Perché Wiesbaden 1932


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Detto ciò, benvenuti nel mio Blog, angolo per riflessioni da condividere con colleghi e amici selezionati.











sabato 30 giugno 2012

LA BELLEZZA


Al é uno che s’innamora. Alla sua età vuol bere la vita fin che ce n’è, e come dargli torto.
E questa volta ha incontrato Z., femmina procace che non indossa le mutande.
Me la fa conoscere, e io rimango freddo. Mi chiedo perché. E’ lo sguardo di Z. che mi raggela.
Lo dico ad Al, che mi spiega che Z. é “rifatta”. E’ vero, accidenti. Non ci avevo pensato. Il sorriso di Z. è sempre uguale.
E’ un peccato. Penso che, rifacendosi il sorriso, Z. abbia rinunciato alla bellezza dei cinquanta e dei sessanta. E magari a quella che verrebbe dopo. Per tenersi, come un fossile, il sorriso dei trenta, paralizzato e inservibile. Ed estraneo, isola di pietra in un mare in movimento perpetuo.
Però un dubbio mi resta. Il dubbio che lo sguardo di Z. sia cattivo. Chissà se è colpa del lifting.
Al che sei mio fratello, perdona la mia diffidenza.

martedì 26 giugno 2012

ALESSANDRO MANZONI, PSICOANALISTA

Spesso, nel nostro lavoro di terapeuti, incontriamo persone la cui sofferenza psichica è conseguenza del fatto di non essere state desiderate dai genitori, oppure private di essi troppo precocemente e cresciute in ambienti affettivamente freddi o addirittura violenti.
In tali casi, sprovvisto com’è della capacità di comprendere che il proprio malessere è originato da chi lo accudisce, il bambino è portato ad assumersi la “colpa” del cattivo accoglimento, che finisce per attribuire a misteriose qualità negative, quali cattiveria, sgradevolezza, eccessiva avidità, a volte persino puzza, o addirittura a identificare nelle proprie reazioni d’insofferenza a un ambiente ostile la causa stessa di tale ostilità.

Per questo, c'è chi, nel descrivere i nefasti di un’educazione priva di tatto e di sensibilità, porta a esempio il caso di Gertrude, la manzoniana “monaca di Monza”, condannata al chiostro da parte di una famiglia indifferente al suo destino, perché tesa unicamente alla salvaguardia delle sostanze del casato. Il commento che ho appena letto in proposito riporta il celebre passaggio “la sventurata rispose” aggiungendo: “non solo ad Egidio, ma anche ai suoi genitori”.

Concordo pienamente con questa osservazione, ma penso che essa non sia ancora sufficiente.

Se immagino Manzoni come colui che ha il compito di restituire senso alla storia di Gertrude, allora lo vedo come una specie di psicoanalista, in grado di rompere, sia pure a posteriori, il silenzio calato su una vicenda di potere, che non ha esitato a sacrificare la felicità di una figlia, pur di mantenere integro un patrimonio.
Tuttavia, se Manzoni fosse stato uno psicoanalista, in lui saremmo costretti a notare un difetto di empatia dovuto alla sua personale necessità di difendere a priori l’operato del terzo attore della vicenda, cioè la Chiesa, che ha la responsabilità di aver ipocritamente ignorato ciò che era a tutti noto, e cioè il carattere forzato di quella vocazione.
Ma Manzoni non si sofferma su questo punto, caricando sulle spalle della povera Gertrude il peso del non aver fatto “di necessità virtù, piegando l'animo ad abbracciar con propensione ciò che era stato imposto con prepotenza”,  e con esso “tutta la santità, tutta la saviezza, e tutte le gioie della vocazione”. 
Il peso di ingoiare, cioè, la rabbia e l’umiliazione di esser stata barattata per denaro tra la propria famiglia e un’altra, entrambe avendo beneficiato del patto: un po’ poco, dottor Manzoni, come viatico per affrontare il riscatto che passa attraverso la riconquista del senso e del valore. A volte i pazienti ci chiedono conto del fatto che sacrifichiamo la loro realtà emotiva, per adattarla alle nostre convinzioni e alle nostre teorie, che in quel caso funzionano come ideologie.
A Manzoni, vissuto tanti anni prima dell'Olocausto, si può ben perdonare la favola della Fede “ai trionfi avvezza”, dato che Pinochet non solo non ha incontrato nessun Cardinale, ma nemmeno la peste, né, più laicamente, piazzale Loreto, morendo nel proprio letto con tanto di funerali religiosi. Ma quando egli mostra tanta pietà per la povera Gertrude, poi non dice neanche una parola contro la Chiesa che aveva commerciato (o Simon Mago, o miseri seguaci che le cose di Dio che di bontate deon esser spose e voi, rapaci, per oro e per argento avolterate …) la vocazione della ragazzina con il lascito della famiglia. Niente; la sciagurata avrebbe dovuto rispondere solo al Signore, ingoiando l'aggressività, l'umiliazione, la solitudine. Se poi, non riuscendo a farlo, si era data a un delinquente (e chissà quali delizie o quale inferno, con un tipo di quella risma, intermediario fra Don Rodrigo e l'Innominato: non avranno mica passato la vita a letto!), aveva ucciso una conversa, e tradito la povera Lucia, allora è una putain.
Non è poi troppo difficile prendersela con i Don Rodrigo e i Don Abbondio, che sono personaggi, tutto sommato, da poco; più difficile è prendersela con il Papa.
Qui si giocano le possibilità e i limiti della nostra capacità di identificarci con il dolore di coloro dei quali, ogni giorno, tentiamo di riscrivere la biografia.

