Perché Wiesbaden 1932


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Detto ciò, benvenuti nel mio Blog, angolo per riflessioni da condividere con colleghi e amici selezionati.











venerdì 18 maggio 2012

LE RABBIE SOTTILI (DELL'ANALISTA)

L’irrequietezza di Chiara (vedere post: Turbolenze) sta un po’ diminuendo: i primi mesi di analisi sono stati contrassegnati da un continuo andirivieni dal lettino alla seggiola, posizione sdraiata, posizione seduta, in piedi, nuovamente sdraiata.
Per dirmi le cose più importanti aveva bisogno di guardarmi fisso negli occhi: forse aveva paura che la mia mente potesse spostarsi, o fuggire altrove, non per timore di un'“attenzione fluttuante” a lei sconosciuta, ma piuttosto per l’angoscia di perdere il contatto.
Fino a poco tempo fa, Chiara si voltava spesso a guardare l’orologio appeso al muro, angosciata dal passare del tempo e da qualcosa che sembra sempre sul punto di fuggire via. Poi ha imparato a girarsi una sola volta, a pochi secondi dalla fine, con sorprendente precisione. Da poche sedute ha smesso di farlo: ora il corpo è quasi del tutto quietato, ma la mente lo è molto meno.
Spesso Chiara appare sofferente e impaurita: nessuno di noi due conosce la  causa di questa paura. In questi casi, mi annuncia la fine imminente dell’analisi "che non dà alcun risultato": nessun miglioramento in questi primi sei mesi di analisi, anzi: le sembra di stare peggio. E se non è migliorata in sei mesi, quanto bisognerà aspettare? Non penserò mica di “farla venire” ancora per anni? E poi, siamo proprio certi che questo metodo funzioni? O forse è lei a non essere adatta? mi ripete. “Quando le racconto un sogno -mi dice- lei è bravissimo a rigirarselo come se io le avessi parlato di lei, di noi due, della seduta. Ma che m'importa di ciò che accade qui? io devo imparare a funzionare fuori, nella vita, non quando sono qui dentro”.
La tentazione sarebbe quella di chiederle che cos’è che non va fuori di qui, ma non voglio farlo, perché sono certo che la domanda suonerebbe come una mia fuga dall’interrogativo che l’angoscia: qualcosa che la farebbe sentire in preda a una solitudine innominabile e perciò persecutoria.
“Voi psicoanalisti siete tutti uguali! Usate sempre la tecnica di rispondere alle domande con un’altra domanda”: ogni volta che Chiara mi ripete queste parole, oltre al sorriso che mi strappa l’idea di appartenere a una moltitudine di cloni, mi chiedo sempre se il problema dell’elusione della risposta, di una realtà che sfugge come un’anguilla dalla presa di una bambina disperata, non sia stato il suo problema più angoscioso. Chi sarà stato l’oggetto della caccia: la madre in fuga? E' probabile: ma è inutile arrischiarsi con interpretazioni di maniera. Chiara pretende un prodotto originale e fresco di giornata, e ne ha tutto il diritto.
Prima di avere il tempo di spiegare a me stesso tutto ciò, all’ennesima contestazione metodologica rispondo di getto: “e se fosse un paradigma?”. Inaspettatamente, Chiara sembra tranquillizzarsi: forse perché sono "sceso" sul suo piano, tentando di fare le mie ragioni. Non so nemmeno se abbia capito che, dietro questa formula un po’ astrusa, intendo dirle che interpretare un sogno come se fosse la rappresentazione dell'interazione che c’è fra noi potrebbe non essere un’idea tanto "inutile", perché attraverso il sogno si può forse cogliere qualche funzionamento di base, qualche paradigma di relazione, adatto a fornire senso tanto a quello che accade in seduta, quanto a ciò che capita nella vita di tutti i giorni. Interrogandomi sulla ragione di quella calma improvvisa, mi dico che può darsi persino che Chiara si senta tranquillizzata semplicemente perché sto seguendo il filo logico dei suoi discorsi, anziché spostarmi su un altro piano, che almeno a me potrebbe sembrare più denso di significato.
Chiara è sempre abitata da un “qualcuno interno” che disapprova fortemente il suo venire in analisi; qualcuno che mi dà continui “penultimatum”: forse fra qualche mese "non verrà più". Forse in occasione della mia prossima assenza di una settimana, “si prenderà una pausa di riflessione”.
A volte fa il conto di ciò che ha guadagnato e speso durante quella specifica seduta, come un ragioniere alle prese con la partita doppia: ha rinunciato a fare qualcosa per venire qui, e quello che le ho detto non le è servito a niente. Chiara si diletta di lavori di bricolage edilizio, e approfittando di questo suo hobby le dico: “quello che facciamo qui assomiglia, più che al lavoro edile, al lavoro agricolo. Il piastrellista sa esattamente quante mattonelle servono e quante può posarne in un giorno, mentre l’agricoltore sa che l’albero cresce senza particolare fretta, senza scadenze programmate. Mi dispiace che questa prospettiva la spaventi, ma non conosco alternative.”
Istintivamente, le requisitorie di Chiara mi spingerebbero a tacere: ci ho messo un po’ a capirlo, ma poi sono giunto a concludere che quel mio silenzio, ammantato di tolleranza apparente, è in realtà un modo per arginare una sottile irritazione, leggera e sottotraccia, che mi fa appassire la fantasia.

