Perché Wiesbaden 1932


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martedì 25 novembre 2014

LA SOLITUDINE DEL MAESTRO

   Che ci potesse essere una via di scampo lo speravano in tanti, anzi era normale. Ciò che era meno normale era il pensiero che la si potesse scampare una volta per tutte, semplicemente imparando a comprendere come stavano le cose. Chissà, si diceva l'Allievo, forse così ci si può liberare, e magari si può guarire da queste pastoie che legano le gambe e impediscono di uscire, di correre per il mondo, come, almeno nella fantasia, sarebbe possibile. Perché non è che le strade siano chiuse, per andare là. Basterebbe andarci. Ma lo si dice sempre, e poi non lo si fa mai. Una volta, gli capitò di entrarci per sbaglio, "là". Ma fece in modo di uscirne subito, e si creò una serie di diversivi che fecero come se lui per quella porta non fosse mai passato. Così cominciò a pensare: ora era chiaro che non erano le sue gambe a essere legate. Era lui che non voleva camminare. Così prese la decisione, e andò da lui.
   Lui fu molto rassicurante: con lui c'era la soluzione. Lui la conosceva bene: era il suo mestiere, ripeteva con estrema sicurezza. Sembrava che le cose, nel pensiero di lui, avessero un senso unico, e non andassero mai incontro a dubbi. L'Allievo lo comprendeva bene, e istintivamente non se ne sarebbe fidato. Ma l'altro, se avesse saputo di quei dubbi, avrebbe assunto un atteggiamento sprezzante. E per di più, se avesse seguito i propri dubbi, l'Allievo si sarebbe certamente sentito respingere un’altra volta dentro al labirinto dal quale stava tentando di uscire. Così, decise di provare, e chiese al Maestro di prenderlo. Ma quello iniziò a trovare impedimenti. Aveva già qualcuno a Bottega: qualcuno che l'Allievo conosceva bene, e il Maestro non voleva persone che si conoscessero. Gli consigliò (o forse gli prescrisse) di fare un lungo percorso, bizzarramente tortuoso, andando a bottega da altri, ma con l’intento di affrontare un lavoro propedeutico all’incontro con Lui: insomma, una specie di anticamera.
   L'Allievo fu molto stupito di quella strana proposta: era nevrotico, non stupido. Comprendeva molto bene che se fosse andato da altri Maestri per dire loro di prenderlo in una sorta di crioconservazione pre-impianto, lo avrebbero preso per pazzo. Gli sembrava già di vederli, o di sentirli: lunghi silenzi, risposte evasive. E nessuno che sarebbe stato disposto a credere che quell’assurdo progetto non fosse farina del suo sacco. Fece qualche timido tentativo, solo al telefono, per carità: non avrebbe sopportato di vedere quelle facce che lo avrebbero sicuramente guardato come si guarda un matto. La prima signora che interpellò, lo coprì di insulti: "perché mi telefona a quest’ora? Non immagina che stia lavorando?". Comperati una segreteria telefonica, bagascia, pensò; le avevano già inventate. Decise di lasciar perdere con quella follia, ma era daccapo. Allora gli venne in mente G.. Andò da lui, che gli disse:"faccia minga il pirla, dutur. Corra ai ripari, subito e non dia retta a quello là. L'è mat". Così trovò una signora gentile e accogliente, e andò da lei.
  Ma quello era solo l'inizio. Perché non era che lui fosse disposto ad accontentarsi di andare là. Lui voleva diventare uno di quelli che ti ci fanno andare. Voleva impossessarsi delle chiavi e usarle per aprire la porta ad altri, che lo avrebbero amato e venerato. Voleva l'iniziazione; ma la voleva vera, mica tarocca. Perché lui al potere della conoscenza credeva davvero, anche se la confondeva ancora un po' con la magia. Infatti, di tanto in tanto accarezzava l'idea che, con quella conoscenza in tasca, forse avrebbe potuto evitare ciò che più lo spaventava, anche se non sapeva bene che cosa fosse. Certe volte si sorprendeva a pensare che, con quella conoscenza in tasca, non si sarebbe mai ammalato di cancro. Poi si riscuoteva, perché quello era un pensiero sospetto; molto sospetto.
  Allora tornò da lui, questa volta per chiedergli di insegnargli l’Arte, un apprendimento secondario che era qualcosa di meno rispetto al percorrere la Via. Lui fu gentile e comprensivo: non si mostrò minimamente risentito per il fatto che l'Allievo aveva preso un'altra strada. Ora, anche se non faceva parte della sua Bottega, poteva istruirlo un poco, assieme a un gruppo di altri "apprendisti" come lui. La cosa continuò per qualche tempo, ma l'Allievo non si trovava bene. C'era qualcosa di troppo perentorio negli insegnamenti del Maestro, che sembrava considerare il proprio metodo come l'unico in assoluto; persino migliore di quello della Signora, con cui l’Allievo stava percorrendo la Via. In pratica, infallibile, mentre tutti gli altri erano sbagliati. Ora, siccome l'Allievo intendeva percorrere la Via per guarire dalla propria ingenua incapacità di conoscere la complessità dell'Essere, che supponeva multiforme (anche se ciò complicava terribilmente le cose), gli sembrava molto strano che Il Maestro si proponesse come una specie di vangelo. Lui aveva capito che la Via avrebbe svelato gli inganni dei vangeli. Di tutti, se stessa compresa.
  Così si sentì sempre più a disagio. Ne parlava con la Signora, che a un certo punto gli disse: "chi glielo fa fare di tormentarsi? Ė presto per apprendere l’Arte. Verrà anche quel tempo, e lei potrà scegliere il maestro che più le piacerà. Non c'è soltanto lui". Così lui prese il coraggio a quattro mani, andò dal Maestro e gli parlò chiaramente: voleva smettere. L'altro fu molto sorpreso, ma poi non aggiunse nulla. Si salutarono.