domenica 17 giugno 2012

IL PONTICELLO DI NIETZSCHE

Sto leggendo “Le lacrime di Nietzsche” di Irvin D. Yalom (Neri Pozza editore, 2006, 12 euro e 50),  una fiction storica sulla nascita della psicoanalisi, della quale diffido, come di ogni ricostruzione romanzata che ometta di citare rigorosamente le proprie fonti rischiando così di contribuire al perpetuarsi delle false credenze, delle dicerie  e delle omissioni che hanno per così lungo tempo ostacolato la conoscenza della storia delle idee psicoanalitiche.
Sia come sia, il libro mi affascina e mi prende, e deve aver colpito anche l’attenzione di Matilde, che, avendolo una volta notato sul mio tavolo, lo cerca, la seduta successiva, con una curiosità che non ha più bisogno di nascondersi.
Il libro inizia raccontando le vicende che intrecciano le vite di Joseph Breuer, mentore di  un ancor giovane Freud e “levatrice” della nascente psicoanalisi, Freud stesso, l’affascinante nobildonna Lou von Salomé e un sofferente Friederich Nietzsche, in preda alle “doglie cerebrali” provocate dal dolore sperimentato nel "partorire" le proprie intuizioni vertiginose.
Arrivato al punto in cui Breuer e Freud commentano un passo della “Gaia Scienza”, mi imbatto in un apologo del filosofo tedesco, intitolato “Ponticello”: «(…) Un tempo, nella nostra vita, siamo stati così vicini che niente poteva più costituire un ostacolo a un sodalizio di amicizia e fratellanza, come se tra noi ci fosse soltanto un breve ponticello. Proprio mentre stavi per imboccarlo, io ti chiesi: “Vuoi venire da me, al di là del ponticello?”. Ma tu smettesti di volerlo, e la seconda volta che te lo chiesi tacesti. Da allora tra noi si sono frapposte montagne e fiumi impetuosi e tutto ciò che può separare e rendere estraneo; se anche volessimo avvicinarci, non lo potremmo più. Se però ripensi a quel ponticello, non hai più parole – soltanto singhiozzi e meraviglia».
Queste parole richiamano alla mia memoria lo studio nel quale lavoravo una quindicina d’anni fa, adagiato sulla riva di un torrente, per accedere al quale bisognava attraversare un ponticello simile a quello dell’apologo.
Accadde che qualcuno, da me invitato ad attraversarlo abbia per sempre (o per “quasi sempre”) deciso di reprimere quel desiderio, forse temendo di percorrere a ritroso un cammino di separazione che era costato tanto dolore e lutto inconfessato.
Nel suo ostinato rifiuto dell’offerta terapeutica di Breuer, Nietzsche paventa l’idea che il risultato della cura sia la sottomissione e una perdita di potenza vitale; un tipo di angoscia che alcuni miei pazienti conoscono bene.

