Perché Wiesbaden 1932


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Detto ciò, benvenuti nel mio Blog, angolo per riflessioni da condividere con colleghi e amici selezionati.











mercoledì 28 settembre 2011

RISOGNANDO I SOGNI DI UN ALTRO

Quanta “verità” oggettiva ci può essere nell’interpretazione psicoanalitica di un sogno? Sarebbe facile, oltreché assolutamente onesto, rispondere: “nessuna”.
Ma il problema è se la psicoanalisi sia un’indagine paragonabile a un esame di laboratorio o a una radiografia, qualcosa che serva ad evidenziare ciò che non si vede ad occhio nudo, o piuttosto qualcosa che serve ad attribuire senso a ciò che, altrimenti, sarebbe destinato a rimanerne privo.
Un interlocutore non passivo avrebbe diritto di chiedere: “ma allora il senso e la giustezza di un’interpretazione sono arbìtri che gli psicoanalisti offrono ai pazienti come pezze calde, favole consolatorie buone a riempire le loro aree cieche e i loro buchi inquietanti solo per qualche ora e a caro prezzo? No, rispondo: non ci sono (o ci sono raramente) interpretazioni “giuste”, nel senso che rivelano una “verità” incontrovertibile. Ma ci sono interpretazioni corrette, e sono quelle che descrivono, come possono, qualcosa che potrebbe essere rappresentato in mille modi, ma che il paziente non sa narrarsi da sé, e che una volta ascoltatolo, riconosce, almeno emotivamente, come vero, come testimone attendibile del proprio malessere.

Nessun paziente è in grado di raccontare all’analista un sogno sognato una notte precedente tal quale è stato; il racconto narrato in analisi è piuttosto un “risogno” del sogno, un racconto filtrato da una memoria opaca e fluttuante, che può omettere, arricchire, o persino trasformare, stravolgendola, la trama apparsa alla coscienza durante il sonno.
Lo stesso vale per l’interpretazione fornita dall’analista: è un nuovo sogno, del “risogno” del sogno.
In quel caso, la “giustezza” dell’interpretazione non può essere rimandata a un codice “obiettivo”, né d’altronde può essere ammissibile un’interpretazione arbitraria, perché ciò destituirebbe di senso il tutto.
E può anche capitare che l’analista, dopo la seduta, ripercorra il sogno, o se lo scriva, o lo racconti a un supervisore, o a un gruppo paritetico di colleghi che ripensano, nel rispetto della privacy e del segreto, a ciò che i pazienti raccontano loro. E anche lungo queste successive narrazioni e trascrizioni, il sogno lieviterà, cambiando un poco di forma, e arricchendosi di senso.
Le interpretazioni, i commenti, le rimemorazioni delle nostre stesse esperienze sono punti di osservazione che guardano da posizioni diverse uno stesso oggetto, rivelandone particolari che prima erano nascosti. Ci raccontano la verità sommandosi fra di loro, e trasformandosi nel tempo, così come noi stessi, pazienti e analisti, ci trasformiamo incessantemente.

L'INQUIETUDINE DEI POTENTI

Stanotte ho sognato che Creso, il ricco per antonomasia, veniva a trovarmi per una consultazione nel mio orario di libera professione intramoenia, e io gli applicavo la normale tariffa concordata con la ASL, facendogli la ricevuta senza che lui me la chiedesse. E che dopo di ciò, aveva deciso di non tornare, non sentendosi riconosciuto da me come Creso, il ricco per antonomasia. Per onorarlo come si conviene, avrei dovuto chiedergli una cifra favolosa: in nero, naturalmente. Solo così il suo onore sarebbe stato salvo.

("Che cosa posso fare per te?" chiede Alessandro al filosofo cencioso. "Puoi spostarti un metro sulla destra, perché così mi fai ombra". "Chiedimi quello che vuoi!" incalza Alessandro disperato, ma quello non lo ascolta più).

NON SAPERE

Il paziente conosce di sé mille cose di più di quelle che l'analista sa di lui.
L'analista conosce del paziente mille cose di più di quelle che il supervisore ha capito.
Entrambi, paziente e analista, hanno bisogno di imparare a riconoscere ciò che già sanno.
(Consapevole della propria ignoranza, il supervisore si sforza di imparare dai propri pazienti e dai propri allievi).

domenica 18 settembre 2011

MEDICI E NO

"La conoscenza che ho di me stesso mi dice che in verità non sono mai stato propriamente un medico. Sono diventato medico essendo stato costretto a distogliermi dai miei originari propositi, e il trionfo della mia esistenza consiste nell'aver ritrovato, dopo una deviazione tortuosa e lunghissima, l'orientamento dei mie esordi".
Sigmund Freud, dal Poscritto (1927) a "Il problema dell'analisi condotta da non medici".

sabato 17 settembre 2011

EQUIVOCI

Poiché era convinto che la propria mancanza di libertà fosse causata da una sconfinata ignoranza, quando gli dissero che poteva ottenere una speciale conoscenza interiore ne fu affascinato. Ma era troppo avido per accontentarsi di così poco. Fu per questo che tentò di diventare uno dei dispensatori di tale conoscenza. E fu allora che qualcuno “dimenticò” di dirgli che per compiere tale passo ulteriore, bisognava uccidere la conoscenza e perdere la libertà. Quarant’anni dopo, si rese conto dell’equivoco: anche i maestri erano ciechi e ignoranti. Forse avrebbe potuto insospettirlo il fatto che la parola “libertà” da quelle parti si pronunciasse così raramente.

mercoledì 14 settembre 2011

RAME

Il mendicante gli restituì la moneta d'oro, scosse il capo e disse: "rame!"
(Elias Canetti, La Provincia dell'Uomo).

lunedì 12 settembre 2011

RÊVERIE-CAUCHEMAR

Se la rêverie materna è un’attività capace di nutrire il bambino fornendogli significazione, mi chiedo se, nel segno di un anti-accudimento materno, non si possa ipotizzare anche una rêverie-cauchemar, contrassegnata, specularmente alla rêverie pro-libidica, da caratteristiche di  trasformazione degli elementi beta in elementi persecutori, che non derivano tale persecutività soltanto dall’essere respinti, ma dall’essere incorporati dentro fantasie paranoidi materne e come tali reintroiettate.

