Perché Wiesbaden 1932


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venerdì 6 gennaio 2012

DELLA STESSA SOSTANZA DI CUI SONO FATTI I SOGNI (*)

Per molto tempo, da paziente come da psicoterapeuta, ho coltivato dubbi circa l'obiettività dell’interpretazione psicoanalitica dei sogni: al massimo -mi dicevo- ogni interpretazione è una specie di stampo  al quale il paziente può adattarsi: abbastanza per riconquistare la serenità, troppo poco per guadagnare la libertà. Ma quei dubbi, mi accorgo ora, avrebbero avuto ragione di esistere soltanto se si potesse dare il caso di relazioni che non influenzano: l’antica pretesa della psicoanalisi classica di muoversi entro un campo sterile, la mitica “neutralità” dell’analista-specchio che faccia dimenticare l'antica filiazione dall'ipnosi.
Poi quell’immagine idealizzata si è infranta, e l’analista si è ricordato di essere un individuo dotato di inconscio, di aree cieche, di nuclei nevrotici che rimangono irrisolti anche dopo la più approfondita delle analisi didattiche. Ma quegli aspetti irrazionali, quelle straordinarie rassomiglianze con ogni paziente, non sono una condanna, ma una risorsa che, se debitamente usata, può mutarsi in straordinaria ricchezza.
Scrive Franco Borgogno che “i sogni catturano le realtà interpsichiche che emergono dall’incontro fra analista e paziente e che fungono da elemento promotore di ogni futura possibile articolazione, ma, che per giungere a essere passibili di effettiva significazione simbolica da parte del paziente, devono preventivamente essere vissuti, pensati e «sognati» dall’analista” (**).
Ciò che mi sembrava uno stampo da forno, è invece la rêverie con la quale l’analista impara a “sognare” il paziente (non importa se di giorno o di notte, in seduta o fuori di essa) per poter pensare l’impensabile. Siamo fatti della medesima sostanza di cui sono fatti i sogni, e solo sognandoci l'un l'altro possiamo imparare a conoscerci.

(*) “Noi siamo fatti della medesima sostanza di cui sono fatti i sogni, e la nostra vita breve è circondata dal sonno" (W. Shakespeare, La tempesta, atto IV scena I).

(**) F. Borgogno, La signorina che faceva hara-kiri e altri saggi, Torino, Bollati-Boringhieri 2011