Perché Wiesbaden 1932


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Detto ciò, benvenuti nel mio Blog, angolo per riflessioni da condividere con colleghi e amici selezionati.











giovedì 18 aprile 2013

LA SCRITTURA DELLA CLINICA

Ma chi l’ha stabilito che la scrittura creativa debba essere per forza appannaggio esclusivo di scrittori e poeti? Chi ha detto che scrivere è necessariamente un dono del Cielo, un talento naturale, e peggio per chi ne è sprovvisto, che dovrà in tal modo rassegnarsi a esprimere periodi ridondanti, frasi irrisolte, anacoluti e riflessioni adatte più a distrarre il lettore che a catturarne l’attenzione?
Io non sono di certo un letterato: ma considero ugualmente la scrittura un insostituibile strumento operativo indispensabile al mio lavoro (che di certo non è quello di scrivere), perché soltanto attraverso la scrittura è possibile scendere fra le pieghe dei propri ragionamenti oltre un certo livello di profondità, oltre la nebbia di certe fantasie, oltre la cortina fumogena dei pensieri immaturi, e soprattutto tra i frammenti delle intuizioni preconsce che nel contatto quotidiano con i pazienti ci giungono in forma pre-verbale o addirittura non-verbale, e quasi sempre al di sotto di una certa soglia di percezione.
Questo mi sforzo d’insegnare ai giovani che arrivano pieni di speranza, spavento e frustrazione, dopo le prime esperienze cliniche in cui hanno ascoltato famelici il sogno di un paziente nell'improbabile desiderio di impadronirsi un Traduttore dei Sogni che consenta loro di decifrare immediatamente un linguaggio oscuro in una divinazione a chiave, in un algoritmo in grado di  “cracckare” la barriera dell’inconscio. E la delusione più grande e più utile è la scoperta che quel Traduttore semplicemente non esiste: non è neppure la freudiana Traumdeutung, troppo spesso confusa da giovani e volenterosi kamikaze con  la Smorfia napoletana.
Scrivendo queste ultime righe, mi accorgo di aver barato: no, quelli che ho appena descritto non sono gli allievi che vengono a fare il loro tirocinio nei nostri servizi: “quelli” sono io, trent’anni fa. Io che mi ritrovo oggi, nel momento in cui inizio il dialogo con i tirocinanti in supervisione, a proseguire, non di rado polemicamente, quello iniziato tanto tempo fa con i Maestri.
Ai miei allievi (ma dovrei dire, vista la prevalenza di genere: “alle mie allieve”) io raccomando sempre di scrivere. E sovente sono stupite e quasi sempre imbarazzate quando mi attardo a guardare i loro scritti con gli occhi di un insegnante d’Italiano.
“Ma perché lo fai? Ti diverti a massacrarmi la tesi?” mi chiede la dottoressa Domitilla A., specializzanda dell’ultimo anno. “No”, rispondo. “Sto semplicemente defoliandola di tutto il superfluo, di tutte queste erbe infestanti che ti impediscono di veder chiaro fra i tuoi pensieri”.
“Ma non mi hai detto niente dei contenuti!”, insiste delusa. “Stai semplicemente inseguendo la proprietà di linguaggio, il rispetto delle consecutio, e soprattutto tagli via un mucchio di subordinate. Mi fai venire in mente mia madre: ma almeno lei è una professoressa di lettere, mentre tu sei un medico!”.
