Perché Wiesbaden 1932


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Detto ciò, benvenuti nel mio Blog, angolo per riflessioni da condividere con colleghi e amici selezionati.











domenica 22 dicembre 2013

LA PSICOANALISI E IO (nota autobiografica)


C'è stato un tempo in cui il mondo era stretto. Un tempo nel quale camminavo per vicoli angusti limitati da pareti altissime, e il sole si vedeva solo provenire dall'alto.
Da sempre, da che io ho memoria, ho desiderato fuggire, evadere e andare lontano da una gabbia rappresentata dalla visione del mondo di mio padre, che pure amavo moltissimo. Mia madre mi raccontava spesso di come ci fosse stata una prima età durante la quale, quando mio padre tornava per il pranzo, rimanevo abbracciato a lui per tutto il tempo in cui mangiava. Ma di questa età io non ho conservato alcuna memoria cosciente. Io non riesco a ricordare soprattutto il momento nel quale mio padre cominciò a deludermi: so solo che molto presto, come ideale verso il quale tendere, smise di funzionare. E però, non è che ci si possa dimettere da figli così, perché il modello che non si vuole più rimane, ostinatamente, dentro.
Da grande compresi che mio padre aveva paura, e che troppe cose del mondo, esterno ma soprattutto interno,  avevano per lui un significato inaccessibile. E mi resi conto molto presto che ciò che mi avrebbe lasciato in eredità era destinato a contrarre un legame solido ma conflittuale con istanze opposte, capitate chissà come (forse da mia madre? è difficile dirlo) nella mia mente. 
Io avevo una voglia insaziabile di panorami sconfinati, di visioni ultrascopiche, di conoscenze ulteriori; e nello stesso tempo mi sentivo paralizzato: tanto dalla paura, la stessa di mio padre dal quale mi sentivo biologicamente inseparabile, quanto da quella sensazione di non farcela ad arrivare in fondo, che ancora oggi mi prende di fronte ai libri, che pure sono il mio pane quotidiano. Ancora oggi, leggere un romanzo russo, sconfinato come un oceano immenso, mi dà l'angoscia agorafobica di perdermi, e arrivato a un certo punto, sono costretto a interrompere la lettura. Ancora oggi, davanti a un libro, provo un'irresistibile bulimia e contemporaneamente la paura di non riuscire ad arrivare alla fine. In tutta la vita ho letto, come molti, parecchie centinaia, forse migliaia, di libri, e ne ho conclusi molti meno.
A un certo punto della mia vita (forse era l'adolescenza) mi imbattei in un libro di psicologia: mi pare fosse scritto da un certo Miotto. È anche possibile che ciò sia stato prima dell'adolescenza, perché probabilmente lo leggevo in cerca di qualche improbabile eccitazione sessuale. D'altra parte, verso i dieci anni, le mie letture erotiche preferite erano un dizionario della lingua italiana, Il Novissimo Melzi (dal quale avevo capito che l'organo genitale femminile si chiamasse "utero"), e una monografia su Raffaello appartenente a mio padre, nelle pagine della quale mi consumavo gli occhi, e non solo gli occhi, sui seni rotondi della Fornarina e sulle natiche delle Tre Grazie. Quindi non è strano che in un libro di psicologia io cercassi i resoconti di qualche cosa di eccitante. Fu lì che sentii parlare per la prima volta dell'Inconscio, e ne fui immediatamente stregato.
Dunque c'era qualcosa al nostro interno che ci faceva agire in maniera inconsapevole, esistevano sogni da sbrogliare come matasse intricate, c'erano simboli che, se interpretati, avrebbero potuto aprire la porta verso mondi meravigliosi e finalmente chiari. Stranamente, l'Inconscio con i suoi oscuri fantasmi non mi faceva paura, anzi. Avevo avuto abbastanza paura delle mie fragilità che vivevo come colpe, avevo sperimentato molto da vicino, fino all'identificazione, l'angoscia e i denti serrati di mio padre, e poi, mi portavo addosso un senso spiacevolissimo di vergogna, come se la mia figura, alla sola vista degli altri, dicesse "altro" da quello che io sapevo coscientemente. Mi sentivo goffo, inconsapevole, impresentabile, e avevo l'urgenza di sbarazzarmi di tutto ciò.
Ai miei pazienti, oggi, ripeto spesso che nessuna psicoterapia è possibile se non si ha un senso di disagio e il parallelo desiderio di scrollarselo di dosso. In me, questo sentimento era fortissimo. E si accompagnava al desiderio ancora oscuro di impadronirmi di quello strumento, di quell'"autoscopio", non perché desiderassi imparare ad aiutare gli altri, ma sempre perché il mare da esplorare l'ho sempre pensato interminabile e il desiderio di fermarmi non l'ho mai avuto,  e anche oggi che il tempo si accorcia, il solo pensiero di smettere mi riempie di tristezza.
Passarono gli anni, e per una serie di complicati errori di calcolo, divenni medico. E crebbe in me quel desiderio di essere psicoanalista, e niente altro che psicoanalista, che ancora oggi mi accompagna. La stessa qualifica di psichiatra, che conquistai senza fatica, mi parve sempre qualcosa di insoddisfacente, di limitato. E il desiderio di diventare psicoanalista fu (è) sempre così prepotente, che alla fine ... mi fu negato. E sulle prime riflettei con dolore su quell'insuccesso ascoltando le sirene che lo descrivevano come una ejaculatio praecox causata da un desiderio incontenibile. Proprio come accade con i primi amori, che però non sono mai quelli definitivi. Ma, dentro di me sapevo che non era così.
Se ripenso a quell'insuccesso, mi rendo conto che, ancora una volta ero stretto fra il desiderio di impadronirmi di quello strumento meraviglioso che soltanto Freud e i suoi (allora) pochi e selezionati eredi possedevano, e qualcosa di inspiegabile che mi paralizzava.
Quando si vuole fortissimamente qualcosa e quel qualcosa ce l'ha uno soltanto, allora si corre il rischio della sottomissione. La cosa può funzionare fintanto che ci si sente piccoli e bisognosi di cure: dal momento che un certo grado di sottomissione ai genitori è indispensabile a causa della necessità, anche oggettiva, di dipendenza. Non accettare questa condizione di minorità sarebbe anche un ostacolo alla crescita. Ma la sottomissione implica l'idealizzazione. Se io devo sottopormi a un intervento chirurgico a cuore aperto, ho necessità di pensare che chi ha in mano la mia vita sia perfetto, non sbagli mai. E, in caso di necessità, se noterò qualche errore o incertezza o diventerò eccessivamente diffidente, oppure tenderò a perdonare, a non voler vedere. Ma in analisi tutto ciò che avviene senza che lo si possa capire e condividere, può costare molto caro.
Così affrontai due analisi: la prima, gioiosa e appassionata, mi permise di diventare, da quel burattino di legno che ero, un bambino in carne e ossa. La seconda avrebbe dovuto essere quella destinata a introdurmi nel salotto buono della psicoanalisi, e fu un cocente fallimento.
Se ripenso a quello che accadde allora, non posso che dar ragione ai valutatori che mi respinsero. Tutto quello che potevano vedere era inequivocabilmente fallimentare: balbettavo e tentavo di nascondere qualcosa. Ma si trattava dell'escrescenza aerea di una radice che affondava profondamente nel terreno e la cui natura era molto diversa da ciò che si vedeva. La prova di ciò che affermo è che loro mi diagnosticarono una vocazione debole, insussistente, forse motivata da ambizioni narcisistiche e prive di autenticità, mentre le cose poi andarono in modo diverso dalle loro previsioni. 
Chi riesco a scusare di meno è il mio secondo analista, cui sarebbe spettato il compito di osservare con cura quella radice che affondava nel terreno, e di aiutarmi a ricomporre quell'incongruenza: perché mai, essendo quello di diventare psicoanalista il mio desiderio più grande, una volta posto di fronte alla necessità di mostrarmi, mi nascondevo o venivo colto da sintomi sconosciuti e inspiegabili? Invece non accadde niente di tutto questo ed entrambi fummo costretti a gettare la spugna di un'analisi che non sarebbe mai andata da nessuna parte.
Furono molti coloro che mi consigliarono di tentare una terza volta: se non altro per capire che cosa fosse accaduto, visto che il tempo utile per diventare un membro della società psicoanalitica era ormai scaduto. Ma io non volli, perché sentivo che, prima o invece di una nuova analisi, avrei dovuto capire qualcosa: da solo. Ormai i mezzi autoscopici a mia disposizione erano sufficienti, le scadenze temporali si erano dissolte, e a me sarebbe bastato aspettare. Qualcosa in me sapeva che la luce un giorno sarebbe arrivata.
Passarono molti anni, e da un certo momento in poi compresi che dovevo studiare a fondo le vite di personaggi che avevano attraversato esperienze in qualche modo simili alle mie. Le analogie materiali potevano anche essere vaghe, appena accennate, ma io sentivo che in quelle vite, in quelle vicende dolorose, c'era qualcosa che mi riguardava profondamente.
Studiare quelle biografie unitamente alle produzioni scientifiche e agli epistolari, in condizioni di libertà dalle obbedienze di scuola che per tanto tempo avevo sentito come oppressive, mi dava una sensazione di leggerezza e una smania febbrile di conoscere.
Fu abbastanza facile riconoscere che gli insegnamenti e i messaggi che avevo ricevuto erano pesantemente viziati da ideologie, da proibizioni, da un ordinamento che mi appariva sempre più simile a quello della chiesa cattolica che avevo abbandonato alla fine dell'adolescenza, dopo esserne stato un fervente seguace.
Ecco: il mio malessere di aspirante psicoanalista riconosceva ora delle somiglianze con quell'insofferenza per gli insegnamenti bigotti cui mio padre mi aveva avviato, e che avevano rischiato di ferire gravemente lo sbocciare della mia sessualità, trasmettendomi insieme un chiaro invito a rinunciare alla libertà di pensiero.
Era strano, mi ripetevo, che fra le tante parole della psicoanalisi, non si incontrasse mai la parola "libertà". Persino chi (tranne pochissime eccezioni) praticava una militanza politica separava  quest'ultima dalla militanza psicoanalitica, e conobbi perfino qualcuno che, rivoluzionario nella vita civile, finì per rivelarsi un conformista impaurito e obbediente, in questo del tutto simile a mio padre; al punto di essere persino indisponibile a parlare di psicoanalisi al di fuori delle sedi canoniche.
Ripensando alla mia seconda analisi, mi tornavano alla mente ora tanti piccoli particolari che allora erano stati bollati, unilateralmente dal mio analista, come insignificanti: per quale motivo io, che avevo in precedenza affrontato un'analisi bella e creativa, avevo dovuto cambiare divano, soltanto perché le "regole canoniche" imponevano che l'analista in grado di formare altri analisti dovesse avere un certo grado gerarchico? Qual era la ratio di questa norma? Non era forse essenziale che il futuro analista affrontasse un percorso "vero", anziché conforme a una norma burocratica e stabilita una volta per tutte?  E dal momento che la mia prima analisi aveva dimostrato, dati alla mano, di funzionare bene, perché cambiare? In nome di che cosa, visto che l'analisi didattica non poteva essere un insegnamento, ma una vera esperienza emotiva? Nessuno sapeva (o voleva)  rispondere a queste mie domande, e dal mio secondo analista tutto ciò che ebbi in risposta fu l'invito a occuparmi d'altro: e si che mi sarebbe spettata, quale minimo sindacale, almeno un'interpretazione. Alla luce di quanto so oggi, è praticamente certezza il dubbio che la parte di mia responsabilità nel fallimento della seconda analisi sia stata spinta proprio dal bisogno, coatto e nevrotico, di dimostrare che l'analisi didattica non poteva funzionare. Ma sono anche convinto che se il didatta, anziché aspettare non si sa bene che cosa, me lo avesse fatto notare, probabilmente la svolta sarebbe arrivata. E sì che segnali che ne furono a iosa. Ma poteva il didatta comprendere una realtà così semplice? Io non lo so, perché dopo di allora nessuno dei due avvertì mai l'esigenza di incontrare l'altro. Ma se non poteva comprenderlo era certamente perché non era in grado di sottoporre il proprio ruolo di didatta a una critica laica e non conformista.