  Accadde poi una serie di coincidenze che portarono Allievo e Maestro a essere temporaneamente vicini di casa. L’allievo vinse una borsa di studio per un soggiorno di alcuni mesi presso una nota università straniera; per una fortuita combinazione, lo stesso ateneo dal quale il Maestro, per quello stesso periodo, aveva ricevuto un invito quale “visiting professor”. E così, i due si trovarono a vivere per un periodo di tempo nel medesimo campus.
  Fu qui che l'Allievo cominciò a notare cose alquanto strane. Innanzitutto, quando i loro cammini s’incrociavano, il Maestro non sempre lo salutava. Lì per lì ci rimase male, pensando che l'altro lo avesse preso in antipatia per qualche ragione che lui non sapeva. Poi si rese conto che non era che non lo salutasse proprio. Lo salutava in maniera alterna, come capitava. A volte, vedendolo, si voltava vistosamente da un'altra parte. Altre volte invece gli "concedeva" un saluto cordiale e frettoloso, come chi "si degna".
  Allora gli venne in mente un aneddoto curioso: al tempo in cui lui frequentava la Bottega, il Maestro aveva raccontato di essere di famiglia nobile; al punto che, agli inizi di carriera, aveva dovuto rimuovere dalla Bottega alcuni preziosi dipinti che recavano sulla cornice le insegne del blasone, perché i novizi non li vedessero. Lui, che non era certo nobile, aveva provato disagio a quel racconto, come se il Maestro lasciasse involontariamente trasparire una propria debolezza, una forma di esibizionismo che stonava con il ruolo.
  Così cominciò a pensare che in quel negare a tratti il saluto ci fosse un residuo, diciamo un fossile, di un'educazione aristocratica. Ne ebbe la conferma un giorno in cui entrò negli uffici amministrativi dell’università per sbrigare certe pratiche, e vide il Maestro parlottare con un impiegato. Lui si diresse a un altro sportello, ma il Maestro si mosse rapidamente dicendo: "eh no! Qua ci sono io!". In realtà, quando l'Allievo era entrato, il Maestro si trovava allo sportello adiacente. Chiunque non avesse conosciuto profondamente il Maestro come lui aveva imparato a conoscerlo, davanti a un comportamento del genere, avrebbe protestato vivacemente. Lui preferì ricorrere a una sottile forma d'ironia, una delle armi che sapeva usare meglio: "Nessun problema", ripose facendo un passo indietro. "Ho tutta la giornata libera". L'altro non dette alcun segno di aver colto in quelle parole una sfumatura leggermente sarcastica. Sembrava sordo. Eppure, il suo era un mestiere per esercitare il quale due sole orecchie erano considerate insufficienti.
  Accaddero altri episodi. Una volta, che furono ambedue rientrati in patria, un Collega straniero amico di entrambi giunse nella loro città, pensando di trascorrere qualche giorno in compagnia loro e delle loro famiglie. Ma il Maestro volle invitarlo a cena escludendo di invitare anche l'Allievo. Il collega –uno straniero poco abituato a certe formalità- fu molto imbarazzato, e l'Allievo gli disse di non preoccuparsi, perché aveva già imparato a riconoscere la logica feudale di quel comportamento. Era una questione di gerarchie. E, obiettivamente, sul piano delle gerarchie accademiche, il Collega straniero contava più dell'Allievo: parecchio di più.
  Con il passare del tempo, il Maestro sofferse degli acciacchi dell'età. Ma chi gli stava accanto notava che il comportamento dell'Illustre Paziente era totalmente irrazionale, bizzarro, controproducente; soprattutto nell'assumere i farmaci indispensabili alle cure di cui aveva bisogno. I medici che lo curavano diventavano matti, perché, nel richiedere i loro interventi, il Maestro pretendeva di imporre orari assurdi. La sua, sosteneva convinto, era una missione che non poteva ammettere interruzioni, e pertanto il mondo si doveva adeguare ai suoi ritmi e alle sue finestre temporali, senza curarsi affatto delle proprie. Così i medici, dopo alcuni tentativi andati a vuoto, rinunciavano a curarlo. Il lettore non si stupirà di apprendere che, un brutto giorno, il Maestro fu colpito da un accidente che lo privò della parola e di una consistente parte della memoria.
  Fu allora che il Collega straniero tornò a trovarlo, e assieme andarono in visita a casa dell'Allievo. Questa volta, il Maestro "si degnò", forse perché troppo dolorosamente colpito da quella ferita profonda all'immagine di sé, o forse perché del tutto immemore di Allievi, Maestri, blasoni e gerarchie. Ma, agli occhi dell'Allievo quell'esperienza fu impressionante e significativa al tempo stesso. Lo impressionò la totale assenza di garanzie rispetto alla morte, che poteva anche arrivare a puntate, e ben prima del passaggio definitivo. E lo consolò l'idea che non esistesse alcun blasone che non fosse immaginario: l'unica barriera che impedisce al simile di rispecchiarsi nel simile. Forse, si diceva, a dispetto dell'asserito possesso della Via, il Maestro era stato un uomo profondamente solo, perché rinchiuso in una fortezza inaccessibile, nella quale si era autoconfinato per sempre. Forse -si azzardò a pensare- persino lui aveva segretamente coltivato l'illusione che la conoscenza della Via portasse a godere dell'immunità dal cancro.
  Poi, tutta questa storia gli tornò in mente un giorno in cui, ormai anziano, osservò la propria immagine riflessa nello specchio del proprio inarrestabile declinare. E ripensò a un racconto di Borges nel quale Io e l’Altro sono la stessa persona.