Apparentemente, Domitilla ha ragione: e per difendermi dalle sue lamentele, eccomi qui a scrivere anch’io, proprio per trovare le parole adatte a esprimere pensieri che non sento ancora giunti a completa maturazione verbale.
La scrittura di Domitilla è disarmonica non perché lei, che ha fatto ottimi studi classici, non sappia scrivere; anzi. Il suo malfunzionamento letterario tradisce un’ansia da prestazione dovuta all’incombere del giudizio del relatore di tesi, ansia che può essere dominata solo da un’infinita pazienza. Il suo scritto è pesante, involuto e sospeso, perché dell’esperienza della relazione con l’Altro sofferente, le giunge una massa di input dei quali soltanto alcuni assumono una forma parlata. Per interpretare la realtà emotiva di chi ci sta di fronte occorre esercitare una particolare sensibilità che molti di noi possiedono senza saperlo, e che per poter usare devono scoprire. E’ la capacità di cogliere impressioni fuggevoli, flash improvvisi, sguardi, discorsi fatti a metà, lapsus, sensazioni che nemmeno noi, a una prima impressione, registriamo consapevolmente.
Per fare clinica occorre riguardare il materiale con un occhio distaccato e rivedere la scena –noi con il nostro paziente- una seconda e una terza volta, come se fossimo osservatori esterni; ed è proprio la scrittura a consentirci tutto questo. Ogni volta che un allievo psicoterapeuta scrive la seduta (spesso senza averne il tempo, quasi sempre con la preoccupazione di non ricordare abbastanza, e in ogni caso maledicendo il supervisore che pretende quella fatica), deve pensare che la sua supervisione inizierà al momento stesso della rilettura dello scritto, cioè molto prima di incontrare il Collega più anziano. E se lo scritto sarà destinato a qualche forma di pubblicazione (una tesina, la dissertazione finale, o un articolo per una rivista), sarà bene che l’allievo impari a lavorare sul testo, proponendosi un esercizio apparentemente semplice: togliere ogni parola superflua, senza rinunciare a un solo concetto. E’ un esercizio che ho appreso durante gli anni in cui collaboravo regolarmente con un quotidiano scrivendo “il parere dello psichiatra” ogni volta che questo era chiamato in causa da fatti di cronaca. Poiché i pezzi richiesti non dovevano mai superare le quaranta o al massimo le sessanta righe, stufo di vedermi tagliare, cominciai a usare il computer in modo tale da controllare sempre il numero esatto di battute che mi venivano richieste di volta in volta. Fu così che imparai a dimezzare gli articoli scrivendo esattamente le stesse cose espresse durante la prima stesura, e per di più fui anche piacevolmente sorpreso nel constatare che il tal modo la leggibilità ne guadagnava moltissimo.
Ora lo stesso metodo mi torna comodo quando scrivo i casi clinici dei quali mi restano memorie incomplete, aree oscure, pensieri che richiedono di essere nuovamente pensati. E’ un esercizio di cui non posso più fare a meno.