Oggi sono giunto a una stagione della vita nella quale tutto ciò non ha affatto perduto di importanza, ma è fonte di una continua riflessione, e di un serrato confronto con tanti giovani ai quali sono felice di trasmettere la mia esperienza.
Molto spesso, in supervisione, mentre parlo con i miei allievi, immagino anche di rivolgermi ai miei antichi maestri per non dimenticare che, in questo lavoro, non bisogna mai passare decisamente "dall'altra parte", perché il senso di smarrimento di fronte all'ignoto che provano tutti coloro che iniziano non dovrebbe mai essere dimenticato. Lo stesso faccio con i miei pazienti, avendo sempre bene in mente, quale pietra di paragone, il mio Sé bambino e impaurito. E poi, il dolore e la frustrazione possono, alla lunga, maturare interessi.
In fondo, le ferite, anche quelle che fanno molto male, possono diventare fonte di conoscenza. Per chi le ha subite e per chi, inevitabilmente, ne subirà di simili. Dal confronto, questa è la mia speranza, si può ricavare incoraggiamento e crescita.

giovedì 5 dicembre 2013

L'ANALISI È TERMINABILE?

Un'analisi vera richiede amore e sincerità, e dà luogo a un legame la cui durata va oltre il suo materiale protrarsi e che non può essere barattato con nulla, nemmeno con un'altra analisi, magari didattica. Un'analisi non vera (come lo sono spesso le analisi scelte per motivi burocratici), invece, coltiva e incripta un legame d'odio. Essa è quanto di più simile a certi legami adottivi trasformati in  simulacri di genitorialità e privi di radici profonde, che continuano a occupare ostilmente il posto di un legame vero e perduto.
Chi teme l'analisi interminabile, dovrebbe riflettere sul fatto che un legame profondo può legittimamente non aver fine, al di là del dato meramente burocratico della sua conclusione e separazione. Più delle analisi "interminabili" sono da temere quelle in cui apparentemente tutto fila alla perfezione, mentre in realtà non sono mai cominciate. 

mercoledì 27 novembre 2013

ANALISTI TUTTOFARE

Qui finisce che devo fare tutto io. E già, perché i vecchi analisti la facevano facile: se uno non aveva i requisiti era considerato inanalizzabile, e via, pedalare. Invece poi é arrivato quel rompiballe di Ferenczi a scompigliare tutto: e prima con la tecnica attiva, poi con il rilassamento e la neocatarsi, le ha tentate tutte. E alla fine, quando non sapeva più cosa inventarsi, addirittura l'analisi reciproca. Eh, già, ci manca solo che ci facciamo analizzare dai nostri pazienti, e magari li paghiamo anche. E dopo? Peccato sia morto così giovane, avrei proprio voluto vedere che cos'altro si sarebbe inventato.
E poi non è che abbia risolto tanto: certi pazienti di coccio sono, e di coccio rimangono.
Prendete Matilde: sono mesi che non mi porta un sogno. Anzi: certe volte, neppure parla. E io lì, ad aspettare. Fortuna che non mi vede, cosī mentre lei sta lì, sdraiata nel suo sonno eterno, io gioco a Backgammon su Internet. E non si deve!, direbbe la Buonanima. Ma vorrei vedere lui a rompersi le palle così. E poi, lui ragionava all'antica: Matilde, se torna, non la devi prendere mai più. Così diceva. Ma io ho sempre fatto di testa mia. Lei tornava sempre. Magari stava qualche anno senza venire, e poi tornava. Così, ridendo e scherzando, sono passati trent'anni. E in trent'anni, hai voglia di tacere: qualcosa ti scappa per forza. Non sarò mica soltanto io a rompermi le palle. E poi, io sono fatto così: ho la smania di sapere che cosa c'è dietro. Perché se stai a sentire Bion, sembra che siamo noi (vabbè, nostra madre) a dare senso alle cose, come quella storia di Adamo, che il giorno dopo la faccenda della costola se ne andò in giro a dar i nomi alle cose. Ma i nomi non sono mica tutto: perché ogni cosa ha un suo perché. E poi, quel significato lí non è ancora il significato vero, è una specie di bollino che diamo alle cose e che ci serve per capirci fra noi. Ma le cose hanno un loro perché, un loro come sono arrivate lì, un loro come ci stanno, dove vanno, che cosa fanno e che cosa pensano. E perfino che cosa non sanno di pensare. Insomma, è impossibile che Matilde mentre sta lì che sembra una statua di Giacometti non pensi niente. Magari pensa a se stessa pensante, niente di più facile. E allora, delle due l'una: o me lo dice, o mi dice guardi non sono cazzi suoi. E va bene, ma allora perché vieni qui? E non mi dire scusi mi sono sbagliata (dopo trent'anni? Mi prendi per il culo?), che tu adesso non te ne vai di qui se non mi spieghi. Tutto, dall'a alla zeta. Tutto.
Mah. Sono anni che faccio questi ragionamenti, che m'incazzo, che facciamo la pace, che poi dopo un po' ricomincia. Chissà Ferenczi che cosa direbbe. Eppure oltre l'analisi reciproca (che poi non è detto che al paziente gliene freghi più di tanto di sapere gli affari tuoi. Che magari ha paura che tu abbia problemi seri, e allora che cosa fa?) non è che resti molto, perché dopo non c'è più niente. A meno che, più che l'analisi reciproca non decida di fare tutto io, di cantarmela e di suonarmela da solo. Sogno, mi sveglio e mi interpreto il sogno. E se lei non c'è peggio per lei. Io l'ho invitata, poi, se non viene!
Così, stanotte ho sognato di essere Matilde. Ero molto vecchia, avevo ottantasei anni. E come faccio da sessant'anni ogni mattina, anche oggi sono scesa nel garage. A guardarla. È sempre bella, anche se ormai dicono che è fuori moda. Ieri il meccanico mi ha detto che, a forza di non usarlo, il motore dev'essere un blocco di ruggine. La batteria l'avevo già tolta dieci anni fa, perché tanto, di non girare mai, era sempre scarica. E poi c'era pericolo che l'acido cominciasse a colare e corrodesse qualcosa. I quattro scappamenti, invece, li ho tenuti lucidi. La carrozzeria, ha perso quella brillantezza che aveva, ma è sempre rosso-fuoco. La mia Ferrari è proprio bella. Peccato non averla mai guidata. Anche se la patente ce l'ho dall'età di diciotto anni, e ho sempre guidato la mia vecchia cinquecento.
Che strano sogno. Se fosse ancora vivo, mi piacerebbe raccontarlo a lui. Che magari, con quella storia che un giorno gli avevo detto che quando leggevo le cose che scriveva mi sarebbe piaciuto averlo come analista (anche se era il mio analista, sia pure parcheggiato lì), direbbe che la Ferrari è lui. Era proprio un narcisista. Inguaribile.

lunedì 18 novembre 2013

INTRAPSICHICO E INTERPERSONALE

Fino agli anni ottanta, i concetti di "intrapsichico" e "interpersonale" furono considerati di diversa natura e quindi il loro impiego nell'ambito delle scienze umane fu posto in termini alternativi. 
Secondo il mainstream freudiano, egopsicologico e kleiniano, sia pure con diverse sfumature, soltanto l'inconscio individuale e monopersonale poteva essere oggetto di indagine e trattamento psicoanalitico, mentre tutto ciò che indulgeva allo studio delle relazioni fra gli individui (non escluse quelle precoci) doveva essere considerato come non pertinente alla psicoanalisi considerata "vera", e distinta dalle sue forme "eretiche", dette anche "selvagge", per tacere di discipline ad essa estranee come la sociologia e la pedagogia. Tutto ciò nell'illusione che l'oggetto di indagine scientifica, soprattutto in ambito di scienze dell'Uomo, potesse essere indagato obiettivamente, come "cosa in sé", senza essere influenzato dalla presenza dell'osservatore. 
A me che scrivo, ad esempio, accadde spesso di partecipare a seminari di baby observation, portando anche riferimenti allo stato mentale materno, e incontrando perciò una sorta di riprovazione per il fatto che tali rilievi "distraevano" dall'osservazione diretta del bambino. Ciò poteva accadere perché intrapsichico e interpersonale apparivano come concetti dal significato neppure parzialmente sovrapponibile e quindi irrimediabilmente alternativo. 
Con lo sviluppo delle declinazioni bipersonaliste della psicoanalisi intervenute sopratutto negli Stati Uniti a partire dagli anni novanta, il panorama cambiò parecchio e i due concetti furono considerati meno distanti non più soltanto nelle aree culturali definite "neofreudiane" che avevano maggiormente risentito dell'influsso interpersonalista di Harry Stack Sullivan e della sua scuola, ma in generale anche fra molti psicoanalisti scontenti dell'autoritarismo che aveva permeato la cultura psicoanalitica fino allora dominante, e in qualche caso, addirittura perché personalmente danneggiati da analisi didattiche troppo "ortodosse". 
Le radici di una diversa concezione dei legami fra l'Io e le sue relazioni è da ricercarsi, tra gli altri, in studiosi come Sándor Ferenczi e John Bowlby. 
Il primo, attraverso lo studio dei fenomeni dissociativi arrivò a concepire una "mente esterna" cui il soggetto può fare ricorso per stivarvi contenuti mentali intollerabili; Bowlby, d'altra parte, avendo formulato il concetto di "base sicura" come luogo materno della protezione, aveva identificato nelle fasi dello sviluppo che precedono l'autonomia una singolare attitudine, fra i piccoli dei primati, ad affidarsi alla madre non soltanto per riceverne le necessarie cure parentali, ma anche un lavoro di vigilanza e di messa in sicurezza del territorio, al fine di scongiurare gli incontri con i predatori. 
Perciò, dovendo le funzioni di tutela  diventare in toto, con il procedere dell'individuazione, prerogativa e patrimonio del soggetto che -per così dire- se ne appropria, almeno in una fase transitoria coincidente con il trasferimento di tali funzioni, la mente del soggetto non solo si relaziona con l'oggetto, ma è in larga parte e per un tempo non breve con esso almeno parzialmente coincidente. Va da sé quindi che, se il soggetto "è" anche l'oggetto, ha poco senso affermare che l'attività di relazione esterna sia una funzione puramente "sociale" e perciò qualitativamente distinta dalle funzioni endopsichiche.