Nella stanza di analisi, siamo minacciati dalla routine che ci fa sembrare scontati i nostri stati d'animo, che invece non lo sono per niente; e i pazienti se ne accorgono. Matilde, per esempio, è diventata bravissima nel cogliere le mie reazioni emotive ai suoi comportamenti. Ogni tanto mi dice: “lei si è appena arrabbiato”. Gli antichi maestri ci avevano insegnato che quando il paziente tenta di fornire interpretazioni all'analista, allora significa che è maniacale, che non tollera la dipendenza, che vuole invertire i ruoli. Ma in un paio di occasioni, ho dovuto riconoscere che Matilde aveva individuato la mia irritazione prima di me. Non c’ero arrivato da solo, nonostante quella mia reazione non fosse poi così imprevedibile: Matilde è bravissima anche nel farmi arrabbiare.

Le occasioni in cui provo rabbia sono in genere quelle in cui il piacere di stare in contatto emotivo con la persona che ho davanti mi viene sottratto: capita con Matilde quando rimane ostinatamente arrotolata dentro il suo carapace, e capita con Chiara, in maniera più sottile, quando mi sento lontano dalla possibilità di fantasticare e di interpretare, dovendomi occupare di qualcosa che assomiglia a una lite di condominio.

Con Chiara ogni interpretazione di contenuto è prematura: lei non può ancora affidarsi, né fare a meno di esaminare al microscopio ogni cibo che le viene offerto, pretendendo di sezionarlo e soppesarlo in ogni sua molecola. Per questo occorre, preliminarmente, riuscire a mostrarle che può fidarsi di qualcuno; che a qualcun altro può essere delegato il compito di vigilare sulla qualità dei cibi, che riposarsi è necessario e possibile, se qualcun altro fa la guardia. Quando ci riesco -spero di imparare- si sente arrivare una specie di calma, come una pioggia insistente e prolungata che all’improvviso smette.

domenica 13 maggio 2012

LA VERITA' PURA


Erri De Luca racconta (Il Torto del Soldato, Feltrinelli, 2012) che lo scrittore Isaac Bashevis Singer pochi anni dopo la guerra scrisse per il suo “La Famiglia Mushkat” due diversi excipit risultanti da un capitolo ulteriore, aggiunto all’edizione in yiddish, rispetto alla versione in inglese che non lo riporta.
Per quest’ultima, il romanzo si conclude con una scena ambientata a Varsavia nel settembre 1939, mentre la Luftwaffe bombarda la città, accanendosi in particolare contro i quartieri abitati prevalentemente da ebrei.

