Perché Wiesbaden 1932


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Detto ciò, benvenuti nel mio Blog, angolo per riflessioni da condividere con colleghi e amici selezionati.











mercoledì 11 febbraio 2015

TITANOMACHIA DI FREUD

Nel 1951, Kurt Eissler scriveva:

"E' di certo in contraddizione con la formulazione di Boltzmann del secondo principio della termodinamica che il cambiamento da uno stato di ordine a uno di disordine sia più probabile del cambiamento inverso. L'aver aperto, da parte di Freud [in occasione della propria autoanalisi], una breccia nelle proprie difese, ha implicato il cambiamento da uno stato probabile a uno altamente improbabile. (...) Quando egli dovette sopportare l'assalto delle proprie libere associazioni o fu persino tentato dal supremo sforzo di volontà di spingere immagini remote e impalpabili dentro il fuoco dell'attenzione cosciente, Freud si rese conto che l'indomabile urgenza di creare spinge così spesso l'artista a deplorare la propria esistenza, oppure riuscì a sopportare il dolore generato dall'autoanalisi, soltanto in vista di un'aspettativa di felicità?
Il processo di autoanalisi, al punto della Storia in cui Freud lo intraprese, fu, per così dire, un atto contrario alla natura umana (...) egli fu il primo a rendere possibile agli uomini il pensare l'immorale e il malvagio senza trepidazione" (*).

Queste considerazioni di Eissler colpiscono oggi, in maniera non del tutto bene accetta, una sensibilità diversamente matura, rispetto a quella predominante negli anni cinquanta, verso la figura, la vicenda umana e l'opera di Sigmund Freud.
Grazie al fatto che studi storici di autori (un nome fra tanti: Paul Roazen) non inclini all'agiografia ma neppure all'antipsicanalismo preconcetto, abbiano posto in secondo piano l'opera biografica di Ernest Jones, considerata per tanti aspetti poco rigorosa e persino propagandistica, e soprattutto grazie alla pubblicazione di una considerevole quantità di materiale epistolare che fornisce al lettore ordinario una via diretta di accesso alla storia della psicoanalisi, oggi si può finalmente guardare al pensiero psicoanalitico non più come a una serie infinita di affermazioni non sempre necessariamente in accordo fra loro, la cui suscettibilità ad essere sottoposte a vaglio critico è minacciata dal timore che la loro eventuale non accettazione dipenda da conflitti irrisolti in chi legge, ma a realizzazioni umane, sorte fra dubbi, angosce, conflitti, meccanismi psichici di difesa, e non di rado anche a ragioni storicamente difensive e di politica societaria.
Leggere quindi un eccesso di aggettivi che carichino retoricamente la figura di Freud, conferendole un'aura inutilmente mitologica, può urtare la sensibilità di chi sia seriamente interessato a comprenderne l'evoluzione del pensiero.
Tuttavia, una cosa bisogna pur dirla: ed è che se noi oggi guardiamo criticamente e spesso anche aspramente al pensiero di Freud, possiamo farlo soltanto grazie alle sue scoperte e anche alle sue invenzioni, che funzionano come modelli per pensare, indipendentemente dalla loro reale esistenza oggettiva.
E un'altra cosa occorre aggiungere: che quello sforzo ci fu davvero, anche se ebbe certamente connotazioni più umane e niente affatto eroiche. Il che va anche meglio. Perché con dei, semidei e titani si è sempre destinati a intendersi poco.



(*) An unknown autobiographical letter by Freud and a short comment, Int. J. Psychoanal., 32: 319-24. Traduzione mia.

giovedì 5 febbraio 2015

UTOPIE PROFETICHE

"Pensi soltanto a cosa significherebbe poter dire la verità a tutti, al padre, al maestro, al vicino, e persino al re. Tutta l'autorità falsa, alla quale ci assoggettiamo,, se ne andrebbe al diavolo - resterebbe soltanto quella legittima.   (...) Io non penso che la concezione psicoanalitica del mondo porterà a un egualitarismo democratico; l'élite intellettuale dell'Umanità deve conservare il predominio. Platone, credo, ha prefigurato qualcosa di analogo. Naturalmente dovrebbe trattarsi di intelligenze costantemente consapevoli delle proprie debolezze, che non dimenticano e non negano il substrato istintuale-animalesco dello spirito umano. Mettere il governo nelle mani di professori superbi, pieni di sé, sarebbe il massimo dell'orrore".