sabato 16 novembre 2013

UNA STORIA VERGOGNOSA

Fino a non molti anni fa, c'era una volta un cantante che si chiamava Lucio e componeva e cantava canzoni bellissime. Era un ometto piccolo, molto peloso e completamente calvo. Lucio si vergognava molto di quella sua calvizie, e andava sempre in giro con la testa fasciata e le spalle nude, per mostrare che aveva i peli neri e folti, anche sui denti.
Poi un giorno si fece coraggio, e andò davanti al suo pubblico con il capo scoperto, e quella volta cantò in maniera sublime. Poi vennero tempi bui, nei quali si fece cucire un parrucchino rossiccio sulla testa, e cominciò a cantar male, e a scrivere canzoni che nessuno riusciva a ricordare. Ci fu persino qualcuno che si chiese se quel parrucchino fosse il risultato del sortilegio di una Dalila alla rovescia. Poi, un brutto giorno Lucio morì, e la gente continuò a cantare le canzoni di quando lui non aveva i capelli, mentre le altre furono dimenticate.
Anch'io ho da tanto tempo una storia da raccontare, ma non l'ho mai raccontata tutta, perché mi sembrava una storia vergognosa.
Poi, un bel giorno decisi di raccontarla almeno a me stesso, e per questo la scrissi.
Poi andai da un maestro e gli dissi: Maestro, leggi questa storia e dimmi due cose: è una storia troppo vergognosa? No, rispose lui. È anche la mia storia, virgola più, virgola meno. E tu pensi che la possiamo raccontare così come l'ho scritta? No, rispose il Maestro. Non dobbiamo raccontarla affatto. La gente non la capirebbe.
Stamattina dovevo far lezione ai ragazzi e, dopo tanto tempo, mi sono svegliato con una voglia calma di raccontare la mia storia. L'ho raccontata tutta, per filo e per segno, con tutti i dettagli e senza nascondere nulla. E dopo ho sentito che la gente mi voleva più bene. E che quella storia non era per niente vergognosa, ma mi faceva sembrare immensamente ricco. Perché le storie dipende da come (te) le racconti.

lunedì 23 settembre 2013

ELOGIO DELL'IMPROVVISAZIONE

(A Federico Astengo)
Una certa psicoanalisi applicata al lavoro istituzionale ha per troppo tempo ignorato il fatto che per lavorare con pazienti ignari del compito da perseguire, il silenzio del terapeuta e l'assenza di prescrizioni diverse dai limiti spazio-temporali del setting, avrebbero generato soltanto stupore, timore, confusione e mutismo.
Poiché non fu facile per me uscire dalle rigide prescrizioni impartitemi durante gli anni della mia formazione, ed essendo le mie capacità di improvvisazione e di adattamento a situazioni inesplorate piuttosto misere (e per di più scoraggiate dal sistema formativo), ebbi la possibilità di percepire che il mio linguaggio era incomprensibile a chi mi stava di fronte per mere ragioni culturali e non già a causa di resistenze inconsce, quando mi capitò di lavorare con bambini, con giovani, e, soprattutto, con pazienti provenienti dal Terzo Mondo. Che significato poteva avere, infatti, per un giovane africano andarsi a sedere una volta la settimana di fronte a un dottore senza camice né strumenti, che non prescriveva farmaci e per di più rimaneva in silenzio?
E qual era la posta in gioco di fronte a tale tipo di scacco? La pronuncia di un'ennesima diagnosi di "inanalizzabilità" o la sconfessione in blocco della psicoanalisi come strumento psicoterapeutico?
Eravamo stati con qualche ragione educati a "non inquinare il campo", mantenendolo vuoto di qualsiasi nostra produzione (che, lo avremmo capito molto tempo dopo, si sarebbe manifestata ugualmente in forme non verbali e inconsapevoli), per consentire all'inconscio del paziente di manifestarsi sotto la spinta dell'angoscia da frustrazione, ma tale risultato richiedeva per lo meno un minimo di consapevolezza del compito e un grado di alleanza di lavoro almeno embrionale. Invece, così comportandomi, mi capitò di perdere per strada moltissimi pazienti.
I testi di Irvin Yalom ("Momma and the Meaning of Life: Tales of Psychotherapy", non tradotto in italiano. Per i lettori francofoni: "La Malédiction du chat hongrois. Contes de psychothérapie". Disponibili online anche come e-book), dovrebbero essere usati per formare i giovani psicoterapeuti ben prima di quelli di Bion (che invece fu pane e companatico della nostra intimorita gioventù professionale, mentre la sua opera grandiosa può essere più proficuamente messa a frutto durante la maturità), data la loro attitudine pratica a rappresentare una psicoterapeutica che, paradossalmente, vorrei definire "senza memoria né desiderio", proprio perché capace di inventarsi ogni volta a partire dalla realtà del paziente, sia esso ambulatoriale o ricoverato in un reparto ospedaliero o in una comunità terapeutica, pur tenendo ferme alcune indicazioni di metodo che fungono da stimolo all'uso della fantasia, e che guardano all'introspezione come un obbiettivo da raggiungere e non necessariamente come un punto di partenza.

domenica 1 settembre 2013

PENSIERI DELL'ULTIMO GIORNO DI VACANZA

Rimango sempre stupito quando Matilde intercetta i miei momenti d’irritazione di fronte alle sue resistenze. A volte si tratta di stati d'animo subliminali di cui io prendo coscienza piuttosto lentamente. Si può dire che in più di un'occasione mi sono sentito analizzato, diagnosticato, e alla fine della mia autoriflessione non ho trovato traccia di proiezioni. Semplicemente, Matilde aveva ragione.
La consapevolezza che ne è seguita si accompagnava a un sentimento d'incertezza, non tanto per l'inversione di ruolo: è stato Ferenczi ad insegnarci che il paziente può avere ragione e noi torto, in un tempo in cui gli analisti avevano rimosso questa semplice ovvietà. Quello che mi ha lasciato incerto è stato il dubbio di aver perduto, sia pure transitoriamente, la barra del timone, ciò che rende il terapeuta terapeuta e il paziente paziente. O, se vogliamo dirla in modo meno crudo, di aver oltrepassato il confine invalicabile dell'asimmetria della relazione terapeutica, quella che ci fa sentire che il genitore non può mai smettere di essere tale, caricando sulle spalle del figlio il peso della propria inadeguatezza.
Queste riflessioni mi vengono alla mente stasera, ultimo giorno delle vacanze estive, alla vigilia della ripresa. Mi vengono in mente mentre sto leggendo un piccolo testo straordinario di Irvin Yalom nella traduzione francese perché la mia lettura in questa lingua è molto più spedita di quanto non lo sarebbe nella versione originale inglese: il libro non è mai stato tradotto in italiano, e nella versione scaricata sul mio tablet si intitola "La malediction du chat hongrois. Contes de psychotherapie", edito in Francia da Galaade. In inglese: "Momma and the meaning of life. Tales of psychotherapy" Harper Collins, New York).
Yalom, noto al pubblico italiano per tre romanzi di grande successo (La cura Schopenhauer, Le lacrime di Nietzsche, Il problema Spinoza), e per il denso "Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo" scritto in collaborazione con Molyn Leszcz e pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri, è uno psichiatra psicoterapeuta che mi toglie, non senza procurarmi sollievo, ogni illusione di originalità, poiché il suo stile di lavoro, che lui definisce "interattivo", è improntato alla più grande libertà immaginativa sia nelle parole che nelle azioni terapeutiche, nulla concedendo all'obbedienza a una tecnica che nei tempi remoti della mia formazione assimilai (per responsabilità certamente condivisa) come una perentoria questione di "tutto o nulla".
Sulle orme di un extra ecclesiam nulla salus che ha storicamente segnato, nel bene e nel male, il cammino dell'ortodossia psicoanalitica, l'apprendimento della tecnica era stato trasmesso o recepito come un "dover essere" da rispettarsi con estrema puntualità, pena lo scadimento della nobiltà del metallo analitico -causa l’attenuarsi di un rituale composto di lettino, numero e durata delle sedute, neutralità, silenzio, divieto di ogni autodisvelamento, astinenza da qualsiasi forma di improvvisazione o creatività- in un metallo molto più vile, anche se a parole accettato con benevola e paterna degnazione dai sacerdoti di quello che era a tutti gli effetti un sapere iniziatico.
Il mio percorso personale, dalla timorosa e frustrata obbedienza all'inflessibilità dell'insegnamento alla tardiva decisione di "fare con ciò che c'era in casa" senza aspettare un’ulteriore investitura che non sarebbe venuta, è stato doloroso e difficile, e a stento supportato dall'insegnamento di un maestro che, negli interstizi di un silenzio tombale e non sempre capace di contatto, seppe far filtrare in me l'idea che soltanto disobbedendo e sopportando la solitudine che sarebbe seguita alla trasgressione, avrei potuto trovare "un senso", magari lontano dagli approdi che mi ero proposto.
Fu solo attraverso una rabbiosa quanto ostinata ricerca di un punto di convergenza con un sapere che sentivo intimamente mio e il suo rifiutarmisi, che mi fu possibile "fare di testa mia" (anche grazie alla strada segnata da altri ben più geniali e tragici trasgressori), seguendo la traccia  dell’empatia,  senza perdere il valore di un atto terapeutico per nulla "minore" o degradato, come l'inflessibile insegnamento originario mi aveva fatto temere.
Durante tutto questo lungo percorso, Matilde è stata con me, sin dall'epoca delle scelte "ortodosse" quando la terapia non riusciva a decollare a causa del suo ostinato e interminabile silenzio e della mia totale incapacità di farvi fronte.
Nonostante questo fallimento, Matilde non ha mai smesso di aspettare che io potessi offrirle qualcosa di diverso che evidentemente covava sotto la cenere, e che lei, forse addirittura prima di me, aveva oscuramente intuito.
Oggi, Matilde è con me, in un percorso accidentato ma ricco e fiorito di parole, sue e mie, essendo stato definitivamente appurato che lettino, silenzio e astinenza sono, in quella situazione specifica costituita da noi due, strumenti inservibili.
Leggendo Yalom, oggi scopro di non essere affatto solo nel perseguire la "verità" (e non la "pietosa bugia rispettosa delle difese del paziente"!) attraverso mezzi inconsueti, non codificabili, e improntati all'interesse primario per la relazione, alla sincerità dell'ispirazione nel qui e ora, e alla radicata convinzione di partecipare della medesima natura difettuale del compagno di viaggio, fatta salva la consapevolezza della mia inalienabile responsabilità di genitore-terapeuta.
È stato proprio leggendo il capitolo "Una terapia del lutto in sette lezioni", nel libro che ho appena menzionato, che ho ripensato frequentemente a Matilde, proprio a causa della conflittualità che si instaura fra il terapeuta e una paziente apparentemente "impenetrabile", in un contesto nel quale il terapeuta non fa nulla per nascondere i propri momenti di rabbia.
Ho ripensato a Matilde, sempre così acuta nell'anticiparmi intercettando ogni mio più nascosto malumore nei suoi confronti, perché la so spinta da un'angoscia specifica: quella che la mia rabbia serva a punirla per avermi "costretto" a separarmi dal sapere materno, accompagnandola lungo sentieri impervi e sconosciuti, senza alcun manuale di tecnica che ci possa servire da bussola.