DELLA MORTE E DI ALTRI SPAURACCHI


Fin dalla più tenera infanzia, la giovane Lucrezia F. ha avuto, quale sua preoccupazione prevalente, quella di rimanere al palo.
Essendo figlia unica, già in età prescolare, quando la mamma l'accompagnava in piazza per farla giocare con gli altri bambini, guardava i compagni con sospetto e antipatia, preferendo ignorarli piuttosto che staccarsi dalle vicinanze degli adulti.
Poiché, per sua grande fortuna, i genitori non furono mai collusivi con questa intenzione simbiotica, provvedendo anche a riempirle la casa di amichetti, mandandola ai campi scout e a scuola di recitazione (dove almeno l’essere qualcun altro può diventare persino un modo per guadagnarsi da vivere) Lucrezia eluse la maggior parte dei richiami alla socialità rinchiudendosi in un coloratissimo mondo di sogni: parlava da sola e si aiutava con la visione forsennata e ripetitiva di ogni sorta di cartoon e di racconto fantastico che capitasse a sua disposizione. Non riuscendo a contrastare più di tanto tale tendenza, i genitori provvidero almeno a selezionare la qualità dei consumi culturali, cosicché Lucrezia evitò, per lo meno, di diventare dipendente dai programmi più insulsi che le televisioni solitamente ammanniscono. L’esperienza della scuola materna fu per la bambina un vero e proprio trauma: l’idea stessa di doversi muovere di casa e di rimanere separata dalla mamma e dalle sue videocassette per alcune ore, le appariva come una cattiveria gratuita.
Una volta, tornata a casa dopo una lezione di religione, chiese: “mamma, le maestre mi hanno detto che un giorno rivedrò la nonna Bina; è vero che dopo la morte risorgeremo tutti?” e alla spiegazione della mamma, ribatté: “questo significa che quando saremo risorti dovrò ritornare all’asilo?”
I genitori erano molto preoccupati e scoraggiati nei loro tentativi di opporsi a questa tendenza perniciosa, fin tanto che un giorno accadde qualcosa che cominciò a chiarir loro le idee: dopo aver visto il film “Amadeus” di Milos Forman, Lucrezia se ne uscì con questa frase lapidaria: “io non voglio più andare a scuola, non voglio studiare né fare i compiti. Mozart aveva studiato troppo e per questo è morto”.
Diventata un po’ più grandicella, riuscì persino a intrecciare una storia d’amore con Dick Shelton, il protagonista della serie televisiva (degli anni sessanta) “La Freccia Nera”, che le fu regalata in VHS. A poco valsero i tentativi del padre di spiegare a Lucrezia che l’attore che aveva impersonato l’eroe di Stevenson era addirittura più anziano di lui: Lucrezia si rifiutò ostinatamente di credergli.
Da allora, sia pure obtorto collo, Lucrezia è un po’ cresciuta, riuscendo persino a concludere gli studi liceali e a iscriversi all’università.
L’impatto con l’adolescenza, naturalmente, fu per lei un invito a nozze: l’adolescenza è in fondo il periodo più noioso e insulso e piatto di tutta la vita, quello nel quale lo “star fermi al palo”, è quasi una mission contrattuale.
La ragione di tutto ciò è, probabilmente, la trasformazione fisica che segna in maniera visibile e concreta l’uscita dall’infanzia. Credo si possa dire che è anche (per tutte quelle persone fortunate che nell’infanzia non hanno patito gravi malattie, disabilità, lutti o severe esperienze traumatiche), il primo passo importante verso la piena consapevolezza del nostro destino mortale. Ciò può comportare vari tipi di reazione che possiamo, almeno grossolanamente, dividere in due grandi categorie: gli arroccati e i dispersi, o per dirla con due parole “difficili”, care a Michael Balint, i filobatici e gli ocnofilici (*).
Di questi ultimi, che di fronte all’angoscia di sentirsi staccati dal cordone ombelicale non fanno nulla per aggrapparvisi tentando anzi di disperdersi nel mondo all’insegna del “tanto peggio, tanto meglio”, sappiamo tutto o quasi, dalle cronache giudiziarie alle relazioni delle scuole che interpellano i servizi per l’età evolutiva. Si tratta di giovani che si sottraggono spesso (sovente perché trascurati o privi di una famiglia vera e propria) alle attenzioni del mondo adulto, che trascorrono le notti fuori casa, che hanno una vita sessuale tanto precoce quanto priva di emozioni, che abusano di sostanze e di alcol, che abbandonano la scuola o commettono reati. Sono giovani e spericolati acrobati dell’esistenza che spesso cadono rovinosamente dalla fune sulla quale, per orgoglio o per disperazione, avevano deciso di tentare di rimanere in equilibrio.
All’estremo opposto ci sono quelli come Lucrezia, che rifiutano caparbiamente di “spendersi”, nell’illusoria convinzione che l’accumulo bancario di energie vitali abbia come conseguenza una pensione illimitata, ovvero l’immortalità.
E si ha un bello spiegare a Lucrezia e a quelli come lei che proprio l’immortalità sarebbe la peggior disgrazia per gli uomini, abituati come sono a compiere ogni atto della loro esistenza e a sviluppare ogni pensiero in relazione al fatto che la morte c’è e che non può essere evitata.
Ma per Lucrezia, tutte queste sono prediche inascoltabili. Persino l’invecchiare dei genitori è da lei negato, in nome di una tanatofobia che la fa rifuggire da ogni previsione del domani.
In effetti, a pensarci bene, l’ocnofilia rende problematico e doloroso anche il passaggio alla genitorialità: in fondo, prima o poi, il ruolo del “più giovane” (e del destinatario delle cure) bisognerà pur cederlo a qualcuno, perché la genitorialità impone a chi non vi si sottrae una sterzata a gomito nel percorso del proprio narcisismo: fino a questo punto sono stato io il beneficiario esclusivo del mio progetto di vita, mentre da questo momento in avanti, dovrò lavorare per “un altro”. E la prospettiva non è nemmeno tanto spiacevole: se i vitelli hanno bisogno d’essere nutriti, anche le mucche hanno bisogno d’essere munte. Non tutto è sempre, e necessariamente, conflitto.


