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domenica 2 dicembre 2012

ANALISTI FERENCZIANI


In un breve lasso di tempo, ben due Colleghi mi hanno chiesto informazioni relative alla possibilità di reperire un analista "ferencziano".
La richiesta mi ha un po' spiazzato perché, a parte la possibilità di offrire nominativi "classici" di personalità scientifiche che più a lungo di altri hanno riflettuto e scritto sull'opera, la vita e lo stile di Ferenczi imparando a mutuare criticamente da lui la loro prassi clinica quotidiana (in Italia: Franco Borgogno e Carlo Bonomi), non saprei proprio che cosa rispondere.
Se ripercorro l'elenco dei soci dell'Associazione Culturale Sàndor Ferenczi, trovo decine di nomi di colleghi che hanno esperienza, capacità, competenza, empatia, originalità e autonomia di pensiero. Ma di nessuno di loro potrei dire che è "ferencziano", così come non posso dirlo di me stesso.
Perché io non so che cosa significhi essere ferencziano: anzi, l'unica cosa di cui sono certo è che ciò non potrebbe mai significare appartenenza a un gruppo definibile come tale.
L'Associazione di cui faccio parte si ispira al nome e all'opera di Ferenczi e partecipa a un network internazionale in cui professionisti di vari Paesi condividono il piacere e l'interesse scientifico per l'opera di Ferenczi e per la sua storia personale, indissolubilmente intrecciata con la storia della psicoanalisi di cui sono accaniti studiosi, e si riuniscono ogni tre anni in varie parti del mondo per riflettere assieme sui temi a loro cari.
Le associazioni culturali simili alla nostra (ve ne sono, in numero crescente, in varie nazioni) non sono per nulla definibili come società psicoanalitiche nel senso proprio del termine. Una società psicoanalitica di stampo tradizionale, in qualsiasi orientamento e compagine internazionale essa si riconosca, ha caratteristiche ben precise, disponendo innanzitutto di  un Istituto di training che forma allievi ai quali conferisce la qualifica di psicoanalista come risultato di tale formazione, e, in genere, è composta soltanto di soci formati al proprio interno.
L'Associazione Culturale Sàndor Ferenczi ad esempio, non è nulla di tutto questo: promuove incroci di saperi diversi, fa circolare le idee, non fornisce diplomi o qualifiche , né decreta appartenenze. È nata e continuerà a essere, orgogliosamente, un luogo trasversale e aperto a chiunque condivida le stesse finalità, inclusivo e soprattutto scientificamente laico, nel senso più ampio che a tale termine si può conferire.

Ma allora, ci si potrebbe chiedere, quali caratteristiche dovrebbero avere psicoanalisti o psicoterapeuti che abbiano scelto l'opera di Sàndor Ferenczi come fonte principale di ispirazione?

Cercherò di rispondere, senza l'ambizione di scrivere un "manifesto" (non ne avrei l'autorità, né la necessaria statura scientifica), ma provando a tracciare una mappa aperta e suscettibile di ogni sorta di integrazioni e modifiche, alle quali solleciterei chi mi legge a contribuire. Elencherò quindi alcune caratteristiche così da delineare un profilo.