Forse Matilde si sente in colpa per questo, e forse anche in cattive mani, avendo in un tempo remotissimo introiettato lei stessa quella lezione inflessibile che aveva reso difficoltosi i miei primi passi. Dovrò convincerla, ora, che non ci aspetta un ritorno alla casa perduta dei miei antichi genitori scientifici, per poter conquistare uno spazio all'interno di un setting canonico che la possa definitivamente liberare. La nostra meta è un'altra, e non sarà un ripiego, né per me né per lei. Bentornata Matilde, bentornati tutti.

domenica 28 luglio 2013

UNA CONGETTURA SU ESTENSIONE E LIMITI DEL NARCISISMO DI FREUD


Non è certo un caso se Luiz Eduardo Prado de Oliveira, psicoanalista franco-brasiliano, a esergo del proprio libro "Sándor Ferenczi, la psychanalyse autrement" (Armand Colin, Paris, 2011) ha posto una frase di Freud tratta dall'Interpretazione dei Sogni, che suona così:  

"Un amico intimo e un nemico odiato sono sempre state esigenze indispensabili della mia vita sentimentale; ho sempre saputo procurarmene di nuovi e non di rado lideale infantile si è ricostituito al punto di far coincidere nella stessa persona amico e nemico, naturalmente non più nello stesso tempo, o in varie alternative ripetute".



Se si parla di Ferenczi, la citazione precedente mi appare significativa soprattutto se confrontata con la seguente, tratta da una lettera scritta da Freud a Ferenczi il 21 novembre 1929:



"Senza alcun dubbio, nel corso di questi ultimi anni, Lei si è apparentemente allontanato da me. Interiormente non abbastanza lontano, io spero, perché mi possa aspettare da Lei, mio paladino e gran visir segreto, un passo verso la creazione di una nuova analisi di opposizione".



Se molto si è scritto sulle ragioni obiettive e sui limiti personali che condussero Freud e la sua cerchia a blindare la propria creatura all'interno di una "chiesa" capace di somministrare l'approvazione e la condanna, l'imprimatur e l'anatema, accogliendo in seno all'ortodossia oppure ripudiando come eretici i contributi che non provenivano da Freud medesimo o dai suoi fedelissimi, qualche parola occorre dire sui singolari rapporti che intercorsero fra i due, anche e soprattutto in materia di adesione del secondo alle idee del primo.

È noto che Freud, la cui attività epistolare fu quotidiana e instancabile, scambiò con Ferenczi il maggior numero di lettere, fra tutte quelle che inviò e ricevette da discepoli, collaboratori, amici, pazienti, e persino familiari. Ed è noto anche che Freud avrebbe visto di buon occhio un matrimonio fra l'Ungherese e la propria figlia Mathilde.

Ed è d'altra parte noto che l'idealizzazione di Ferenczi per il maestro, amico e analista di tutta una vita, raggiunse livelli molto elevati.

Se si segue la corrispondenza e la produzione scientifica del secondo, non si può far a meno di notare che a fronte delle sue scoperte più significativamente divergenti dall'ortodossia freudiana -valga come esempio paradigmatico, il ruolo che Ferenczi, in collaborazione con l'amico Otto Rank, attribuisce, negli Entwiklungsziele der Psychanalyse (Prospettive di sviluppo della psicoanalisi, 1924), al "ripetere" in analisi le esperienze traumatiche rispetto al "ricordare", che, soltanto dieci anni prima, in Ricordare, Ripetere, Rielaborare, Freud aveva indicato quale obiettivo della tecnica analitica- Ferenczi sarà continuamente portato ad affermarne l'"assoluta fedeltà" alle idee di Freud (ciò anche a scapito dell'evidenza), mentre questi mostra in più di un'occasione un'insolita e a tratti un po' forzata tolleranza.



Tuttavia, durante la seconda metà degli anni Venti, con il progredire delle scoperte di Ferenczi in materia di psicopatologia ad eziologia traumatica, il solco fra il Maestro e l'Allievo si approfondirà fino alla rottura definitiva.



Tutto il resto, sia pure per troppo tempo mantenuto sotto silenzio, è ormai da anni cosa nota. Tuttavia, fra i non pochi aspetti della vicenda che ancora mi incuriosiscono,  c'è proprio la definizione "mio paladino e gran visir segreto", la cui caratteristica di ossimoro non è forse ancora stata esaminata a fondo.

È noto che il richiamo ai paladini di Carlo Magno scaturisce nelle discussioni fra Ferenczi e Jones all'epoca della costituzione del "Comitato Segreto", nato per tutelare quello che oggi definiremmo il "copyright" delle produzioni scientifiche considerate "ortodosse" rispetto a lavori che tali non erano a giudizio di Freud e della sua cerchia, soprattutto durante gli anni immediatamente seguenti il traumatico allontanamento di Jung.



È d'altra parte noto che, essendo quello di Gran Visir il titolo spettante al Primo Ministro (secondo solo al Sultano) nell'impero Ottomano, esso appartiene a quella Religione Musulmana, a lungo combattuta dai Paladini di Re Carlo. Quindi si può dire che "paladino e gran visir" sono due opposti in uno: un ossimoro, per l'appunto, certamente rivelatore di una duplicità, forse di un ambivalenza, di una profonda contraddizione in colui che l'ha formulata.

Di quale natura sia questa contraddizione inconscia è impossibile dire. Per questo vorrei proporre una congettura.

Non vi è dubbio che, come afferma André Haynal per spiegarla, Freud ebbe sempre in simpatia le personalità "scapestrate". Ma il vero problema è: perché? Forse perché riconosceva in loro quello stesso febbrile ardore che aveva caratterizzato la sua gioventù e, almeno in parte, la sua maturità di scienziato fino all'esplodere della malattia che lo avrebbe portato, sia pure in un tempo sensibilmente più lungo di quello ipotizzato, alla morte?

Perché Freud, così geloso della fedeltà alle proprie scoperte, avendo egli messo a nudo un aspetto allo stesso tempo illuminante e imprigionante della "verità" dei contenuti dell'Inconscio, offuscata dalle difese nevrotiche che impedirebbero al soggetto "non sufficientemente analizzato" di accedervi, questione ineludibile nell'analisi del singolo, ma anche foriera di arroccamenti dogmatici nella ricerca e nella trasmissione dottrinale, perché Freud - mi chiedo- tollerò tanto a lungo quell'allievo "scapestrato" e geniale, detestato da Jones e dai berlinesi al punto da creare continue frizioni in seno al movimento, e tuttavia impossibile da rigettare con la stessa determinazione con cui erano stati allontanati (o lasciati allontanare), Adler, Stekel, Jung, e persino il "figlioccio" Otto Rank?

Perché, ipotizzo, a Freud non sfuggiva né il fatto di essere troppo vecchio per ricominciare a "ricercare nuovi filoni auriferi in gallerie (provvisoriamente?) dismesse" trent'anni prima (all'epoca dell'abbandono della "Teoria della Seduzione", 1897), né il fatto che al di fuori delle alte mura erette attorno all'ortodossia potessero crescere germogli nuovi e promettenti. Non potendo vivere, come noi tutti, più di una vita contemporaneamente, forse Freud si concesse, in un angolo remoto del cuore, di immaginarne un'altra. Ma troppo era il peso della responsabilità davanti alla Storia, per potersi permettere ripensamenti ondivaghi o tardive revisioni. Questi furono, forse, l'estensione e i i limiti del suo narcisismo.

mercoledì 17 luglio 2013

LA LINEA D'OMBRA DELLA MALATTIA

(a un'amica irrinunciabile)

Uno. Nel romanzo breve "La Linea d'Ombra", Joseph Conrad narra la storia di un giovane primo ufficiale in servizio sui mari d'oriente, che, improvvisamente e senza ragioni riconoscibili agli altri e a se stesso, si licenzia in cerca di una vita diversa da quella condotta fino a quel momento, vuota e priva di obiettivi.
Sceso a terra, accetta la proposta di assumere il comando di una nave il cui capitano precedente è morto in preda alla follia.
Pensando di essere l'uomo giusto per quell'incarico, lo accetta immediatamente, felice di aver saltato la gavetta necessaria per giunge a quella responsabilità. Ma appena a bordo inizia a scontrarsi con l'ostilità del primo ufficiale Burns, forse geloso per aver aspirato ad assumere il comando della nave e, appena salpato, è costretto ad affrontare una terribile epidemia che investe l'equipaggio, resa incurabile dal fatto che, prima di morire, il vecchio capitano  ha venduto tutte le scorte di medicinali presenti sulla nave. Al culmine della sventura, la nave è preda di una bonaccia che la mantiene immobile in mezzo all'oceano per più di due settimane.
In questa situazione, pur divorato dalla febbre e perseguitato dall'idea superstiziosa che il vecchio capitano abbia lanciato sulla nave una maledizione, e dai dubbi circa le proprie capacità, il giovane capitano riuscirà a mantenere la nave in grado di navigare accettabilmente anche grazie all'aiuto del cuoco Randsome, unico scampato all'epidemia. Giunto infine  nel porto di Singapore, porta in salvo l'equipaggio, per assumerne immediatamente un altro e con esso intraprendere un nuovo viaggio, questa volta privo delle proprie illusioni e dell'aiuto del cuoco.

