Perché Wiesbaden 1932


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giovedì 30 agosto 2012

SALVARE LA VITA

"Ci sono due modi di affrontare la morte, diceva Schopenhauer: il modo della ragione e il modo dell’illusione e della religione, con la sua speranza della persistenza della consapevolezza e di un’accogliente vita dopo la morte. Per cui il fatto e la paura della morte sono il progenitore del pensiero profondo e la madre tanto della filosofia che della religione” (Irvin  Yalom, La Cura Schopenhauer, Neri Pozza editore, pag. 451).

Qualche giorno fa Matilde, avendo notato che il libro era sul mio tavolo da un po' di tempo, mi ha chiesto se non lo avessi ancora terminato. “Non ancora", ho risposto. "Dal momento che alla fine del romanzo lo psicoanalista muore, voglio leggerlo lentamente".

Poche pagine più avanti, in un momento in cui ero particolarmente immerso nella lettura,  mi sono imbattuto in un passaggio che sembrava fare da specchio ai miei pensieri: “Vedere la fine ci porta sempre a rallentare il passo. I lettori sfrecciano rapidamente attraverso le mille pagine dei Fratelli Karamazov fino a quando non ne rimangono che una dozzina, e allora all’improvviso diminuiscono la velocità di lettura, assaporando ogni paragrafo lentamente, succhiando il nettare da ciascuna frase, da ciascuna parola” (ibid., pag. 375).

Ma c’era di più. Per tutto il tempo della lettura avevo accarezzato la speranza, neppure troppo inconsapevole, di un happy end: alla fine Julius, lo psicoanalista ammalato di una grave forma di cancro, non sarebbe morto. E magari sarebbe stata proprio una magia psicoanalitica a guarirlo silenziosamente. In fondo -mi sono ripetuto spesso- se si sospetta che il cancro possa essere scatenato da ragioni emotive, potrebbe anche accadere che la soluzione di conflitti lo guarisca. Ma anche se non ho mai dato molto credito a questa fantasia, di tanto in tanto essa si ripresenta. 
In ogni modo, pochi giorni prima dell’ultima seduta prevista e dello scioglimento definitivo del gruppo, Julius improvvisamente si aggrava e muore. Il lavoro terapeutico è concluso, i suoi membri sono cambiati in misura fino a poco tempo prima imprevedibile, e persino l’analista, poco prima di morire, mette a fuoco la propria trasformazione: è cambiato anche lui, come è giusto che accada in ogni analisi ben riuscita. Pochi anni prima, un suo paziente gravemente ammalato che egli aveva curato fino alla fine, negli ultimi istanti gli aveva detto: “grazie per avermi salvato la vita”. Leggere quella frase mi ha colpito: penso a quante volte usiamo l'espressione "salvare la vita" come sinonimo dell'allontanare la morte. Ma una vita salvata è molto di più: in alcuni casi, addirittura, il problema è quello di salvare vite già vissute, fornendo loro, anche retrospettivamente, un senso.
Invece noi ci preoccupiamo soltanto di scansare la morte, come se il lutto anticipato per la scomparsa della coscienza fosse tutto e soltanto ciò che importa. Qualcuno ha scritto che la prospettiva della gioventù è quella di un futuro che si perde a vista d'occhio, mentre nella vecchiaia il tempo trascorso ci sembra sempre incredibilmente breve: la durata, ecco ciò che ci preoccupa maggiormente. La durata a scapito della qualità.
Così, con la vita salvata dalla psicoterapia vissuta dalla parte di chi cura, Julius muore.  Mentre ancora sto indugiando con gli occhi sulle scene finali del romanzo, anche il mio ostinato desiderio che la morte si allontani mi appare tutt'a un tratto estraneo e bizzarro, e la  fine un fatto assolutamente normale e persino necessario, come l'ultima pagina d'un libro. Mi vedo seduto in un cinema, mentre assisto alla scena finale di un film che mi ha coinvolto moltissimo, e perciò decido di non alzarmi, voglio che ci sia un terzo e un quarto e un quinto tempo. Ma no invece:  d'un tratto tutto questo mi appare spiacevole, noioso, addirittura soffocante: io devo -anzi voglio- alzarmi e andar via. Il film mi ha saziato e insistere ulteriormente sarebbe un'insensata e tormentosa bulimia. E' ora di uscire.

10 commenti:

  1. ALTRA VISIONE
    Nella sala di questo cinema mi sono seduta anch'io. Entrata, già sapendo come sarebbe andata a finire, non solo non mi sono alzata fino all'ultima immagine ma l'ho addirittura inseguita, raggiunta e ingoiata.
    Non mi è andata di traverso, anzi, spero di trovare il tempo per potermi sedere di nuovo in prima fila e riguardare il film.
    Sono sicura che ci siano dei contenuti speciali che mi sono sfuggiti e
    appena li scopro aggiungerò un commento a questo pensiero veloce...
    Ho conosciuto un grande pediatra che nella sua lunga carriera, ha salvato vite che stavano solo iniziando. Poi è arrivata la malattia del figlio che lui non è stato in grado di curare.
    Prima che arrivasse quel lutto, però, ne sono certa, lui si era sentito immortale e credo avesse ragione.
    I medici possono, dovrebbero, non avere figli unici.

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  2. Siamo preparati a perdere i genitori, non i figli. Di questo argomento potrei parlare a lungo, ma non voglio farlo a occhi chiusi. Il rivedere il film della vita può essere l'occasione che la rende nostra. Grazie di leggermi.