Il protagonista -racconta De Luca- incontra per le vie deserte un conoscente, un anziano signore che si aggira sgomento nell'inutile ricerca di un medico per sua moglie. Nel breve colloquio l’anziano dice per congedo: «Presto verrà il messia». Alla domanda meravigliata di che cosa intenda, risponde: «La morte è il messia. Questa è la verità pura». Termina così -prosegue De Luca- il romanzo nell’edizione inglese. Il messia, capolinea della storia del mondo per ebrei e cristiani, qui è semplicemente la morte, senza riscatto e senza redenzione. E’ il più spietato finale dei libri che ho letto. La bestemmia suona ancora più forte perché messa in bocca a un uomo mite”.

Il capitolo supplementare, riservato ai lettori in yiddish, ha un finale più conciliante, diretto a un gruppo di giovani ebrei in fuga verso la Russia: “Dalla vostra parte sta la vittoria finale. Poi verrà il messia”.
Secondo De Luca, comunque siano andate le vicende editoriali che hanno portato ai due finali, Singer “volle lasciare in bocca alle lingue del mondo il sale amaro della versione corta”.
A me, però, la lettura di quella sentenza così asciutta e terribile, ha fatto accapponare la pelle in un punto: nell’aggettivo “pura”. La verità pura, ultima, quella dei filosofi e delle religioni.
La verità pura è che dopo c’è il nulla, il buio, l’assenza, lo spegnimento dell’Io. Il messia, la morte, la verità pura, sono la pietra tombale su millenni di letteratura, di poesia, di musica, di filosofie, di religioni e di guerre, di ingiustizie, di ragioni e di torti riparati e più spesso aggravati. Perché Platone e Dante, Milton e San Tommaso, San Paolo e San Giovanni, e Michelangelo, Bach e Aristotele sarebbero soltanto fiori sbocciati sulla tomba del nostro lutto a venire, la luce che emana da una ferita che non si richiuderà, il rimpianto per tutto ciò che non vedremo mai e per tutto ciò che dimenticheremo in un istante.
Freud aveva intuito genialmente l’aurora della coscienza e il suo mezzogiorno, raccontandola con una formula scarna e quasi rozza, una specie di algoritmo burocratico, con quel tanto di understatement che bastava, per non rischiare di perdersi in una impossibile terzina dantesca: “Wo Es war, soll Ich werden” che noi italiani traduciamo “là dove c’era l’Es, lì ci sarà l’Io”, e sul quale Lacan aveva voluto provare a misurarsi con l’ineffabile, recitando la formula con le parole della poesia: “Là où il fut ça, il me faut advenir”: “Là dove ciò era, bisogna che io accada”. Sante parole: ma dopo? Qui, dov’ero io, chi o che cosa ci sarà? Che cosa sarà dei nostri pensieri, dei ricordi, delle sudate carte ove il tempo mio primo e di me si spendea la miglior parte, degli amori, delle passioni e degli odi mortali, delle angosce e delle paure, di ciò che abbiamo saputo e di quello che non abbiamo voluto sapere, di ciò che ricordiamo e di quello che abbiamo imparato a memoria: tutto si colliquerà in umori maleodoranti -per chi potesse ancora annusarli- e infetti? E’ dunque il Nulla la verità ultima? E’ questo il segreto inconfessabile di tutte le gnosi? E’ questa la ragione per la quale Bion ha indicato con 0 l’ultima delle trasformazioni? e non venite a dirmi che quella è una O: lo sappiamo tutti che gli inglesi chiamano così lo zero.

Tutti questi pensieri inutili e oziosi mi sono venuti alla mente venerdì, mentre, assieme a una Collega riflettevo sul resoconto di una seduta con Giada, una bambina che in pochissimo tempo ha perduto il padre e la nonna, e ha deciso di non volerne sapere nulla, di non andare ai funerali, di parlare soltanto di sciocchezze, quisquilie e pinzillacchere, proprio come ho fatto io finora. Neanche dalla psicologa voleva andare: poi per qualche ragione misteriosa, ha accettato.