1) Innanzitutto, il bipersonalismo. È l'idea che nella situazione analitica non entra soltanto l'inconscio del paziente ma anche quello dell'analista. Anche l'inconscio dell'analista deve essere analizzato in primo luogo dal terapeuta stesso, che dovrebbe essere in grado di accogliere con onestà autocritica le eventuali intuizioni "controtransferali" del paziente, riconoscendole e ammettendone con lui la fondatezza. Un comportamento opposto avrebbe come conseguenza la repressione della capacità intuitiva del paziente che sarebbe spinto, come sostiene Ferenczi nel Diario Clinico, a "essere offeso per la mancanza o scarsità di interesse"; a "cercare la causa della mancata reazione in se stesso, nella qualità della sua comunicazione" e, ciò che è più grave, "a dubitare della realtà del contenuto" dei propri pensieri (Diario Clinico, 7 Gennaio 1932, "L'insensibilità dell'analista").
2) In secondo luogo un'attenzione precisa e non occasionale agli eventi storici della vita del paziente e al loro manifestarsi all'interno delle produzioni inconsce. In particolare alle esperienze traumatiche e al loro potenziale "estrattivo" (il termine è di Borgogno) e distruttivo delle passioni vitali e delle pulsioni autoconservative dell'individuo.
3) Poi, una declinazione della tecnica e dell'atteggiamento emotivo che includa lo stile materno nel lavoro clinico, non disdegnando di aiutare il paziente a vivere un'"esperienza emozionale correttiva" che, depurata di qualsiasi atteggiamento pedagogico e saldamente sostenuta dalla capacità di utilizzare la rêverie di entrambi gli interlocutori, consenta la ripetizione degli affetti mobilitati nella precedente relazione traumatica in un contesto questa volta protettivo, per un "nuovo inizio" (secondo la nota definizione di Michael Balint).
4) La disposizione a sostenere un alto grado di mutualità nella relazione terapeutica, mantenendo come punto fermo l'asimmetria della stessa.
5) Lo studio critico e spassionato della storia della psicoanalisi come fonte di riflessione sulla realtà naturalmente e vitalmente conflittuale del pensiero psicoanalitico e delle vicende del suo  sviluppo, nella serena convinzione che la psicoanalisi, come tutto ciò che è vivo, si muove e si trasforma incessantemente.
6) La tensione verso una condizione di autentica "laicità" della psicoanalisi (dove con l'aggettivo "laico" si intende non semplicemente "non medico", come nell'uso storicamente invalso, ma più correttamente "non clericale") nel rispetto della sua originaria ispirazione anti-idolatrica, attraverso la consapevolezza della necessità di superamento di qualsiasi forma di clericalismo e di idealizzazione dei Padri, che rischi di condurre a forme larvate di conformismo scientifico e di autoritarismo didattico.

Questi ed altri a venire (la discussione è aperta) i punti che potrebbero caratterizzare il profilo di un ipotetico o ideale analista che si ispiri alle idee di Ferenczi.

7 commenti:

  1. Analisti Ferencziani? Sarà perché influenzata dalle primarie del Centro Sinistra, sarà perché sto precipitando in una sindrome dissociativa, ma non riesco a liberarmi di un pensiero bicorne che mi tormenta. Da un lato penso che non abbia senso parlare di analisti Ferenziani dal momento che, e lo tocchiamo con mano, anzi con orecchio, ai convegni internazionali, sono in molti tra coloro che passeggiano dalle parti delle discipline "psi" a sentirsi figli di F. Un mondo variegato che va dall'intersoggettivismo all'ortodossia Freudiana pura. Ciò rende difficile una vera e propria affiliazione.
    È pur vero tuttavia che alcune caratteristiche, e non secondarie nel nostro lavoro, come l'empatia, il trauma, Orpha, danno una connotazione trasversale riconoscibile a chi pratica i territori Ferenziani. A ciò si aggiunga che sono sempre di più i professionisti che si interessano a F. Non solo; in alcune Scuole di Specializzazione vengono inserite letture F.
    Cercando di superare il mio pensiero bicorne, vorrei concludere dicendo che no, non ci sono analisti ferenziani, ma forse ci saranno e chissà che la riscoperta di un grande professionista che ha saputo pensare in proprio, non ci aiuti a mitigare le annose polemiche sulle differenze.
    Gilda

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  2. Da Stefania Veneto ricevo:

    Ciò che enfatizzerei è la capacità di un analista ferencziano di essere fondamentalmente coerente, in linea di principio, con quella che dovrebbe essere la definizione di "RELAZIONE di AIUTO" (dove, attenzione, sottolineo i termini RELAZIONE e AIUTO).
    Come si può pensare d'altronde di aiutare una persona, un paziente che non si ama? In ogni paziente credo occorra necessariamente trovare  qualcosa che ce lo faccia amare, quella "conditio sine qua non" per riuscire effettivamente a curarlo e qui io inserisco anche una definizione molto bella che tempo fa ho trovato di cura:

    
[cù-ra] dal latino: [cura] derivato dalla radice [ku-/kav-] osservare. Da confrontare con il sanscrito [kavi] saggio.
    La cura è responsabilità. La responsabilità che segue l'osservazione. Che sia una terapia medica, una preoccupazione, o un accudire il progetto di una vita altrui, la cura è responsabilità.
In effetti sembra che sia il lato attivo, il paradigma dell’amore stesso - di un amore non fatuo, non impalpabile, ma concreto. Un amore che come diceva Gaber diventa "materia, terra, cosa".