lunedì 10 novembre 2014

LA DURATA

ALLORA
Allora il mondo era intatto. La bella stagione sapeva di fieno tagliato e di busa di vacca. Il sole accarezzava i capelli biondo-oro di sua madre con un riverbero che colorava l'aria, attorno al fiore rosso delle labbra. San Martino era la libertà.
Ma, a cercare un po' più lontano, c'era anche un'angoscia indefinibile, che rendeva il suo sguardo pigro e distratto.
Quel giorno, sessant'anni più tardi, si ricordò dell'unghia nera sull'alluce di suo padre. "Papà, perché è così?", chiedeva con apprensione. "Uno specchio", rispondeva il padre ridendo, completamente ignaro dell'importanza della domanda. "Mi è caduto lo spigolo di un grosso specchio sul ditone". "Quando?" "Tanto tempo fa".
Dunque, non c'era guarigione. Non come le sue ginocchia sbucciate, che dopo un po' guarivano, e al massimo lasciavano delle strie bianche sottili, che poi il sole cancellava. Dunque, c'era qualcosa che si corrompeva per sempre. Come il collo di sua madre, deturpato da un uovo. Una specie di uovo ingoiato intero e rimasto lì, in gola. Un nodo tiroideo calcificato, aveva detto il medico. Per forza: anche il guscio dell’uovo è fatto di calcio; lo aveva imparato a scuola. L’unica cosa che gli sembrava certa, per averla sentito dire in casa, era che quell’uovo c’entrava qualcosa con la sua nascita.
Allora fantasticava di spingerglielo giù, con le dita, ma la cosa lo angosciava molto, perché quel gesto sarebbe stato uguale a quello visto al cinema: il gesto che serve per strozzare. Per un tempo lungo, deviò quell'angoscia su polli e galline, a causa del loro gozzo. Morte e spiumate, appese sopra il banco della Gisella, la pollivendola, la loro testa e il collo apparivano minacciosi e in grado di animarsi all'improvviso.