Dottoressa: A te piace scrivere?
G: Oh sì, ho scritto più di cento racconti 
Dottoressa: Ti andrebbe di raccontarmene qualcuno?

G: Sì, dunque, vediamo ... ah sì: uno degli ultimi si intitola “Tenebrosa Tenebrax ed il viaggio nella misteriosa terra di Transilvania”: 

Era un lunedì e Tenebrosa Tenebrax se ne stava seduta a leggere un bel libro in una giornata di sole.
Dottoressa: Ma anche oggi è lunedì.
G: Sì e c’è anche il sole! 
Dottoressa: Eh già.
G: ecco: leggeva una storia di vampiri ambientata nella lontana terra di Transilvania e così, piena di curiosità, decise di partire alla volta di quella misteriosa terra. Così il lunedì successivo prese l’aereo, atterrò e andò a dormire in un bell’alberghetto.
Il giorno dopo alle dieci di sera si addentrò nel bosco chiamato “degli amici di cripta” e vide in lontananza tra la boscaglia un grande castello tenebroso.
Bussò e le aprì un maggiordomo pallidissimo con lunghi denti aguzzi che la fece entrare e la invitò a visitare il castello.
Nell’atrio vide in lontananza un vecchio baule. Si avvicinò e dopo aver spostato polvere e ragnatele lesse una strana iscrizione: qui giace il barone Von (…) si fece forza sollevò il coperchio e vide che il baule era vuoto. Allora Tenebrosa Tenebrax scappò via perché aveva capito che il vampiro che stava cercando non era lì. 
Dottoressa: Ma il vampiro allora non c’era! 
G:  Sì che c’era! Era il maggiordomo che aveva aperto la porta ma che ormai era già andato via. 

Visto com'è facile? Com'è tutto lineare? I luoghi abitati dai vampiri sono mete turistiche da visitare soggiornando in alberghetti carini in compagnia degli amici di cripta. L'unica cosa capace di terrorizzarci, facendoci scappar via, è la verità pura. (E questo non vale soltanto per me e Giada, ma anche per tuà, hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère).

(Post realizzato grazie alla cortesia della dottoressa Cristina Cavicchia)

venerdì 11 maggio 2012

OROLOGI

Non ho mai tenuto in particolare considerazione gli orologi da polso: ve ne sono che mi piacciono, ma hanno un prezzo troppo elevato per essere oggetti che dimenticherei immediatamente, come un’assuefazione inavvertita fin dal primo momento. Tuttavia, l’orologio che indosso ogni mattina è speciale: mi fu donato anni fa da una migrante eritrea il cui bambino le aveva raccontato di aver ricevuto dal padre attenzioni morbose.
Vidi Ahmed alcune volte, senza riuscire a trarre da lui alcunché di utile a proteggerlo, e alla fine, come non troppo raramente accade, fui costretto a rinunciare.
Ci salutammo pochi giorni prima delle nostre rispettive partenze. Era Luglio inoltrato: io ero diretto verso una località montana, mentre loro due, madre e figlio, sarebbero tornati in Africa.
Settimane dopo, al mio ritorno, trovai un pacchetto sul mio tavolo, accompagnato da una firma vergata con grafia incerta.
Ne rimasi stupito, e ancora oggi ignoro il perché di quel dono inaspettato, compenso non dovuto per un lavoro non andato -peraltro- a buon fine. Posso soltanto fare qualche ipotesi: forse un omaggio rituale culturalmente dovuto all’Uomo-Medicina? Ma allora perché non provavo quell’imbarazzo che sento ogni volta che qualcuno mi si rivolge in maniera troppo formale in obbedienza a regole dettate altrove, applicate meccanicamente e troppo lontane dalla realtà della relazione presente? Forse l’idea di una parcella da onorare comunque? No: la donna mi era sembrata perfettamente conscia del tipo di contratto che la legava a un servizio pubblico gratuito. E allora? Per spiegarmi tutto ciò, non ebbi a disposizione altro segnale che un misterioso senso di appagamento, una specie di allegria già incontrata qualche volta, quella  che ti fa sentire soddisfatto di una certa tua giornata e che dà un senso ineffabile e speciale alla tua vita. Forse, mi dissi allora e continuo a ripetermi, la donna aveva sentito che qualcosa era “passato” fra noi, di cui nemmeno io ero stato consapevole; qualcosa di “giusto” di remunerativo, di consolante, di affettivo, nonostante, almeno in apparenza, io non provassi alcuno speciale affetto per quei due sconosciuti. Magari era stato soltanto il mio desiderio di riordinare qualcosa che avevo sentito intollerabilmente fuori posto. E ancora oggi quest’orologio mi è particolarmente caro.