Questo racconto, variamente interpretato dalla critica, può essere visto come metafora delle iniziazioni adolescenziali, compito delle quali è superare l'angoscia e il non sapere che fare della propria vita futura, nelle quali si incontra spesso una linea d'ombra che oscura il senso di sé e della propria capacità di procedere nel cammino dell'individuazione.

Due. Ne "Il Trauma", capitolo del libro "Psicoterapia Democratica" (Cortina 2013), scritto a quattro mani con Tobie Nathan, l'etnopsicologa Nathalie Zajde, scrive che "Il trauma viene utilizzato sistematicamente nei riti d'iniziazione delle società tradizionalistiche al fine di trasformare l'individuo, se non addirittura di farlo "rinascere". 

Tre. Questa presentazione di una dicotomia morte/rinascita, mi ha fatto pensare al tema conradiano della "linea d'ombra" come esperienza di passaggio che consente la nascita di un Io definitivamente adulto e capace di affrontare il mare aperto dell'incertezza.

Quattro. Penso che questa riflessione sia pertinente con il senso di angosciosa mancanza di prospettive in cui vengono a trovarsi le persone alle quali viene diagnosticata una malattia potenzialmente letale, che cancella di botto la speranza riducendola a fantasia in sospetto di essere patetica auto-illusione, che molti ammalati rifiutano per poter mantenere il controllo dell'angoscia.


Cinque. Forse la nostra cultura avrebbe bisogno di imparare a trattare la malattia grave, che è a tutti gli effetti un trauma psichico, come una occasione di rinascita, oltre la linea d'ombra dell'angoscia e dell'assenza di futuro.

mercoledì 1 maggio 2013

NOLI ME TANGERE

Nello statuto paradigmatico della psicoanalisi, tanto al di qua quanto al di là dei confini dell’ortodossia, è diffusa e apprezzata l’idea che i contatti fisici fra analista e paziente debbano essere ridotti al minimo indispensabile, e talora persino meno frequenti di quanto non ne concedano i comuni rapporti di cortesia non confidenziale; è noto infatti che alcuni analisti di formazione anglosassone non usano stringere la mano al proprio paziente al momento del saluto e a quello del commiato.
Ciò vale in linea generale: e se si vuol risalire alle ragioni storiche di tale uso, non si potrà fare a meno di prendere in considerazione il ruolo che Freud attribuiva all’eros all’interno  della relazione transferale, e alle conseguenti precauzioni in merito.
Ciò detto, occorre sottolineare come sovente il corpo rivendichi il proprio ruolo in un contesto relazionale che rischia di dimenticarne l’esistenza. Proverò a raccogliere, in merito, alcune riflessioni sparse che provengono dalla mia esperienza professionale.

1. Circa quindici anni fa, ebbi in psicoterapia a sedute bisettimanali una bambina di sette anni che era stata molestata sessualmente dal padre. Durante le sedute si notava spesso in lei il sorgere di una certa irrequietezza che aveva specifiche connotazioni erotiche: Lucia (la chiamerò così) si avvicinava alla mia poltrona per mostrarmi un disegno e con fare indifferente appoggiava il pube conto il mio ginocchio in un atteggiamento inequivocabile. Fu abbastanza facile per me, in quelle ripetute occasioni, districarmi da una situazione altrimenti imbarazzante con un semplice espediente: prendevo in braccio la bambina e la sedevo sulle mie ginocchia in modo che i genitali non potessero in alcun modo venire a contatto con il mio corpo. Si trattava di un gesto semplice e naturale, congeniale a una coppia genitore-figlio e totalmente privo di connotazioni a rischio di ambiguità. Facendo ciò, quel comportamento scomparve senza che ci fosse bisogno di verbalizzare alcunché. Oltretutto, qualsiasi tipo di “interpretazione” di quel comportamento erotizzato, non avrebbe potuto evitare di assumere un significato censorio e colpevolizzante; o almeno io non sarei stato capace di esprimere una tale riflessione senza correre il rischio di istillare in Lucia ulteriori e indebiti sensi di colpa. 

2. Parecchi anni dopo ebbi una paziente della quale, forse significativamente (lo ammetto con imbarazzo)
, non ricordo il nome. Si trattava di una quasi-adulta piuttosto graziosa, che, al momento del commiato, dopo esserci stretti la mano come io uso fare con tutti i miei pazienti maggiorenni o in procinto di diventarlo, con un gesto improvviso mi abbracciò e mi baciò sulle guance. L’episodio si ripeté due o tre volte, dopodiché la ragazza scomparve, e non la rividi più. Il mio comportamento in quell'occasione fu eccessivamente neutro e perciò non privo di conseguenze: sapevo bene che non avrei dovuto opporre un rifiuto e men che meno un atteggiamento troppo condiscendente. Il risultato fu che mi comportai con cortese e di certo antipatica "degnazione" verso un gesto insolito al quale non ero preparato.  Oggi, il mio rammarico è quello di non aver mai trovato il "varco" giusto per trasformare quell'agito in un pensiero condiviso che forse avrebbe potuto rivelare esperienze della ragazza di cui ero all'oscuro.

Questa riflessione mi è tornata alla mente oggi, mentre leggevo un passo del Diario Clinico di Ferenczi che suona così:

“L’aiuto offerto dal grembo materno e da un forte abbraccio rende possibile un completo rilassamento anche dopo un trauma sconvolgente, cosicché le forze proprie della persona sconvolta, non disturbate da compiti esterni di precauzione e difesa, si possono dedicare, senza dispersione, al lavoro interiore di riparare delle alterazioni funzionali causate dalla penetrazione inaspettata” ("Bendaggio psichico", 25 Marzo, pag. 132).
[In questo caso, il termine “penetrazione” può essere riferito tanto alla brutale materialità di uno stupro quanto a un’esperienza indesiderata che “penetri” inaspettatamente nel mondo interno di chi la subisce, rimanendovi confinata].

E’ sempre sorprendente constatare la naturalezza con la quale Ferenczi riesce a connettere le emozioni profonde dell’anima con quelle altrettanto intense che sono destinate a radicarsi nel corpo: qui l’abbraccio non è soltanto ciò che agisce in funzione simbolica per ricordare l’amore materno o il contenimento intrauterino: si colloca come una corazza esterna che consente alla muscolatura di rinunciare alle proprie funzioni di difesa che più facilmente tenderanno a diventare permanenti, perpetuando così il senso di pericolo e di persecuzione.
 
E' per questo che ho ripensato alla paziente alla quale non seppi mai chiedere che cosa la spingesse ad abbracciarmi.