P.S.: Rileggendo questo Post, mi accorgo che è po' lungo e pieno di frasi che potevano essere risparmiate, ma è tardi, e sono un po’ stanco. Abbiate pazienza.
P.P.S.: Rileggendolo ancora il giorno dopo, vi ho persino trovato un grave errore di sintassi. Paola si lamenta che correggo sempre i miei post, ma bisogna sempre rileggere. Chissà se ne scoprirò altri.

giovedì 11 aprile 2013

VIA DELLA VERITA'

Sandra viene in supervisione con l’aria di chi deve confessarmi qualcosa. “Ho una notizia da darti. Ho finalmente scelto una scuola di psicoterapia. A Milano”.
“Direi che questa è una buona notizia”, commento.
“Aspetta a dirlo” aggiunge con imbarazzata ironia. “Quella che ho scelto non è propriamente una scuola psicoanalitica”.
Capisco che l’imbarazzo è dovuto al timore di una mia disapprovazione. Io, in realtà, non so nulla della scuola che Sandra dopo un po’ si decide a nominare, e so abbastanza poco anche della teoria che sottende l’indirizzo da lei scelto.
“Lo sai” mi dice, “io sono in analisi da tanto tempo e sono proprio contenta di aver scelto X come analista, perché mi ha sempre lasciato una libertà totale” (per quel poco che conosco il Collega X, non sono per niente stupito da questa affermazione), “ma sai”, aggiunge, “c’è qualcosa in tutto questo che non mi appartiene. Durante la formazione che ho avuto finora, mi sono imbattuta in troppi divieti, mentre io, quando sono con i pazienti, mi sento spinta a fare cose che i miei maestri disapproverebbero. E poi il corporeo … non posso farne a meno”.
Mentre Sandra parla, a me torna in mente un’immagine: Freud seduto per terra con una paziente isterica.
C’è un passo del Diario Clinico (o è in una lettera indirizzata a Groddeck che l’ho letto?), in cui Ferenczi dice, più o meno testualmente: "una volta Freud era capace di rimanere molte ore seduto per terra ad ascoltare una paziente isterica. Adesso non più". Ma quante cose ha fatto Ferenczi sfidando le proibizioni? Quanto tempo passava con le pazienti più gravi? E che cosa è veramente accaduto nelle sedute di analisi reciproca? Di tutto questo abbiamo per lo più notizie imprecise. Ma da tutta questa somma di errori è scaturita un’eredità che non cessa ancora di fruttificare.
Quindi: che cosa della psicoanalisi continua a germogliare e che cosa è destinato a trasformarsi o a scomparire? Che cosa è scorza –per dirla con Abraham e Torok-, e che cosa nocciolo? Tutto ciò che è vivo si muove e si trasforma, e, da questo punto di vista l’enfasi sul rispetto dell’ortodossia è stata piuttosto la difesa di un oggetto morto, un cadavre éxquis, nascosto dietro una cortina d’interdizioni. Certo: la relazione, il transfert, il controtransfert sono beni preziosi e irrinunciabili. E anche il setting. Ma, del setting, che cosa è vitale e che cosa è rituale? Per quante volte potremo lasciar sprofondare il paziente in nome della nostra fede nei Comandamenti?
Mentre Sandra parla, questi pensieri tornano per la centesima volta ad affollare la mia mente.
E mi rivedo, giovanotto, tentare inutilmente di affogare i miei dubbi come gattini ciechi. Anche allora avevo intravisto (proprio come oggi fa la coraggiosa Sandra) la via della “mia” verità, in mezzo a una nebbia non illuminata da alcun Maestro. E fu proprio quella solitudine a spaventarmi, togliendomi il coraggio di guardare fino in fondo a quegli interrogativi come a fili da dipanare.
“Perché si interessa di queste cose?” mi fu chiesto. Era la risposta a una mia domanda semplice semplice: quale differenza c’è fra l’analisi personale e l’analisi didattica? perché l’analisi del futuro analista deve necessariamente essere condotta da un didatta? Non basta un analista “autentico”, o “sincero”? Magari “capace”? O addirittura “simpatico” al suo paziente?
Queste domande furono giudicate in vario modo: nevrosi, inautenticità, eccessiva ambivalenza, voglia di barare, incapacità di stare al gioco, e qualcuno si prese persino la briga di citarmi un articolo di Eugenio Gaddini, nel quale si parlava dell’”impostore”, colui cioè che imbroglia le carte per diventare analista, dissimulando i propri conflitti per raggiungere una posizione professionalmente e socialmente prestigiosa. Non fui in grado allora, di spiegare ai miei illustri interlocutori che ciò che volevo era semplicemente la “verità”. E soltanto molti anni più tardi mi resi conto che quelle domande rimaste senza risposta conducevano molto lontano, sulle vie della scoperta di una degenerazione clericale che aveva imbrigliato la psicoanalisi e che rischiava di soffocarla.
Bisognava puntare alla libertà di pensiero, un bene non proprio estraneo alla psicoanalisi. Un bene per il quale vale la pena di spendere la vita. E libertà di pensiero significa anche libertà di ricercare, con tutti i rischi che ne conseguono. Perché l’errore, in fondo, è umano, mentre la scomunica è del Maligno.