Perché Wiesbaden 1932


PERCHE' "WIESBADEN 1932"? Leggete qui



Detto ciò, benvenuti nel mio Blog, angolo per riflessioni da condividere con colleghi e amici selezionati.











giovedì 11 aprile 2013

VIA DELLA VERITA'

Sandra viene in supervisione con l’aria di chi deve confessarmi qualcosa. “Ho una notizia da darti. Ho finalmente scelto una scuola di psicoterapia. A Milano”.
“Direi che questa è una buona notizia”, commento.
“Aspetta a dirlo” aggiunge con imbarazzata ironia. “Quella che ho scelto non è propriamente una scuola psicoanalitica”.
Capisco che l’imbarazzo è dovuto al timore di una mia disapprovazione. Io, in realtà, non so nulla della scuola che Sandra dopo un po’ si decide a nominare, e so abbastanza poco anche della teoria che sottende l’indirizzo da lei scelto.
“Lo sai” mi dice, “io sono in analisi da tanto tempo e sono proprio contenta di aver scelto X come analista, perché mi ha sempre lasciato una libertà totale” (per quel poco che conosco il Collega X, non sono per niente stupito da questa affermazione), “ma sai”, aggiunge, “c’è qualcosa in tutto questo che non mi appartiene. Durante la formazione che ho avuto finora, mi sono imbattuta in troppi divieti, mentre io, quando sono con i pazienti, mi sento spinta a fare cose che i miei maestri disapproverebbero. E poi il corporeo … non posso farne a meno”.
Mentre Sandra parla, a me torna in mente un’immagine: Freud seduto per terra con una paziente isterica.
C’è un passo del Diario Clinico (o è in una lettera indirizzata a Groddeck che l’ho letto?), in cui Ferenczi dice, più o meno testualmente: "una volta Freud era capace di rimanere molte ore seduto per terra ad ascoltare una paziente isterica. Adesso non più". Ma quante cose ha fatto Ferenczi sfidando le proibizioni? Quanto tempo passava con le pazienti più gravi? E che cosa è veramente accaduto nelle sedute di analisi reciproca? Di tutto questo abbiamo per lo più notizie imprecise. Ma da tutta questa somma di errori è scaturita un’eredità che non cessa ancora di fruttificare.
Quindi: che cosa della psicoanalisi continua a germogliare e che cosa è destinato a trasformarsi o a scomparire? Che cosa è scorza –per dirla con Abraham e Torok-, e che cosa nocciolo? Tutto ciò che è vivo si muove e si trasforma, e, da questo punto di vista l’enfasi sul rispetto dell’ortodossia è stata piuttosto la difesa di un oggetto morto, un cadavre éxquis, nascosto dietro una cortina d’interdizioni. Certo: la relazione, il transfert, il controtransfert sono beni preziosi e irrinunciabili. E anche il setting. Ma, del setting, che cosa è vitale e che cosa è rituale? Per quante volte potremo lasciar sprofondare il paziente in nome della nostra fede nei Comandamenti?
Mentre Sandra parla, questi pensieri tornano per la centesima volta ad affollare la mia mente.
E mi rivedo, giovanotto, tentare inutilmente di affogare i miei dubbi come gattini ciechi. Anche allora avevo intravisto (proprio come oggi fa la coraggiosa Sandra) la via della “mia” verità, in mezzo a una nebbia non illuminata da alcun Maestro. E fu proprio quella solitudine a spaventarmi, togliendomi il coraggio di guardare fino in fondo a quegli interrogativi come a fili da dipanare.
“Perché si interessa di queste cose?” mi fu chiesto. Era la risposta a una mia domanda semplice semplice: quale differenza c’è fra l’analisi personale e l’analisi didattica? perché l’analisi del futuro analista deve necessariamente essere condotta da un didatta? Non basta un analista “autentico”, o “sincero”? Magari “capace”? O addirittura “simpatico” al suo paziente?
Queste domande furono giudicate in vario modo: nevrosi, inautenticità, eccessiva ambivalenza, voglia di barare, incapacità di stare al gioco, e qualcuno si prese persino la briga di citarmi un articolo di Eugenio Gaddini, nel quale si parlava dell’”impostore”, colui cioè che imbroglia le carte per diventare analista, dissimulando i propri conflitti per raggiungere una posizione professionalmente e socialmente prestigiosa. Non fui in grado allora, di spiegare ai miei illustri interlocutori che ciò che volevo era semplicemente la “verità”. E soltanto molti anni più tardi mi resi conto che quelle domande rimaste senza risposta conducevano molto lontano, sulle vie della scoperta di una degenerazione clericale che aveva imbrigliato la psicoanalisi e che rischiava di soffocarla.
Bisognava puntare alla libertà di pensiero, un bene non proprio estraneo alla psicoanalisi. Un bene per il quale vale la pena di spendere la vita. E libertà di pensiero significa anche libertà di ricercare, con tutti i rischi che ne conseguono. Perché l’errore, in fondo, è umano, mentre la scomunica è del Maligno.

2 commenti:

  1. Bravo Gianni! “Tutto ciò che è vivo si muove e si trasforma” Questo mi sembra il nocciolo di tante questioni, anche inerenti all’architettura, in cui spesso non ci si rende conto di uccidere ciò che si vuole conservare.
    Cito Baricco sul cambiamento da “I Barbari”: …Detto in termini elementari credo che si tratti di essere capaci di decidere cosa del mondo vecchio vogliamo portare fino al mondo nuovo, cosa vogliamo che si mantenga intatto pur nell’incertezza di un viaggio che è oscuro: i legami che non vogliamo spezzare, le radici che non vogliamo perdere, le parole che vorremo sempre pronunciare e le idee che non vogliamo smettere di pensare. E’ un lavoro raffinato, una cura: nella grande corrente mettere in salvo ciò che ci è caro. E’ un gesto difficile perché non significa mettere in salvo dalla mutazione ma nella mutazione perché ciò che si salverà non sarà mai quello che abbiamo tenuto al riparo dai tempi ma ciò che abbiamo lasciato mutare perché ridiventasse sé stesso in un tempo nuovo.” Noi stessi in primis.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Cara Clelia,
      grazie del tuo commento, come al solito bello e acuto. Credo che il dramma di ciò che dobbiamo o possiamo buttar via (Lucy si lamenta sempre della mia incapacità di gettare persino le cartacce inservibili) abbia a che fare con la nostra finitezza, con il fatto che il mondo, presto o tardi, mostrerà di poter fare a meno della maggior parte del nostro essere individuale.
      Se la Psicoanalisi, nella sua storia ultracentenaria, ha visto soffocare i suoi semi libertari ed eversivi più importanti sotto una coltre di conformismo e di autoritarismo che l'ha presto costretta a trasformarsi in una Chiesa, ciò è stato anche perché Freud doveva morire. La psicoanalisi è stata troppo a lungo la disciplina scientifica di un uomo solo, che difficilmente avrebbe ammesso il ricambio e che era allo stesso tempo angosciato da una grave malattia tumorale che lo avrebbe accompagnato, fra atroci sofferenze, per ben diciassette anni.
      Ma Freud era un genio, e il suo dolore e la pretesa di essere insostituibile furono in parte temperati dalla consapevolezza del grande lascito intellettuale e scientifico che avrebbe consegnato ai posteri.
      Noi siamo gente comune, e a noi è dato produrre pensieri perché qualcun altro possa pensarli, ricordarli, o magari esserne aiutato a vivere. E' l'unica immortalità che ci è concessa.

      Elimina