giovedì 18 aprile 2013

LA SCRITTURA DELLA CLINICA

Ma chi l’ha stabilito che la scrittura creativa debba essere per forza appannaggio esclusivo di scrittori e poeti? Chi ha detto che scrivere è necessariamente un dono del Cielo, un talento naturale, e peggio per chi ne è sprovvisto, che dovrà in tal modo rassegnarsi a esprimere periodi ridondanti, frasi irrisolte, anacoluti e riflessioni adatte più a distrarre il lettore che a catturarne l’attenzione?
Io non sono di certo un letterato: ma considero ugualmente la scrittura un insostituibile strumento operativo indispensabile al mio lavoro (che di certo non è quello di scrivere), perché soltanto attraverso la scrittura è possibile scendere fra le pieghe dei propri ragionamenti oltre un certo livello di profondità, oltre la nebbia di certe fantasie, oltre la cortina fumogena dei pensieri immaturi, e soprattutto tra i frammenti delle intuizioni preconsce che nel contatto quotidiano con i pazienti ci giungono in forma pre-verbale o addirittura non-verbale, e quasi sempre al di sotto di una certa soglia di percezione.
Questo mi sforzo d’insegnare ai giovani che arrivano pieni di speranza, spavento e frustrazione, dopo le prime esperienze cliniche in cui hanno ascoltato famelici il sogno di un paziente nell'improbabile desiderio di impadronirsi un Traduttore dei Sogni che consenta loro di decifrare immediatamente un linguaggio oscuro in una divinazione a chiave, in un algoritmo in grado di  “cracckare” la barriera dell’inconscio. E la delusione più grande e più utile è la scoperta che quel Traduttore semplicemente non esiste: non è neppure la freudiana Traumdeutung, troppo spesso confusa da giovani e volenterosi kamikaze con  la Smorfia napoletana.
Scrivendo queste ultime righe, mi accorgo di aver barato: no, quelli che ho appena descritto non sono gli allievi che vengono a fare il loro tirocinio nei nostri servizi: “quelli” sono io, trent’anni fa. Io che mi ritrovo oggi, nel momento in cui inizio il dialogo con i tirocinanti in supervisione, a proseguire, non di rado polemicamente, quello iniziato tanto tempo fa con i Maestri.
Ai miei allievi (ma dovrei dire, vista la prevalenza di genere: “alle mie allieve”) io raccomando sempre di scrivere. E sovente sono stupite e quasi sempre imbarazzate quando mi attardo a guardare i loro scritti con gli occhi di un insegnante d’Italiano.
“Ma perché lo fai? Ti diverti a massacrarmi la tesi?” mi chiede la dottoressa Domitilla A., specializzanda dell’ultimo anno. “No”, rispondo. “Sto semplicemente defoliandola di tutto il superfluo, di tutte queste erbe infestanti che ti impediscono di veder chiaro fra i tuoi pensieri”.
“Ma non mi hai detto niente dei contenuti!”, insiste delusa. “Stai semplicemente inseguendo la proprietà di linguaggio, il rispetto delle consecutio, e soprattutto tagli via un mucchio di subordinate. Mi fai venire in mente mia madre: ma almeno lei è una professoressa di lettere, mentre tu sei un medico!”.
Apparentemente, Domitilla ha ragione: e per difendermi dalle sue lamentele, eccomi qui a scrivere anch’io, proprio per trovare le parole adatte a esprimere pensieri che non sento ancora giunti a completa maturazione verbale.
La scrittura di Domitilla è disarmonica non perché lei, che ha fatto ottimi studi classici, non sappia scrivere; anzi. Il suo malfunzionamento letterario tradisce un’ansia da prestazione dovuta all’incombere del giudizio del relatore di tesi, ansia che può essere dominata solo da un’infinita pazienza. Il suo scritto è pesante, involuto e sospeso, perché dell’esperienza della relazione con l’Altro sofferente, le giunge una massa di input dei quali soltanto alcuni assumono una forma parlata. Per interpretare la realtà emotiva di chi ci sta di fronte occorre esercitare una particolare sensibilità che molti di noi possiedono senza saperlo, e che per poter usare devono scoprire. E’ la capacità di cogliere impressioni fuggevoli, flash improvvisi, sguardi, discorsi fatti a metà, lapsus, sensazioni che nemmeno noi, a una prima impressione, registriamo consapevolmente.
Per fare clinica occorre riguardare il materiale con un occhio distaccato e rivedere la scena –noi con il nostro paziente- una seconda e una terza volta, come se fossimo osservatori esterni; ed è proprio la scrittura a consentirci tutto questo. Ogni volta che un allievo psicoterapeuta scrive la seduta (spesso senza averne il tempo, quasi sempre con la preoccupazione di non ricordare abbastanza, e in ogni caso maledicendo il supervisore che pretende quella fatica), deve pensare che la sua supervisione inizierà al momento stesso della rilettura dello scritto, cioè molto prima di incontrare il Collega più anziano. E se lo scritto sarà destinato a qualche forma di pubblicazione (una tesina, la dissertazione finale, o un articolo per una rivista), sarà bene che l’allievo impari a lavorare sul testo, proponendosi un esercizio apparentemente semplice: togliere ogni parola superflua, senza rinunciare a un solo concetto. E’ un esercizio che ho appreso durante gli anni in cui collaboravo regolarmente con un quotidiano scrivendo “il parere dello psichiatra” ogni volta che questo era chiamato in causa da fatti di cronaca. Poiché i pezzi richiesti non dovevano mai superare le quaranta o al massimo le sessanta righe, stufo di vedermi tagliare, cominciai a usare il computer in modo tale da controllare sempre il numero esatto di battute che mi venivano richieste di volta in volta. Fu così che imparai a dimezzare gli articoli scrivendo esattamente le stesse cose espresse durante la prima stesura, e per di più fui anche piacevolmente sorpreso nel constatare che il tal modo la leggibilità ne guadagnava moltissimo.
Ora lo stesso metodo mi torna comodo quando scrivo i casi clinici dei quali mi restano memorie incomplete, aree oscure, pensieri che richiedono di essere nuovamente pensati. E’ un esercizio di cui non posso più fare a meno.

P.S.: Rileggendo questo Post, mi accorgo che è po' lungo e pieno di frasi che potevano essere risparmiate, ma è tardi, e sono un po’ stanco. Abbiate pazienza.
P.P.S.: Rileggendolo ancora il giorno dopo, vi ho persino trovato un grave errore di sintassi. Paola si lamenta che correggo sempre i miei post, ma bisogna sempre rileggere. Chissà se ne scoprirò altri.

giovedì 11 aprile 2013

VIA DELLA VERITA'

Sandra viene in supervisione con l’aria di chi deve confessarmi qualcosa. “Ho una notizia da darti. Ho finalmente scelto una scuola di psicoterapia. A Milano”.
“Direi che questa è una buona notizia”, commento.
“Aspetta a dirlo” aggiunge con imbarazzata ironia. “Quella che ho scelto non è propriamente una scuola psicoanalitica”.
Capisco che l’imbarazzo è dovuto al timore di una mia disapprovazione. Io, in realtà, non so nulla della scuola che Sandra dopo un po’ si decide a nominare, e so abbastanza poco anche della teoria che sottende l’indirizzo da lei scelto.
“Lo sai” mi dice, “io sono in analisi da tanto tempo e sono proprio contenta di aver scelto X come analista, perché mi ha sempre lasciato una libertà totale” (per quel poco che conosco il Collega X, non sono per niente stupito da questa affermazione), “ma sai”, aggiunge, “c’è qualcosa in tutto questo che non mi appartiene. Durante la formazione che ho avuto finora, mi sono imbattuta in troppi divieti, mentre io, quando sono con i pazienti, mi sento spinta a fare cose che i miei maestri disapproverebbero. E poi il corporeo … non posso farne a meno”.
Mentre Sandra parla, a me torna in mente un’immagine: Freud seduto per terra con una paziente isterica.
C’è un passo del Diario Clinico (o è in una lettera indirizzata a Groddeck che l’ho letto?), in cui Ferenczi dice, più o meno testualmente: "una volta Freud era capace di rimanere molte ore seduto per terra ad ascoltare una paziente isterica. Adesso non più". Ma quante cose ha fatto Ferenczi sfidando le proibizioni? Quanto tempo passava con le pazienti più gravi? E che cosa è veramente accaduto nelle sedute di analisi reciproca? Di tutto questo abbiamo per lo più notizie imprecise. Ma da tutta questa somma di errori è scaturita un’eredità che non cessa ancora di fruttificare.
Quindi: che cosa della psicoanalisi continua a germogliare e che cosa è destinato a trasformarsi o a scomparire? Che cosa è scorza –per dirla con Abraham e Torok-, e che cosa nocciolo? Tutto ciò che è vivo si muove e si trasforma, e, da questo punto di vista l’enfasi sul rispetto dell’ortodossia è stata piuttosto la difesa di un oggetto morto, un cadavre éxquis, nascosto dietro una cortina d’interdizioni. Certo: la relazione, il transfert, il controtransfert sono beni preziosi e irrinunciabili. E anche il setting. Ma, del setting, che cosa è vitale e che cosa è rituale? Per quante volte potremo lasciar sprofondare il paziente in nome della nostra fede nei Comandamenti?
Mentre Sandra parla, questi pensieri tornano per la centesima volta ad affollare la mia mente.
E mi rivedo, giovanotto, tentare inutilmente di affogare i miei dubbi come gattini ciechi. Anche allora avevo intravisto (proprio come oggi fa la coraggiosa Sandra) la via della “mia” verità, in mezzo a una nebbia non illuminata da alcun Maestro. E fu proprio quella solitudine a spaventarmi, togliendomi il coraggio di guardare fino in fondo a quegli interrogativi come a fili da dipanare.
“Perché si interessa di queste cose?” mi fu chiesto. Era la risposta a una mia domanda semplice semplice: quale differenza c’è fra l’analisi personale e l’analisi didattica? perché l’analisi del futuro analista deve necessariamente essere condotta da un didatta? Non basta un analista “autentico”, o “sincero”? Magari “capace”? O addirittura “simpatico” al suo paziente?
Queste domande furono giudicate in vario modo: nevrosi, inautenticità, eccessiva ambivalenza, voglia di barare, incapacità di stare al gioco, e qualcuno si prese persino la briga di citarmi un articolo di Eugenio Gaddini, nel quale si parlava dell’”impostore”, colui cioè che imbroglia le carte per diventare analista, dissimulando i propri conflitti per raggiungere una posizione professionalmente e socialmente prestigiosa. Non fui in grado allora, di spiegare ai miei illustri interlocutori che ciò che volevo era semplicemente la “verità”. E soltanto molti anni più tardi mi resi conto che quelle domande rimaste senza risposta conducevano molto lontano, sulle vie della scoperta di una degenerazione clericale che aveva imbrigliato la psicoanalisi e che rischiava di soffocarla.
Bisognava puntare alla libertà di pensiero, un bene non proprio estraneo alla psicoanalisi. Un bene per il quale vale la pena di spendere la vita. E libertà di pensiero significa anche libertà di ricercare, con tutti i rischi che ne conseguono. Perché l’errore, in fondo, è umano, mentre la scomunica è del Maligno.

domenica 17 marzo 2013

PASSIONI VIOLENTE


Per Odile R., io sono un dio, dotato di tutte le peggiori qualità degli dei. Al pari di Zeus dispongo di fulmini, ed è un problema sapere come e perché li lancerò. Perché un dio, per essere veramente tale, non può essere misericordioso ma soltanto privo di pensiero e di riconoscimento, come lo è il Destino.
Ma le mie specialità persecutorie non si limitano alla saetta seguita dal terribile boato: io posso far di peggio, semplicemente volgendo lo sguardo altrove. Perché, secondo lei, chi esce dal mio campo visivo semplicemente cessa di esistere. 
Tra me e Odile vi sono forti sentimenti affettivi (lei non mi lascerebbe mai, né io desidero che mi lasci finché non sarà arrivata a destinazione, un tragitto che ha l'andamento tortuoso della tela di Penelope), ma anche sentimenti di ostilità e rabbia.
L'ostilità Odile me la esprime in maniera perentoria quando rovescia il suo bisogno di essere accolta su di me, capovolgendo violentemente la situazione. Lo fa rimanendo per quarantacinque minuti a testa china, rinchiusa in un silenzio impenetrabile. In quei momenti lei è Matilde di Canossa, contenitore e ospite di un Papa che vuol essere adorato incondizionatamente, e io (cioè Dio) un povero Enrico IV inginocchiato per giorni nella neve.
Il silenzio di Odile mi rende furioso. Per molti anni (io e Odile ci frequentiamo, più o meno, da sempre) ho tentato di seppellire la mia rabbia sotto la maschera glaciale e impenetrabile dello psicoanalista della tradizione classica. Poi, di pari passo con la mia emancipazione, Odile mi ha aiutato a cambiare, facendomi comprendere come il silenzio non possa guarire il silenzio.
Nel suo incessante lavoro di cura, Odile mi ha fatto recentemente entrare in contatto anche con le piccole "rabbie sottili" che mi provocano certi suoi atteggiamenti, anche quando parla.
Insomma: in quest'analisi reciproca si direbbe che io sia, per il momento, il maggior beneficiato. Ma non dispero di portare, di certo non prima che la mia carriera giunga al termine, il mio lavoro a compimento. Se non l'ammazzo prima.