(*)
Ocnofilia = tendenza ad instaurare legami con l'oggetto improntati alla dipendenza.
Filobatismo = tendenza a provare piacere solo nelle situazioni di brivido o paura. E’ la spinta (che può essere aggravata da relazioni di accudimento ambivalente o trascurante) a instaurare relazioni oggettuali che lascino un certo grado di distanza (fisica e/o emotiva) tra sè e l'oggetto.

mercoledì 6 giugno 2012

NEGLI INTERSTIZI DEL TEMPO DELL'ANALISI


Che cosa significa “self-disclosure”? Forse raccontare i “fatti propri” al paziente come assurda obbedienza a un’idea (di natura tirannica) di simmetria speculare?
Io non credo si tratti di questo, anche se, in linea teorica, non escluderei a priori l’ipotesi che si possano dare situazioni in cui la rivelazione di qualcosa di sé da parte dell’analista possa essere opportuna o addirittura necessaria, mentre invece credo sia di primaria importanza rendere il paziente pienamente consapevole della nostra partecipazione al campo.
Questo, più che uno spazio comune da percorrere o abitare, appare ai miei occhi come un tessuto costruito pazientemente con il filo che ciascuno dei due interlocutori ha da tessere.
Il campo è il luogo in cui il paziente immette i propri sogni diurni e notturni, sui quali l’analista interviene ri-sognandoli e immettendoli a sua volta nel campo a fruttificare.
A mio parere, il campo si estende ben oltre la seduta: spesso (soprattutto oggi, in tempi di analisi a bassa frequenza settimanale) i pazienti ci parlano dei loro tempi interstiziali, non osando chiederci dove abbia vagato la nostra mente e con chi, nel frattempo, e qui la tecnica basata sulla frustrazione vorrebbe che ci si astenesse dal rispondere, per poter arginare un presunto onnipresente narcisismo in procinto di dilagare, e istituire dei confini, oltreché per riconoscere ed interpretare la fantasia.
Mi chiedo se ciò sia del tutto congruo anche rispetto a persone gravemente deprivate che possano risultare impossibilitate, senza il nostro aiuto, a riconoscersi quale contenuto della mente dell’analista (perché è questo ciò di cui essi hanno bisogno).
La rêverie di un prodotto semilavorato durante la seduta continua -si spera- anche dopo la sua fine e non soltanto da parte del paziente; non oso pensare a che cosa sarebbe effettivamente approdata la psicoanalisi se si fosse realmente aridi e smemorati come un tempo si credeva di dover sembrare.
Io continuo a elaborare il sogno del mio interlocutore anche dopo, nei momenti in cui non sono a contatto con pensieri ed emozioni che pretendono a buon diritto la loro parte. Ciò, il mio paziente può anche saperlo (e forse deve).

