una condizione di minorità, la “pietas” di Enea mi appariva come un gesto di autentica umiltà, un guardare in alto, non tanto verso il Dio proclamato da qualche religione organizzata, ma verso una dimensione allo stesso tempo “alta” ed eticamente “giusta” dell’esperienza umana, non disgiunta da un certo grado di bellezza. Risuonata nelle mie orecchie di adolescente come parola ben più attraente dello stantio predicare dei catechisti, la “pietas” rimase nella mia libreria interna come un reperto prezioso ancorché indecifrabile, anche attraverso le successive trasformazioni che dalla religiosità ingenua e conformista dell’infanzia mi condussero all’agnosticismo  dell’età adulta.
Oggi, parlando con un giovane collega, questa parola mi è tornata alla mente come possibile dimensione interna dell’atto del curare psicoanaliticamente.
Un analista non pietoso ma “pius” potrebbe riunire in sé, nell’incontro con il paziente, l’empatia, una piena consapevolezza del carattere bipersonale della relazione analitica, la capacità di armonizzarne le profonde implicazioni di mutualità con un atteggiamento necessariamente asimmetrico perché appartenente al registro genitoriale, lo stile terapeutico “materno” (cioè non autoritario, né freddamente "neutrale"), una profonda capacità di identificazione con le vittime di relazioni predatorie,  e infine la tolleranza per la critica anche inconscia che proviene dal paziente e il coraggio di riconoscere con umiltà i propri errori. L’insieme di questi ingredienti potrebbe forse essere chiamato la “pietas” dello psicoanalista.

sabato 8 ottobre 2011

ISRAELIANI E PALESTINESI

Una enorme stanza, ampia chilometri quadrati, stipata di persone. A un’estremità della stanza, a un certo punto scoppia un terribile incendio, appiccato da qualcuno da fuori. La gente più vicina alle fiamme comincia a correre, tutti corrono. Ma dalla stanza non si può uscire. La gente che sta all’altra estremità rispetto all’incendio viene calpestata a morte. Mentre muoiono, i calpestati azzannano i polpacci di quelli sopra di loro. Quelli che corrono gridano: “perché ci azzannate?” Quelli sotto gridano: “perché ci calpestate?” Quelli di sopra: “noi non calpestiamo nessuno, siete voi, piuttosto, che non dovreste essere qui” Quelli di sotto: “noi siamo sempre stati qui, questa è casa nostra”. Quelli di sopra: “non è vero, voi siete venuti qui per negarci lo spazio vitale, perché siete d’accordo con quelli che hanno appiccato il fuoco”. Quelli di sotto: “noi abbiamo sempre abitato questa casa. Siete voi che ci volete calpestare con la scusa del fuoco”. Qualcuno di quelli di sotto grida: “non c’è mai stato nessun fuoco”. Uno di quelli di sopra: "anche quelli che hanno appiccato il fuoco negano che ci sia stato. Allora è vero che siete come loro". "No, rispondono quelli di sotto: voi che ci uccidete siete come quelli che hanno appiccato l'incendio, che non c'è mai stato". Alcuni di quelli di sotto e alcuni di quelli di sopra gridano agli altri, a tutti gli altri, di smetterla di delirare,  che bisogna salvarsi tutti. Ma nessuno, in quel frastuono, li sente: chi è dominato dal terrore riesce ad ascoltare soltanto parole avvelenate e pensieri folli; è sordo a tutto il resto. Intanto la casa continua a bruciare. Nessuno si salva.

LA GERARCHIA DELLA PAURA

Scrive Bruno Bettelheim (Sopravvivere e altri saggi, Feltrinelli, Milano 1981) che, nei campi di sterminio, anche i guardiani avevano paura, e che la distruzione degli Ebrei, dei Rom, degli Omosessuali, e di tutti gli altri Sommersi, era una prova generale di dominio delle popolazioni sottomesse (quella Tedesca in primo luogo) e di quelle ancora da sottomettere.
Non mi sembra da rigettare l'idea che chi esercita la violenza abbia paura: anzi, è probabile che questa sia una condizione necessaria, di base. Forse è proprio la vittima finale, ultimo gradino della scala dell'abominio, ad avere meno paura di tutti: egli è un morto che cammina, un anestetizzato. Grazie a quel grado di anestesia, molti di loro si salvarono, ed era constatazione comune, nei Lager, che chi sopravviveva per più di cinque anni, aveva una speranza di vita migliore di altri.
Ma quelli che stavano appena un po' sopra di loro, i kapò, commettevano di certo le efferatezze che commettevano per paura; la loro paura e il loro comportamento erano una coppia coerente, spiegabile con quel meccanismo che si chiama "identificazione, anzi: introiezione dell'aggressore" (Sándor Ferenczi, Confusione delle lingue fra gli adulti e i bambini, 1932). E, sopra di loro, la scala gerarchica della paura saliva fino al vertice. Forse anche le SS, nella loro estrema interpretazione del tragico declinata in forma di sadismo, avevano più paura di tutti.
Chi pensi che la gerarchia della paura abbia una sommità abitata dalla sicurezza, forse, sbaglia: Hitler si suicidò per evitare qualcosa di incomparabilmente più spaventoso di un processo e dell'inevitabile condanna all'impiccagione.
E' possibile che anche al di sopra del Capo ci sia un gradino più alto, abitato da un Nulla spaventoso (molti lo chiamano Dio, ma non ha apparenza misericordiosa).

In coda a queste considerazioni, un corollario: ogni tiranno colpisce mortalmente i suoi, prima che chiunque altro. Ne trasforma, terrorizzandoli, l'anima nel profondo. Nell'anima della vittima, almeno, può continuare ad abitare, nascosta, una sete incolmabile di giustizia e di umanità.
Ciò vale anche per i nostri piccoli e patetici dittatorelli di oggi, che si circondano di stuoli di individui pagati per prostrarsi avvilendosi quotidianamente. Essi hanno ottenuto le ferite più profonde e irreparabili, in cambio della loro sciocca, inutile, umiliante, e ridicola avventura.