    Lo stesso Ferenczi, infatti, credo intendesse proprio questo, quando, nella sua "elasticità della tecnica" ha fatto riferimento al tanto rivoluzionario, per quei tempi, coinvolgimento intersoggettivo tra analista e paziente … all'autodisvelamento dello stesso analista … e all'importanza e all'utilità dei suoi sentimenti, inclusi quelli appassionati, che inevitabilmente proverà in una relazione interpersonale, visto che di relazione interpersonale si parla, e in un contesto comunque di reciprocità che seppur a fatica si sta cercando di costruire ...
    Un abbandonarsi dell'analista a un profondo coinvolgimento emotivo con il paziente che non credo proprio Ferenczi paragonasse a quello tipico di due amanti impegnati in una relazione intima, ma un coinvolgimento consapevole e costruito nel tempo in una relazione che dovrà pur sempre e soltanto restare analitica, nella piena responsabilità dell'analista di mantenerla tale.
E poi, in generale, ricordo che lo stesso Mitchell diceva … non è proprio questo lo sforzo che si chiede di fare a un paziente? quello di imparare ad amare ed odiare con abbandono...Quanto potrà essere traumatico e frustrante amare e odiare una persona che dimostra di non saperlo fare ???


    Questo secondo me resta il tratto più saliente di un tipico analista ferencziano … il suo non timore di mischiarsi con il paziente … la sua potenziale dedizione e capacità di "sentire con" il paziente … e quel suo lasciarsi andare senza troppe congetture o ipocrisie: il resto è tutta teoria sul trauma che solo un ferencziano doc può abbracciare.

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  3. Nel menzionare il discorso sulla relazione di aiuto, quel che tenevo evidentemente a sottolineare era la coerenza tra l'approccio bipersonalista ferencziano e il concetto di "relazione" e poi quella tra l'atteggiamento emotivo presumibilmente sostenuto da un analista ferencziano e il concetto di "aiuto", inteso come atto d'amore.
    Solo stamattina, però, a mente fresca, mi rendo conto di aver saltato tra le prime righe questo passaggio fondamentale per la comprensione della mia introduzione sull'amore per un paziente...mi scuso con il lettore.

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  4. Io conosco due analisti che possono essere definiti ferencziani, in quanto lavorano e scrivono utilizzando questo tipo di attitudine analitica, dal trattamento preparatorio ad Orpha...

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  5. In che modo si esprime questa asimmetria?
    "Stile materno" mi sembra forte come declinazione, cosa intende?
    Grazie

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    1. Per quanto bipersonale, ogni relazione analitica deve necessariamente essere asimmetrica, così come lo è la relazione madre-bambino. Sullo "stile materno" il discorso sarebbe lungo: procede dal lavoro "Prospettive di sviluppo della psicoanalisi", che Ferenczi scrisse nel 1924, a quattro mani con Otto Rank. Di quest'ultimo lavoro, la parte attribuita a Ferenczi è riportata nel terzo volume delle Opere Complete, edite da Cortina. In merito suggerisco anche la lettura di altri due saggi, entrambi contenuti nel volume curato da Carlo Bonomi e Franco Borgogno "La Catastrofe e i Suoi Simboli" (UTET, 2001): "Lo stile materno" di Glauco Carloni, e "Gli «Entwiklungsziele der Psychoanalyse»: una svolta cruciale nella storia dell'interazione fra teoria e tecnica in psicoanalisi", di Anna Maria Accerboni Pavanello

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