CI FU CHI SCRISSE A PRIMO LEVI


Budapest, 3 Giugno 2012.

Ieri, a una seduta della International Ferenczi Conference che si conclude oggi, la Collega Giuditta Ceragioli (Milano) ha presentato uno splendido lavoro intitolato: La ragazza che scrisse a Primo Levi, nel quale ha raccontato la vicenda, personale e psicoanalitica, di Emma, una donna che da bambina subì terribili esperienze di  abuso sessuale senza poter contare su alcuna protezione e neppure ascolto da parte degli adulti della sua famiglia, e in particolare della madre, anche negli anni successivi alle esperienze traumatiche subite durante l’infanzia.
A un certo punto della sua vita, Emma, dopo aver letto Se questo è un uomo in epoca antecedente alla morte dell’Autore, decise di scrivergli una lettera, e Primo Levi le rispose parole affettuose e calde, come di chi capisce con le viscere prima che con la mente, cogliendo alla perfezione l’esigenza profonda della ragazza, che era quella di trovare, molti anni prima di cominciare la propria analisi, qualcuno con cui avere una profonda, anche se momentanea esperienza di condivisione emotiva; ciò che ad Emma era sempre mancato, e che costituiva l’oggetto di un bisogno primario indispensabile alla vita psichica.
Ascoltando le parole di Giuditta, ho pensato alle due donne di cui avevo parlato nella mia relazione del giorno precedente, entrambe profondamente danneggiate da relazioni incestuose con i rispettivi padri, che ne avevano segnato terribilmente l’esistenza.
Avevo descritto alcuni aspetti delle loro vicende terapeutiche per dimostrare che esperienze estreme vissute nell’infanzia privano di un elemento fondamentale, autentica chiave di volta dell’identità, che alcuni autori chiamano “fiducia di base” (basic trust): ciò che consiste nella perdita, quasi sempre definitiva, della possibilità di affidarsi. Come terapeuta maschio e adulto ho più volte constatato che anche nelle situazioni in cui la relazione terapeutica diventa calda e affettiva (mi riferisco a un calore e un’empatia che o sono reciproci oppure non sono), il fantasma dell’assalto sessuale da parte dell’analista permane, sotto traccia, anche dopo anni di scambi fruttuosi. Si tratta di persone il cui modello di funzionamento genitoriale è stabilmente compromesso e confuso con quello dell'aggressore;  Sofia, una donna gravemente sofferente, mi chiese una volta di poter continuare il trattamento faccia a faccia anziché sul lettino, dopo aver trovato il coraggio di confessarmi che ogni volta che la mia sedia cigolava, lei temeva che potessi avvicinarmi per approfittare di lei, dando per scontato il fatto che non si potesse desiderare di stare con lei per motivi diversi da quello di disporre di lei sessualmente.
Emma, la paziente di Giuditta, nel cercare aiuto per la prima volta aveva scelto in Primo Levi una “madre” sostitutiva come e più di lei danneggiata, mentre le mie pazienti si rivolgono a me, nella maggior parte dei casi, con la fantasia che io sia addirittura un superuomo, invulnerabile e potentissimo, salvo poi essere assalite dai dubbi più atroci. Quello di ricorrere a un'idealizzazione esasperata dell'altro è sempre un'espediente poco efficace per far fronte all'angoscia di esserne schiacciati.
Quanto la nostra esperienza di reale o presunta integrità di psicoterapeuti sia idonea a farci comprendere il dolore di persone gravemente danneggiate è argomento che deve farci riflettere, assieme all’ipotesi che in casi in cui ciò risulti opportuno o addirittura necessario, non sia lecito all’analista condividere con il proprio paziente la propria esperienza di dolore. Anche se ciò può (ancora) suonare scandaloso.