giovedì 10 maggio 2012

IL DOLORE, FINALMENTE

Accade a volte che persone minorenni, una volta liberate dall’incubo di tornare sotto il potere di un genitore rivelatosi violento o abusante dal quale si erano sentite dolorosamente intrappolate, siano colte da una singolare tristezza, da un’inquietudine che rende cupo quello che dovrebbe essere un giorno di liberazione. Di fronte a un fenomeno tanto inaspettato, qualcuno potrebbe pensare a una sorta di oscura nostalgia per il male, ma non è così. Quando il male ci insegue e ci opprime, quando ci fa sentire che non abbiamo alcuna via di scampo, davanti all'offerta di un riparo, tutte le nostre forze saranno organizzate per renderci irreperibili, nascosti, invisibili. Soltanto quando avremo la certezza dello scampato pericolo potremo uscire di nuovo alla luce del sole, e finalmente metterci a piangere. E il dolore che ne sgorgherà, quello che fa dire “perché proprio a me?”, sarà il rimpianto di non aver avuto un genitore normalmente amoroso, ciò di cui tutti abbiamo bisogno per nascere alla vita mentale.

sabato 5 maggio 2012

RENZO B. E LE INSIDIE DEL NARCISISMO PATOLOGICO


Su Renzo Bossi non c’è proprio niente da ridere, e ancor meno da sfottere. Quella sua è una tragedia, invece: la tragedia di un bambino educativamente “ucciso” dalla propria famiglia. Io non lo conosco, e di lui so quello che raccontano i giornali. E anche se mi sbaglio (consola pensare al fatto che le persone sono sempre un po’ diverse da come vengono divulgate), quello che ho da dire in proposito vale per tutti noi.
Di lui,  maturazione emotiva  e potenzialità intellettuali sembrano esser state soffocate sul nascere: un esame di maturità più volte fallito è diventato occasione di una speculazione politica di bassissimo livello (un’improbabile congiura di professori meridionali ai danni del figlio di un “rivoluzionario” nordista). In seguito a ciò, complice la bramosia dei media, i suoi insuccessi si sono ripetuti diventando proverbiali e argomento di cazzeggio da bar.
Lo stesso insulso soprannome, inventato -a quanto si racconta- in famiglia, è diventato un potente strumento di dileggio, buono per i nemici esterni e i falsi amici (tanti, troppi per un ragazzo che in certi momenti sembra non aver capito chi è e in quale contesto vive).
Tutto ciò appartiene a una vicenda familiare, locale, politica, sociale, nazionale: troppe cose insieme per chi sembra incapace di proteggersi da solo e privo di qualcuno che possa farlo per lui.
La famiglia, che normalmente ha il compito di tutelare i più deboli e che dovrebbe creare le condizioni basilari indispensabili allo sviluppo, è interamente soggiogata da un sistema di pensiero intossicato dalla bugia.
Secondo quanto tramandano le gazzette, il primo fu il padre: studente in medicina incapace di transitare dalla scuola superiore all’università senza perdersi, arrivò  a simulare esami, laurea e persino vita professionale, se è vero che usciva di casa tutte le mattine con la mitica valigetta. Poi, faute de mieux, la Scuola Radio Elettra con la costruzione di un laser nel garage di casa, in “collaborazione con la Facoltà di Medicina”, tanto per dire senza fare nemmeno una piega: “lo sai che sono un elettro-medico?”.
La valigetta del medico, e la “collaborazione con la facoltà di medicina” sono insegne, al pari delle vetrofanie da applicare sul parabrezza dell’auto che un tempo l’Ordine dei Medici distribuiva ai propri iscritti, e che da studenti ci siamo adoperati a falsificare in mille forme, sempre ingegnose e sempre scherzose, anche se fino a un certo punto. 