mercoledì 6 marzo 2013

OLTRE L'ANALISI PERSONALE (DELL'ANALISTA E NON SOLO)

Scrive Winnicott che  la ricerca psicoanalitica – e dunque, aggiungo io, il lavoro psicoanalitico – è sempre, in una certa misura un tentativo da parte dell’analista di spingere il lavoro della propria analisi oltre il punto cui il proprio analista ha potuto condurlo”.
Questa affermazione ha valore dirompente perché pronunciata in un saggio (L'Odio nel Controtransfert, 1949), nel quale si afferma allo stesso tempo che la scoperta di "aree cieche" nell'analista deve sempre spingere quest'ultimo verso una ripresa della propria analisi personale, e che questo tipo di "patologia professionale" investirebbe, a detta di Winnicott, gli psicoterapeuti più che gli psicoanalisti.
Ora, ammesso che quest'ultima definizione, quando riferita all'ambito psicoanalitico, non possa essere riformulata più comprensibilmente in una distinzione fra psicoanalisti più e meno preparati, non si potrà non notare che in primo luogo,  essa considera l'analista come qualcuno che "non ha (o non dovrebbe avere) più" nuclei conflittuali irrisolti (affermazione molto impegnativa rispetto a ciò che ci aspettiamo dalla psicoanalisi e dalla capacità diagnostica di chi ha il compito di valutare i futuri psicoanalisti); e che essa implica il fatto che qualora lo psicoanalista debba trovarsi in tale sfavorevole condizione, debba senz'altro tornare a sottoporsi a un'analisi presso un collega.
Ora, a parte le difficoltà di una simile soluzione, che potrebbe implicare anche un'assenza di motivazioni a una relazione di dipendenza da parte di uno psicoanalista in là negli anni, c'è da osservare la totale sfiducia nel pensiero psicoanalitico prevalente all'epoca di Winnicott nelle possibilità che uno psicoanalista formato possa, dopo un congruo periodo di tirocinio, andare avanti da solo con la propria autoanalisi, così come ogni individuo adulto non deve necessariamente tornare fra le braccia della madre, ogni qualvolta i propri conflitti lo facciano soffrire.
Un po' contraddittoriamente ma con grande lucidità, Winnicott è raggiunto, in un periodo di relativa oscurità, dall'intuizione che ciò sia possibile.
La questione mi intriga molto, perché da tempo sono spinto dal desiderio di scoprire che cosa, in termini emotivi, mi diano i miei pazienti: ad esempio di come, attraverso il continuo lavoro di rêverie, io espanda continuamente la mia capacità di fantasticare; e come sia possibile comunicare loro il senso della mia  gratitudine. Altrimenti potrebbe capitare che qualcuno di loro si sentisse schiacciato da un debito troppo unilaterale. Non è mai bene essere soltanto i beneficiari di qualcosa. Occorre anche saper riconoscere a se stessi la capacità di far star bene gli altri.

lunedì 4 marzo 2013

LA MENTE ESTERNA


A proposito di "suggestione, intimidazione, imposizione di una volontà estranea" (DC, 24 gennaio, p. 66), Ferenczi scrive:  "R.N. [una paziente gravemente traumatizzata da abusi e violenze inflittele durante la prima infanzia], fu resa consenziente con la narcosi. La narcosi stessa è vissuta come qualcosa di contrario alla vita e rifiutato; in effetti si può essere anestetizzati soltanto con la forza, anche quando si è dato coscientemente il proprio assenso senza la pressione di forze esterne: non si rinuncia mai alla volontà di mantenere il controllo delle sensazioni e della motilità. Si cede alla violenza, ma con "reservatio mentalis". Rimozione, infatti, significa venir repressi pur mantenendo la tendenza originaria (...). Ma dove si trova il rimosso, qual è il suo contenuto, in quale forma rimane in rapporto con le parti dell'individuo sottoposto a violenza e per quale via può infine aver luogo la riunificazione? Risposta: la volontà repressa, cioè piegata dalla forza, si trova fuori di sé (...). La propria volontà si trova da qualche parte nell'"irreale" in senso fisico, vale a dire nella realtà psichica quale tendenza che non ha strumenti di potere e perciò non dispone di alcuna risorsa organica né cerebrale e nemmeno delle immagini mnestiche, che sono ancora più o meno fisiche; in altre parole, questa volontà che sente di essere integra e che nessuna forza può sopprimere si trova al di fuori della persona che agisce con violenza [l'Autore parla qui di una vittima di violenza costretta a compiere a sua volta atti di violenza] e continua a negare, a causa di questa scissione, che sia lei a compiere le azioni".

In questo brano, Ferenczi tratta il tema di ciò che  chiamiamo  "dissociazione" o  "scissione verticale", per distinguerlo dal concetto di "rimozione", che è una sorta di  "scissione orizzontale". Se il secondo concetto è rappresentabile in termini di "sopra" (coscienza) e "sotto" (inconscio), dove l'"orizzontalità" è indicata dalla direzione del "taglio", il primo indica uno spostamento di contenuti mentali che in qualche modo può essere rappresentato come "laterale" (taglio verticale).

L'aspetto che più mi interessa trattare in questa circostanza riguarda il fatto che Ferenczi sembra descrivere il costituirsi di uno spazio mentale esterno, una sorta di backup memory utile a stivare contenuti mentali per diverse ragioni non processabili da quell'"unità centrale" che è l'Io cosciente.
Ciò avviene normalmente durante la prima infanzia quando molti contenuti mentali e molti processi indispensabili alla conservazione sono delegati alla mente del caregiver.
Se guardiamo alle funzioni protettive, ad esempio, dobbiamo ammettere che esse "non abitano" se non in minima parte, nella mente del piccolo che, non soltanto nella specie umana, è totalmente soggetto, in condizioni ottimali, alla vigilanza e alla protezione di almeno un adulto.
Lo stesso instaurarsi del "basic trust" (fiducia di base) è determinato dalla medesima necessità di affidare la cura della propria sopravvivenza, delegandola al caregiver, che funziona come "mente esterna", provvista di un Io che assume funzioni vicarie.
La funzione protettiva dello spazio mentale esterno, può essere quindi riutilizzata in condizioni di necessità, e proprio quando la sopravvivenza sia minacciata. Essa diventa il contenitore di pensieri insostenibili e di ricordi inaccettabili, aventi però una funzione diversa da quelli rimossi; l'inconscio dinamico è infatti uno spazio pur sempre "interno" utile all'allocazione di contenuti indesiderabili, la cui provenienza interna è d'altronde nota. Altro sono le minacce mortali provenienti da relazioni esterne che necessitano di essere mantenute separate dal Sé per poter essere controllate.

domenica 17 febbraio 2013

CONVERSAZIONE MAI AVVENUTA


M. è un collega. Durante una discussione su di un caso clinico mi racconta un fatto personale che trovo molto interessante. "Posso raccontarlo sul mio Blog?" gli chiedo. "Mi farebbe molto piacere", mi risponde. "Io non saprei farlo, anche se sento che questa mia esperienza debba essere comunicata".

Molti anni fa, M. era un giovane laureato in materie umanistiche, che durante gli studi universitari aveva sofferto per stati d'angoscia. Per questo aveva deciso di rivolgersi a F., un'analista con la quale si stabilì un rapporto molto intenso e gratificante, per quanto doloroso e difficile, al termine del quale non soltanto aveva risolto il problema per il quale aveva cercato aiuto, ma aveva sentito sorgere in lui un prepotente desiderio di saperne di più, di continuare quella che gli era sembrata un'avventura affascinante, di studiare la psicoanalisi e di imparare a curare pazienti. In una parola: di diventare psicoanalista. Siccome durante i decenni trascorsi era stato un cattivo studente (o così, perlomeno, gli era sembrato) aveva deciso, con un po' di ossessività, che questa volta non avrebbe sbagliato, che la sua formazione avrebbe dovuto essere di prim'ordine. Si era così risolto a rivolgersi alla Società Psicoanalitica Italiana, meta allora molto ambita da tutti coloro che desideravano intraprendere quella professione, ed ottenne di essere ammesso alle selezioni, iniziando così una seconda analisi, che avrebbe dovuto obbligatoriamente essere svolta con un analista didatta.
Per la verità, M. non capiva molto bene il perché di quel passaggio: lui aveva già fatto un'analisi piuttosto lunga: cinque anni a quattro sedute la settimana. Certo, la sua analista non aveva ancora conseguito il titolo di didatta, ma poiché l'analisi aveva raggiunto i propri scopi, perché mai farne un'altra? E soprattutto perché farla sull'onda di una motivazione così "burocratica" in un tempo nel quale, semmai, sarebbe stato meglio sedimentare ciò (non proprio poco) che era stato elaborato durante quei cinque anni? Saggezza avrebbe voluto che M. aspettasse che di fare una seconda analisi gli tornasse almeno la voglia, ma si intravedeva all'orizzonte il traguardo dei quarant'anni, oltre il quale la Società Psicoanalitica Italiana non lo avrebbe più accettato (ma perché, poi? Non era quello dello psicoanalista un mestiere adatto a persone un po' più anziane e un po' più sagge?), decise di procedere con la seconda analisi, pur cercando di ignorare la sgradevole impressione di star facendo qualcosa di forzato. Si rivolse ad E., uno studioso noto per i suoi scritti, considerati all'avanguardia, un didatta provvisto di tutti i requisiti necessari. Il loro incontro avvenne quando ancora la prima analisi era in corso, e la sua analista gli disse che, in merito al suo progetto, lei ed E. si erano sentiti telefonicamente, secondo una prassi allora molto in uso nei passaggi da un analista all'altro, ad evitare, "colpi di testa" di pazienti troppo angosciati. Ad ogni buon conto, seguendo i consigli di entrambi gli analisti, M. concluse la prima analisi, e lasciò passare circa due anni prima di iniziare la seconda, nella presunzione che quel tempo, dettato da esigenze non soltanto sue, sarebbe stato sufficiente alla "rimonta del desiderio".
Ma non fu così, e la seconda analisi, come M. ebbe ripetute occasioni di spiegarmi, non conseguì successo a causa di quella forzata adesione a un progetto così poco sentito sul piano emotivo.
Anche stasera M. è tornato sull'argomento (che evidentemente ancora, a distanza di tanto tempo, non lo lascia in pace). Questa volta, però, M. ha aggiunto un aneddoto che ha destato la mia curiosità facendomi pensare a lungo.