Queste parole, che Ferenczi scrive a Freud in una lettera datata 5 Febbraio 1910, potrebbero apparire una sorta di improbabile e velleitario programma politico soltanto a chi le leggesse senza conoscere la complessa e dolorosa vicenda che ne è il retroscena.
In realtà, queste espressioni non hanno nulla di politico: semmai sono un frammento di quell'analisi non dichiarata che si svolse con Ferenczi nelle vesti di paziente e Freud nelle vesti apparenti di terapeuta, in  un rapporto prevalentemente epistolare che si snodò lungo un arco di 24 anni. 
In effetti Ferenczi si sdraiò anche, per poche settimane e neppure continuativamente, sul divano di Freud. Ma la vera analisi, nella quale possiamo ritrovare una vicenda relazionale e intrapsichica complessa, ricca, creativa e dolorosa consiste nel carteggio, in quelle oltre duemila lettere che per un corrispondente prolifico come Freud rappresentano la relazione epistolare più intensa di tutta la vita. 
Ma la multistratificazione di senso che a posteriori queste parole di Ferenczi rivelano è anche più ricca, perché esse non si limitano ad enunciare un desiderio: quello di una totale e per certi versi simmetrica comunicazione tra Freud e Ferenczi e fra i membri della comunità psicoanalitica in generale; ma dicono moltissimo sull'urgenza del primo nel voler conoscere ciò che gli impedisce di avvicinarsi al secondo, nella percezione di un ostacolo che non è soltanto dentro di lui, ma anche saldamente radicato nell'interlocutore.
E qui le metafore su una sottostante relazione omosessuale che rappresenterebbe un desiderio infantile per così dire preformato nella specie umana, e in qualche modo immatura e dispersiva di energie, mostrano tutto il loro corto respiro, buone tutt'al più a mostrare definitivamente tramontata la pretesa positivistica di conoscenza di una realtà che possa palesarsi in tutta la sua nuda e concreta essenza, dopo uno sforzo titanico di ricerca.

Ma volendo guardare le cose in retrospettiva è facile intuire come, nelle parole di Ferenczi,  vi sia una prefigurazione inconsapevole di tutte le declinazioni future del suo lavoro: dell'analisi reciproca in primo luogo, ma anche, ben al di là della durata della sua esistenza, degli sviluppi attuali della psicoanalisi relazionale, che deve necessariamente comporre l'asimmetria di una relazione paragenitoriale (o genitoriale tout court, quando la vicenda del paziente ne risulti troppo gravemente deprivata) con la necessità di eradicare dall'esperienza del paziente (e anche da quella dell'analista) ogni traccia ragionevolmente eliminabile di una relazione gerarchica assoggettata al "patrimonio istintuale animalesco", e all'eredità filogenetica patriarcale-predatoria. 

Vi è cioè la prefigurazione inconsapevole di una psicoanalisi diventata capace di usare agevolmente il controtransfert, di potersi muovere senza riserve mentali entro la consapevolezza che nessuno mai, paziente o analista, diverrà immune da conflitto e rimozione. Di una psicoanalisi di uomini e non di presunti esseri angelici che abbiano visto in trasparenza il fondo della propria e altrui esistenza. 