ADESSO
Adesso era in pensione. Nonostante il passare del tempo, aveva coltivato e accumulato abbastanza passioni da pensare che non si sarebbe intristito. Ma una cosa lo opprimeva ugualmente: quel senso del limite, piombatogli addosso all'improvviso. Come una corsa non più interminabile, ma con un capolinea certo. Non che prima non lo sapesse. Ma ora il limite era sempre lì, davanti ai suoi occhi. E a volte era colto da una sottile angoscia di non farcela. Anche i segni che gli dava il suo corpo gli dicevano che bisognava economizzare. Che il tempo dello scialo era finito per sempre. E poi, ci si metteva anche la crisi mondiale, a ricordarglielo.

ONICOMICOSI
Alcuni anni prima, aveva sofferto di un'onicomicosi all'unghia dell'alluce sinistro. Sulle prime non gli era tornata alla mente l'unghia nera di suo padre, ma poi ci pensò, quando ormai le cure intensive che ottenevano effetti così lenti duravano da un paio d'anni.  Ora, sull'unghia alla fine guarita, rimanevano i segni di una piccola lunga battaglia.

ANTROPOLOGIA
Il giorno prima del sogno ha ascoltato la conferenza di un’amica: il ruolo del femminile, fra psicoanalisi e antropologia. Patriarcato e Matriarcato. Le Cariatidi femminili di Atene che accompagnano il guerriero morto nell’ultimo viaggio. Mentre l’amica parla, lui pensa a Sisifo che incatena Thanatos. Sisifo che si ribella alla decisione di Zeus di farlo morire per punirlo di uno sgarbo, e imprigiona la Morte. Sisifo che si oppone al destino dei mortali con la forza dei muscoli. Con Thanatos incatenato la terra languisce perché nessuno muore più, nemmeno in battaglia. Ares che libera Thanatos, imprigiona Sisifo e lo conduce al Tartaro.
La morte non si sconfigge con la forza dei muscoli. Il guerriero, accompagnato nel Regno dei Morti da un corteo di fanciulle rappresentate dalle Cariatidi, ha bisogno di ricongiungersi alla sua parte femminile, alla pietà, alla sim-patia, alla sollecitudine. Tutti attributi che in guerra sono inutili e pericolosi orpelli che rallentano la rapidità dell’azione, ma che di fronte all’ineluttabilità della Morte diventano ridicolmente grotteschi. Davanti alla Morte, non si può che essere seri. I muscoli di Sisifo, la virilità degli Eroi, non servono a nulla. Occorre la Pietas, che è femminile. Le Cariatidi sono le colonne portanti dell'Eretteo; senza di esse è il Cielo che crolla.

SOGNO
Osserva i suoi piedi, e scopre di avere un'estesa onicomicosi a un alluce. Decide di provare a rimuovere l'unghia con un movimento dolce, come quando si prova a scollare un'etichetta.
L'unghia viene via facilmente, portando con sé un ampio lembo di pelle della grandezza e della forma di un sacchetto di plastica. Di quelli che si usano per la spesa.
Osserva a lungo il sacco di cute al suo interno, e a un tratto gli viene in mente che occorre esplorarlo bene, perché potrebbero esserci dei vermi.
Guarda meglio, e, in un angolo, riconosce una forma a lui molto familiare: un bigattino, o cagnotto, la larva della mosca carnaria, che si sviluppa nella carne in putrefazione. Per anni, ha usato i bigattini per pescare le trote.
Mentre sta osservando la larva, la sua attenzione è attirata da urla concitate. È sua figlia, in preda a una crisi di panico: corre terrorizzata per la casa, gridando "c'è Satana! Aiuto! Satana! Via, via! Aiuto!".
È soltanto, pensa tranquillamente, un po' di angoscia. Sua figlia, ventenne, ha una terribile paura della morte, che non riesce nemmeno a nominare. Satana uguale Thanatos; quasi un anagramma. Pensa che la ragazza ha bisogno di essere tranquillizzata. Butta la pelle e il verme nella spazzatura, e corre da lei.

RISVEGLIO
Si sveglia, con il pensiero che la morte sia pensare soltanto a se stessi. Che occorra tornare a quel punto in cui aveva sentito di non essere più lo scopo esclusivo di tutto, quando sua figlia aveva riempito, all’improvviso, il mondo. Quando il suo narcisismo aveva incontrato una curva a gomito, ed era stato costretto a deviare. Ed era stato così bello.


“Chissà –si chiede- se questo sogno annuncia qualcosa. Magari che, fra un po’ di tempo, comincerò a pensare un po’ meno alla durata”.