Le insegne però non sono innocue: se le si usa per giocare, bisogna saperlo. Anche i truffatori, se tengono alla salute mentale, devono saper bene quello che fanno e mantenere distinto l’inganno che propinano agli altri, da quello che somministrano a se stessi. E purtroppo pare che le truffe perfette siano proprio quelle che non lasciano in giro testimoni, quindi è meglio truffare anche la propria consapevolezza, perché non si sa mai.
Così un famoso tycoon può imbrogliare le carte diffondendo falsi sondaggi circa il proprio indice di gradimento politico, sicuro che, per imitazione, tanta gente che non lo avrebbe nemmeno considerato correrà a votarlo, rendendo i falsi sondaggi una profezia che poi si avvera. E’ la legge della società dello spettacolo, baby, bisogna farsene una ragione. Però poi c’è il rovescio della medaglia: alla corte dei famosi tycoon arrivano eserciti di ruffiani che ad ogni richiesta di tastare il polso alla nazione rispondono invariabilmente nel modo che credono faccia piacere al loro capo. Specchio specchio chi è il più figo del reame? Digitare uno se si desidera la risposta “tu, naturalmente”. La Realtà è “comunista” (in altri tempi si sarebbe detto: “è del Maligno”).
Ma la verità bisognerebbe conoscerla sempre, per non perdersi nel mondo delle favole, dal quale, a volte, non si riesce più a tornare. E in casa Bossi, tornare indietro dalle favole è difficile al punto che, quando non bastano più, si preferisce ricorrere alla mitologia. Intendiamoci: è la mitologia di chi ha fatto la Scuola Radio Elettra, mica quella di chi ha letto “Le nozze di Cadmo e di Armonia”.
E così, il resto della storia è tutto un susseguirsi di insegne: la canottiera esibita come un capo di lingerie erotica, e tutto quel dilagare di verde, dalle cravatte all’immancabile fazzoletto da taschino, fino alla full immersion nel mito: la sacra ampolla, una nazione che non esiste neppure nella coscienza dei propri mal delimitati abitanti, eserciti virtuali, elmi le cui corna fanno pensare più alla beffa che si consuma ai danni di un popolo militante e soggiogato nell’ipnosi collettiva che alla discendenza dai Celti, carri armati di cartapesta, parlamenti e ministeri finti come le capanne che ci costruivamo da ragazzi: tutto assomiglia sempre di più a uno psicodramma, a una messinscena da bambini che giocano alla guerra e agli eroi: «io “ero” Sandokan e tu eri James Brooke» (nel nostro linguaggio di bambini, per ragioni misteriose, l’imperfetto fu sempre un marcatore, usato per distinguere il gioco dalla realtà).
Nella famiglia di Renzo, la bugia ha radici profonde: la madre, insegnante e appassionata di magia, pare lo voglia successore del padre, alla testa di un movimento rivoluzionario che restaurerà la Verità e la Giustizia, usurpate da Garibaldi e da Roma ladrona, nuova versione delle congiure demo-giudaico-massoniche, guidato da un nuovo Alberto da Giussano.
Già ma come si fa a essere albertidagiussano? Ci si nasce o si diventa? C’è qualche scuola apposita? Renzo non lo sa, e non si pone il problema, perché i suoi non glielo hanno detto. Ma quella della scuola apposita no, non sembra: perché gli hanno detto che lui lo sarà comunque, e quindi dev’essere vero. E poi sua mamma è maestra e queste cose le sa.