E vi è, per finire, l'intuizione di una nuova pedagogia, di cui oggi sentiamo una particolare urgenza, essendo diventati meno capaci di educare le generazioni a venire, dal momento che, avendo abbandonato i codici autoritaristici di un tempo, non siamo ancora riusciti a crearne di nuovi che tengano conto della nostra inevitabile fallibilità senza per questo farci rinunciare alla responsabilità.

domenica 1 febbraio 2015

L'AGGETTIVO "FREUDIANO"

Ho una prevalente antipatia per l'aggettivo "freudiano", definizione rischiosa e troppo spesso ellittica: quando non è usato per definire una teoria o un'opera, è spesso impiegato per proclamare un'eredità, un'appartenenza, un situarsi in un campo anziché in un altro; e in questi casi il settarismo è uno dei rischi da tenere in conto, per non dire della religiosità e del credo, deformazioni così lontane dall'originario spirito rivoluzionario della psicoanalisi.
Questo per ciò che riguarda il registro professionale: per ciò che riguarda il registro colloquiale l'uso è anche peggiore.
Questa riflessione mi scaturisce dall'ascolto di una trasmissione radiofonica (La Lingua Batte, Radiotre, domenica mattina del 1 febbraio 2015), in cui parlando di Leopardi, si chiede a Martone, autore e regista de Il Giovane Favoloso, se abbia stabilito una connessione fra la relazione del poeta con la madre e il dolore dello stesso per la propria condizione che egli fa risalire alla "natura matrigna". "Si, è così" risponde Martone: loro hanno tratteggiato la madre fredda severa e respingente e il padre geloso e autoritario, e la biblioteca paterna come una prigione dalla quale il poeta desidera fuggire, pur essendo essa la fonte enciclopedica della sua sterminata conoscenza, pensandole come matrice della condizione emotiva e della riflessione filosofica del Poeta.
"Allora ne avete dato una lettura freudiana", commenta l'intervistatore.
Ecco, la frase è sufficiente a urtare la mia sensibilità; perché in questa declinazione del pensiero ermeneutico c'è sempre una sorta di imbarazzo, di preoccupazione classificatoria, come l'ansia di relegare il "freudiano" nell'ambito dell'esotismo, della stranezza elegante, della preziosità barocca e un po' autoreferenziale.
Ma che cosa c'è di strano se un uomo che cresca in una famiglia fredda, anaffettiva, culturalmente ricca ma gelosa e preoccupata di mantenere le proprie conoscenze dentro il proprio ambito tanto spaziale (la casa, la biblioteca), e ancor più dentro il proprio spazio relazionale simbiotico? Per il padre, Giacomo non deve lasciare la casa paterna, non deve "trasgredire" i limiti del conosciuto familiare, non deve diventare il più grande poeta della letteratura italiana secondo soltanto al celebrato (dentro le mura di casa) "padre Dante". E che cosa c'è di strano se un uomo tanto creativo e tanto oppresso non desideri più di ogni altra cosa uscire dalla prigione, tanto materialmente, quando ricostruendo un'opera intellettuale, artistica, poetica che abbia la capacità di consolare, di riparare, di ricostruire la catastrofe di un incontro mancato, di una tremenda costrizione, di un'abissale solitudine stabilita fin dalle origini? Che bisogno c'è di chiamare "freudiana" (cioè lettura alternativa, secondaria, e in sospetto di costrutto artificioso o storicamente passeggero) un'evidenza tanto patente? Che la natura "matrigna" sia per il poeta stesso la propria vita familiare, le proprie origini?
O magari, nel relegare tale conoscenza nell'ambito iniziatico di pochi non c'è forse il senso di disagio  che deriva dal constatare che ciò che è patrimonio dell'umanità, nostra vitale proprietà, base stessa del nostro pensiero (come lo sono le Mura di Ninive, recentemente distrutte dalla psicotica arroganza dell'Isis), è in realtà il prodotto di un dolore indicibile, la conseguenza di un evento almeno teoricamente evitabile come il cattivo accoglimento di un bambino non o malamente amato nella propria famiglia? Non c'è forse l'oscura e colpevolizzante impressione che in tali casi l'Artista sia in realtà una vittima sacrificale, il cui sacrificio ci consegna l'opera immortale che ci riscatta? Ma nessun Poeta è Cristo, e forse molti di loro avrebbero preferito essere felici in vita anziché circondati dalla memoria eterna.