M. mi parla di un momento della seconda analisi, nella quale egli aveva evocato il ricordo di ciò che F. gli aveva detto a proposito della telefonata fra lei ed E..
Il commento di E. fu una doccia gelata: "Quella telefonata non c’è mai stata. Si tratta di un ricordo delirante", sentenziò. Dunque, fu la conclusione implicita del discorso, dei ricordi di M. non c'era da fidarsi.

"Sai, mi dice oggi M., io non ho mai veramente creduto alle parole di E. Naturalmente so benissimo quanto i ricordi possano trasformarsi nel tempo. Io stesso ho sperimentato come un sogno fatto e trascritto tanti anni fa e rievocato oggi, risulti sensibilmente diverso  rispetto alla versione originale. E poi ho sempre saputo (all’epoca ne avevo già raccolto molte prove) che E. era un uomo singolarmente distratto e smemorato, e in questo, un po’ ci assomigliavamo. Ho quindi convissuto a lungo con un atteggiamento di incredulità e con un senso di disagio provocato dal fatto che sentivo quella refrattarietà come qualcosa che mi rendeva un po' inadatto alla psicoanalisi, ammesso che quella e quella soltanto, si potesse considerare "psicoanalisi". Ma, allora, l'idea di terre a me sconosciute, la cui esistenza non fosse ancora certificata da una concordanza con la narrazione biblica era per me inavvicinabile. In psicoanalisi è accaduto un po' ciò che si era verificato in occasione delle grandi scoperte scientifiche. Come rendere la scoperta di Colombo compatibile con l'Antico Testamento? Come spiegare che i nativi americani discendevano anch’essi da Adamo per impedire che la nuova scoperta geografica fosse considerata il frutto di una seduzione demoniaca? Così accadde per le idee psicoanalitiche non discese direttamente da Freud o da coloro che nel suo nome fossero stati ordinati sacerdoti e depositari del Verbo.
Per ritornare a E., fu quell'implicito invito a non fidarmi delle mie percezioni che mi ferì profondamente. Io allora, ero già abbastanza "strizzacervelli" per sapere chiaramente ciò che avrebbe nuociuto a un paziente. E., invece, sembrava ignorarlo. E io non potevo ammettere che un analista didatta, e per di più il mio analista, fosse uno sprovveduto privo di tatto e di empatia, perché ciò avrebbe mandato all'aria tutta la mia costruzione idealizzante di una psicoanalisi infallibile (l'unico sintomo che dovetti curarmi da solo!), e capace di salvarsi se mi fossi affidato, totus tuus (per usare il motto apostolico di un Papa), in maniera incondizionata a un Credo. Ecco, il sintomo che mi impediva di aver successo nella mia analisi didattica fu proprio l'irriducibile rifiuto, che volli ostinatamente mantenere al di sotto della coscienza per non addentrarmi in una guerra dispiegata, per qualsiasi forma di sottomissione a un pensiero che non mi rendesse ragione di sé. Fu arroganza, questa? È possibile, ma ciò mi fece perdere la possibilità di ricevere l'iniziazione (ciò che non troppo scherzando oggi paragono a un'"ordinazione sacerdotale" nella sottomissione e nel silenzio della coscienza) e mi salvò l'"anima", qualunque cosa essa sia". 

Ti capisco, amico mio. E sento profondamente come questo dolore, per dirla con Dante, "ancor t'offende". Certo, potremmo anche osservare che fortunatamente abbiamo vissuto, tu ed io, rispondendo abbastanza accettabilmente alle sfide che la vita ci ha imposto: tu per queste ragioni, io per altre non troppo dissimili dalle tue. Però noi, oggi, abbiamo, sia pure retrospettivamente, un ampio dominio di quei fatti. Ciò che oggi fa ancora male è il ricordo di quel dolore, ma se oggi potessimo rivivere le medesime circostanze che imposero una battuta d’arresto al nostro cammino non avremmo alcuna esitazione nel farvi fronte. A volte sai, mi scopro a ripercorrere vecchie situazioni che mi hanno ferito, e mi consola il pensiero del come reagirei oggi. A te non capita?

"Qualche volta, si", mi risponde M. "Anzi, sai che ti dico? Mi fai venire voglia di inscenare, qui con te, il remake di quella seduta, per poter rispondere a quelle parole, cosa che allora non feci".

Ma perché? Di una situazione così pesante non avete mai più parlato? Lui ti stava diagnosticando un disturbo del pensiero, una forma, sia pure momentanea, di delirio e non avete detto più niente? Sei rimasto così, con la tua bella diagnosi di psicosi sulla groppa?

"Io preferii non approfondire. E sinceramente non so dirti se il mio timore principale fosse allora di star sul serio delirando, oppure di scoprire che ero caduto nelle mani sbagliate. Ma a giudicare dal fatto che dopo di allora (e son passati quasi trent'anni) non sono mai stato sfiorato dal timore di essere matto, credo di avere in mente la risposta. Ma, sai che cosa ti dico? Che avrebbe dovuto essere lui ad avere il senso del peso delle sue parole, e a tentare di indagare l'effetto che avevano avuto su di me. Ma continuò a tacere, in attesa di che cosa non si sa".

E allora tu oggi vorresti fare, qui in mia presenza, una specie di psicodramma, attraverso il quale dire ad E. ciò che allora non gli dicesti? Mi sembra un'idea molto interessante. Soltanto, sono un po' imbarazzato per il privilegio che mi concedi. Essere il testimone di pensieri tanto intimi è qualcosa che presuppone un grande senso di responsabilità. Ma voglio essere degno della tua fiducia fino in fondo.
Come intendi procedere?

"Semplice. Mi sdraio sul lettino, qui nel tuo studio dove ci troviamo adesso, tu abbassi appena un po' la luce, e io iniziò a parlare. Tu non devi fare nulla: solo rimanere in silenzio dietro di me ed ascoltare. A te non affido il compito di interpretare teatralmente la sua parte, perché fatalmente cercheresti di riparare ciò che ha fatto. Ma nessuno può farlo. È una cosa fra me è me, con te come testimone muto".

Vai,  ho detto a M. abbassando un po' la luce, fai pure quello che credi.

.....

"Delirante, dice lei? Un ricordo delirante? Certo: delirante. E delle conseguenze delle sue parole non si preoccupa? Che cosa devo fare io, ora, delle mie percezioni, dei miei ricordi? Non devo fidarmene? Saranno tutti deliranti? E a quale "verità", a quale salvagente potrò aggrapparmi? Lei non è delirante, vero? E neppure smemorato, perché se glielo facessi notare, probabilmente lei direbbe che voglio "farle le interpretazioni", invertire i ruoli rispettivi, rifiutare la dipendenza e la posizione asimmetrica. Quindi a me nella mia condizione attuale, non resta che tacere, far finta di non averla sentita, perché le conclusioni cui potremmo giungere se andassimo in fondo a questa discussione o affonderebbero me (e la cosa non mi piacerebbe per niente), o affonderebbero lei, e io sarei costretto a seguirla, come lo scorpione sulla rana nella favola di Esopo. Quindi, per non affondare del tutto, preferisco non pungerla. Lei deve star su per sorreggermi, anche se non so ancora (lo saprò dopo) quanto ciò mi costerà.

Ma se il discorso potessi farglielo "quando sarò grande"  (diciamo: fra una trentina d'anni), allora le direi ....

Delirante, sì, lei ha ragione. Il mio discorso è delirante. O perlomeno dobbiamo supporlo tale perché non ci sono le prove che quella telefonata fra lei e F. sia realmente avvenuta. Se ci fosse stata, due soli sarebbero i testimoni possibili: lei, che non la ricorda, e F.. Ora, se la cosa fosse realmente avvenuta e anche F. ne avesse smarrito la memoria (sono trascorsi alcuni anni), io sarei certamente in una brutta situazione, e quindi non voglio rischiare. Per questo le dico: escludiamo pure ogni altra ipotesi e ammettiamo che il fatto non sia accaduto e che il mio ricordo sia, come lei dice, "delirante".

Però, se la psicoanalisi non è una bagattella, anche dietro a un discorso delirante bisogna cercare un significato, un desiderio che, allucinatoriamente soddisfatto, abbia dato luogo a un falso convincimento.

Ammettiamo pure che io abbia creduto di ricordare qualcosa: perché? A me la risposta sembra abbastanza semplice: perché desideravo fortemente che quella telefonata ci fosse stata. Si, lo so: nella psicoanalisi di questo tempo (siamo negli anni 80), quando un paziente sogna che l'analista pensi a lui, o si occupi di lui al di fuori dei minuti canonici, commette un’immaginaria intrusione, che però sembra pesare come un’intrusione reale. È il talamo nuziale della sua mente ad essere violato dalle mie fantasie intrusive, a causa del mio bisogno di avere di più di quanto mi è stato accordato. L'avidità è il mio male, e lei ha il compito, per la tutela di entrambe le nostre menti, di scoraggiare tali barbariche invasioni.

Ma forse c'è un'altra spiegazione: io ho costruito quella fantasia delirante perché speravo di creare così un legame tra voi, qualcosa che mi potesse consolare del dolore del distacco dalla mia prima analisi. Telefonandole, e affidandomi nelle sue mani, la mia analista mi dava un suo viatico, e forse mi rassicurava sul fatto di non essere ostile al mio voler crescere, lasciando la casa che mi aveva fatto nascere.
Ci sarebbe stato qualcosa di male in tutto questo? Qualcosa di particolarmente vergognoso, al punto di tacciarlo di follia? Io non credo.

Adesso, lei mi dirà certamente che in lei non c'era tanta cattiveria da aver albergato tutte le fantasie mortifere che io le ho appena attribuito: il fatto che lei mi ritenesse sfrontato perché mi ero permesso di pensare che avesse parlato di me al telefono, il fatto che io avessi una prepotente nostalgia della mia prima analisi, e che ciò non fosse lecito. No, lei probabilmente ha ragione a rifiutare un'etichetta di tale "arroganza" (ricordo bene che questo termine le piaceva). Può darsi che ciò sia vero. Ma è un fatto che tutte queste fantasie, che non hanno mai prima di oggi raggiunto il livello della verbalizzazione, hanno continuato a vivere in me, come in un nido di serpenti, e mi hanno impedito di fidarmi di lei, rana traghettatrice. 
Se lei fosse stato più attento e sollecito, meno addormentato e distratto, forse la nostra storia avrebbe avuto un senso. Invece è rimasta soltanto una grande occasione perduta.

Si è fatta sera e M. rimane ancora un po’ sul lettino, in un silenzio pensieroso. Ma non è nei patti che io ora gli chieda altro. Quasi quasi, mi dispiace dirgli che dobbiamo andare.