Gli eroi e i capi rivoluzionari, se vogliono entrare nella Storia senza sfigurare, devono avere una paga adeguata. A questo pensa il partito, che fa avere a Renzo uno stipendio mica male, per una mansione che non richiede poi grande applicazione. Nel frattempo, il giovanotto, con tutti quei soldi in tasca, fa quello che farebbe qualsiasi ragazzo che potesse disporre di diecimila euro al mese: donne e champagne, mica seghe e gazzose come i compagni che ha lasciato, economicamente parlando, indietro. Ma diecimila al mese vanno via come l’acqua; e oltretutto ora Renzo ha un sacco di amici arrivati da ogni parte. Di qualcuno si dice che sia poco raccomandabile, ma la cosa non impensierisce sua mamma e dunque non dev’essere un problema.
Un capo rivoluzionario, un eroe, ha bisogno di titoli onorifici: dottore, professore, avvocato, ingegnere.
Veramente oggi, dopo l'istituzione delle lauree triennali, i titoli accademici cominciano a diventare stretti, e bisogna allargarsi. Anche a me capita, quasi quotidianamente, di sentirmi chiamare “professore” nonostante io non abbia diritto a questo titolo. Saranno gli anni, la barba bianca, la parlantina e lo sguardo meditabondo; oppure il desiderio di qualcuno di manifestarmi genuinamente stima e rispetto, o magari anche piaggeria: fatto sta che molta gente mi chiama, indebitamente, professore. E a me torna sempre alla mente l’ironia di Pietro Germi (“Un maledetto imbroglio”), quando, nei panni del commissario Ingravallo passato dalle pagine del Pasticciaccio di Gadda al cinema, ripeteva continuamente a chi lo chiamava dottore, come un mantra utile soprattutto a sottolinearne l’irritazione di fondo per quanto gli accadeva attorno: “non sono dottore!”. Ma erano altri tempi.
Oggi, chiunque abbia ricoperto il ruolo di presidente di qualcosa è presidente a vita, anche dopo la scadenza del mandato. Persino la carica di “senatore a vita” che per definizione non scade mai, sembra non bastare. L’usanza cominciò con Cossiga, che quanto a narcisismo patologico non scherzava. Così, in televisione quando viene intervistato un giornalista, tutti lo chiamano invariabilmente “direttore”, perché signor cronista o caro collega sembra limitativo, e qualcuno magari si offende.
Così anche per Renzo Bossi ci voleva una laurea. Ma ormai, recisi i legami con la Realtà, anche un diploma scritto in albanese va bene, anche se potrebbe essere come la vetrofania con la finta croce da medico che il mio amico Federico, un grafico mancato (e medico vero) cui questo Blog deve molto,  aveva prodotto in serie per tutti noi, al primo anno di Medicina, usando i trasferelli, perché allora non c’era il computer.
E così, strappato il diploma a colpi di proclami politici e comperata la laurea in albanese, al povero Renzo non restano più molte occasioni per imparare a nuotare: l’oceano è sempre lì davanti, enorme, scuro, terribile e agitato, ma lui difficilmente riuscirà a lasciare la piscinetta di casa dove i suoi lo hanno confinato, tagliandogli tutte le strade di accesso al mare. E’ grande abbastanza per scappare, ma potrà farlo?


P.S.: chiedo scusa a Renzo Bossi per questa mia intrusione nel suo privato; ma si tratta, purtroppo per lui, di un privato molto pubblico. Ciò che gli auguro, con tutta sincerità, è che la mia ricostruzione immaginaria di aspetti della sua vita affettiva sia assolutamente arbitraria e lontana dalla realtà. E’ questo il mio personale augurio di buona fortuna, accanto a quello di farcela in qualunque modo che sia lecito, a dispetto di un ambiente di sviluppo che non ha rispettato le sue esigenze vitali. Ricominciare da capo non è impossibile; ma bisogna ricominciare da una parola sincera.