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  3. Ricordo ancora che, quando lessi che Julius era morto, ebbi la sensazione di una sferzata, qualcosa che mi attendevo da un momento all'altro, come un clic che certo anch'io avrei preferito poter rimandare ma che doveva infine arrivare, un clic che definisce, posiziona, offrendo il suo senso. Credo che per me sia stato un momento estetico bellissimo, pienamente incastonato nella realtà, tanto più apprezzabile in quanto ha una fine. "Se tutti i giorni fosse vacanza, la vita non sarebbe altro che tedio e noia" scriveva Shakespeare. Ma non voglio dilungarmi in cose consuete e note a tutti. Mi piace invece gettare un dardo sul discorso psicoanalisi-psicoterapia. Quante volte la pretesa di "curare" ci allontana dal discorso forte della psicoanalisi, quello che concerne la sua vicinanza alla condizione umana sia nel suo contesto sociale e storico, sia in quello del tutto universale alla ricerca di un valore immanente nell'uomo e nella vita, con un discorso che accompagni nel percorso verso la fine inevitabile senza offrire modelli più o meno ben accetti alla morale comune, come farebbe un qualsiasi maestro di vita, come un prete o un maestro di yoga. Per accettare la morte bisogna essere in contatto con se stessi e con la vita, è certo, è l'appropriarsene che rimane un mistero, anche perché non può essere omologabile, dunque nessun manuale!
    Scusa, mi sono lasciata trasportare dalle sollecitazioni. Insomma, si, che bello poter dire "E' ora di andar via!", quando siamo soddisfatti e sazi. Sazi dei nostri giorni, appunto.

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  4. Grazie, Anna, per il tuo bel commento pieno di lucidità, speranza e gioia di vivere. Grazie di cuore.

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  5. SALVARE LA VITA
    Come ripeteva spesso Julius durante gli incontri con il suo gruppo, non smetto mai di domandarmi:"Perchè proprio adesso?"
    E in questa circostanza aggiungo: "Perchè proprio adesso la mia vita incontra i romanzi di Irvin?"
    Molte risposte le trovo in questo blog, altre escono dalla trama del libro e mi assicuro di non perderle di vista grazie alle tante pagine sottolineate che hanno fatto accorciare più del solito la matita della quale, questa volta, non ho potuto fare proprio a meno.

    Qui ne voglio trascrivere solo una che, non a caso, non riguarda la morte di Julius.

    Da Irvin Yalom, La Cura Schopenhauer pag. 440-441

    "Questa è la domanda, Philip, c'è una possibilità che i tuoi metodi siano ora obsoleti?...
    "L'altro giorno" continuò Julius," mentre mi stavo chiedendo come farti capire questo punto mi è venuta in mente un'immagine. L'immagine di una città antica che aveva costruito un alto muro per proteggersi dai torrenti selvaggi di un fiume adiacente
    Secoli più tardi, anche se il fiume si era prosciugato da molto tempo, la città continuava a investire notevoli risorse per mantenere il muro"
    [...]
    "Direi" aggiunse Tony " che Schopenhauer ti ha curato, ma adesso hai bisogno di essere salvato dalla cura Schopenhauer"

    Molte pagine più avanti ho pianto le stesse lacrime di Philip , con lui sono corsa fuori dalla stanza per poi rientrarci, accompagnata da Julius e dal suo braccio intorno alle mie spalle.


    P.

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    1. Se non ho male inteso il senso del suo appassionato commento, Le auguro di trovare attorno a sé la medesima passione di vita incontrata da Philip, quella che gli ha permesso di rientrare in contatto con le proprie emozioni.

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    2. Eravamo in tre.
      Io ascoltavo.
      P stava chiedendo a G., amico comune da tempo, come si sarebbe comportato sapendo che lei aveva pochi mesi di vita. "Che domande fai? P., non sarai per caso davvero malata?" " No, tranquillo. Non ancora" "Allora ti rispondo che non so esattamente come reagirei, ma immagino che darei fondo a tutto l'affetto che ho per te, pur di trovare il modo per aiutarti. Ti starei vicino giorno e notte se fosse necessario e, ovviamente, se tu me lo chiedessi" "Quindi saresti diverso da adesso? La tua disponibilità nei miei confronti cambierebbe? Aumenterebbe? Fammi capire: quindi ci sono in te dosi di affetto e di energie di riserva, pronte per chi non ha più un futuro e che sarebbero maggiori, o comunque diverse, rispetto alla condizione normale, quella condizione in cui ci sono ancora prospettive di cambiamento? Allora senti G., mettiamoci d'accordo prima. Se dovessi dirti che sto per morire non cambiare per questo. Non è per niente un buon motivo. Anzi mi sembrerebbe sleale se mi stringessi più forte di come fai ora solo perché hai davanti la mia fine. Mi faresti molto, ma davvero molto incazzare. E morire incazzati non fa bene. Ah, ah!" "Ma P, perchè mi stai facendo questi discorsi? Non mi stai mentendo... Stai bene." "Ma sì, si, sto benone. E' che avrei bisogno, ora, di tutto quello che puoi darmi, che tutti possono darmi, sapendo che è il massimo possibile".
      A quel punto avrei voluto intervenire anch'io. Era il momento giusto per dire : "La morte è impossibilità di ulteriori possibilità" . Una citazione di Heidegger drammaticamente perfetta...
      Invece sono rimasta in silenzio. E so perché.
      Da P., ora con la testa tra le mani, temevo di sentirmi rispondere che pensava la stessa cosa della vita.

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    3. Cara Maddalena, ascolta il parere dello psichiatra: se P. pensa della vita ciò che Heidegger pensava della morte, è necessario che G. le dia ora molto di più di quello che potrebbe darle a pochi mesi dalla fine. La vita offre un mucchio di possibilità. Dille di riguardarsi.

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