(in parole semplici: la follia dei figli non deriva soltanto dal malaccoglimento e dal rifiuto, ma anche dall'esser stati fagocitati nella follia dei genitori).

venerdì 9 settembre 2011

TROVARE

"Trovare anche una sola spiegazione è meglio che possedere tutto l'impero persiano". (Democrito)

mercoledì 7 settembre 2011

CRIMINI E CRIMINI

Pare proprio che i confronti tra i vari Mali Assoluti che hanno imperversato nel secolo appena trascorso siano difficili e rischiosi: tuttavia credo che il primato del Nazismo sia difficile da scalzare. Mentre il Comunismo uccideva -intollerabile bestemmia- in nome dell'Uguaglianza tra gli uomini, il Nazismo uccideva per punire una "colpa" misteriosa e inafferrabile, come quella di cui è accusato Joseph K., nel Processo di Kafka. Forse, essere annientati (nel corpo, nell'anima o in entrambi) in nome del Nulla, è ancora la maledizione più terribile.

PINOCCHIO E L'OMINO DI BURRO


(pubblicato su Il Secolo XIX del 4 Novembre 2010)


No, scusate, ma così non ce la facciamo. Non possiamo competere. Con quelle ragazzine che in una notte guadagnano due mesi dello stipendio del privilegiato che scrive e tre o quattro di quello dell’assistente sociale, e nove o dieci o venti di quelli degli educatori che dovrebbero trascorrere le giornate con loro, noi non abbiamo  più alcuna voce in capitolo. Si ha un bel darsi da fare, da questo balcone affacciato sulla disperazione, sulla miseria dell’abbandono affettivo, degli abusi e delle violenze familiari, dei bambini la cui venuta al mondo non è stata gradita e che ora, una volta diventati dei non-adulti, si apprestano a ripetere lo stesso trattamento nei confronti dei loro figli nati ancora una volta per sbaglio; si ha un bel darsi da fare per tentare ciò che è già impossibile (restituire a chi non l’ha mai avuto un minimo di intimità familiare, un minimo di sicurezza, una base a cui ritornare precipitosamente quando i predatori che affollano la strada si fanno troppo vicini), quando offrire solidarietà e sostegno affettivo può sembrare una misera cosa per chi non ha avuto niente, immaginate che cosa succederà quando, per caso, incrociamo un diavolo minorenne che veste Prada e srotola sotto gli occhi luccicanti e umiliati delle compagne di stanza un rotolo di banconote per un totale di diecimila euro. Che cosa possiamo raccontare a queste ragazzine, cui basta una telefonata per trovare una limousine alla porta? A queste Cenerentole scappate dal libro di favole, che quel libro richiama prepotentemente, e non soltanto con i mezzi della seduzione ipnotica che proviene dal denaro, dalla fama e dai lussi smodati, ma da quell’ansia implicitamente minacciosa che fa accorrere persone che in apparenza non c’entrerebbero nulla, come se la loro sorte importasse davvero? Come se non ci fosse sotto quell’affaccendarsi di avvocati dalle parcelle favolose la sottile preoccupazione di chi ha forse troppo da nascondere?
Cosa ci resterà da fare, se neanche i giornalisti più indignati alla fin fine trascurano di sottolineare la considerazione più ovvia: che risparmiare alla Ruby di turno una notte in Questura e il ritorno in Comunità non è quel trattamento “di favore” cui non hanno diritto neppure le nipoti dei Potenti, ma l’esatto contrario: è la negazione del diritto di essere sottratta alla strada, alle sue escort, ai suoi sordidi avvocati di grido. Ancora una volta, Pinocchio è condotto via dall’Omino di Burro nel Paese dei Balocchi, sotto gli occhi annichiliti delle Istituzioni.

RACCONTARSELA


(pubblicato sul n. 2/2011 di MinoriGiustizia, rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, Franco Angeli Editore, Milano)

Alzarsi
Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finché suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:
“Wstawàc”:
E si spezzava in petto il cuore.
(…)

(da “Ad ora incerta” di Primo Levi, Garzanti)


La violenza contro le persone fragili ha un suo lato nascosto, un corollario insospettato, i cui effetti sono spesso più devastanti del trauma originario, perché si sottraggono all’indagine e alla sanzione: parlo di quelle “omissioni di soccorso” che possono provenire dal gruppo familiare, dall’istituzione sanitaria, dal servizio sociale, dall’autorità giudiziaria, o dall’agenzia educativa, il cui compito di riconoscere la violenza e di proteggere la vittima viene meno per sordità emotiva, odio inconfessato, superficialità, conformismo, trascuratezza, incapacità professionale, interesse, o paura.
Quando veniamo fatti oggetto di un’aggressione, di un affronto, di una ferita dell’anima che sentiamo come eccessiva, soverchiante, tale da renderci impotenti e quasi-morti, ciò di cui abbiamo immediato bisogno è un rapporto di condivisione. Ci occorre, nell’immediato, poter raccontare a qualcuno che sia capace di rimanere lì ad ascoltarci senza essere preso dal bisogno incontenibile di andarsene o di liquidare i nostri racconti come inverosimili e inventati, frutto di fraintendimento o, peggio, di un’evoluzione patologica delle nostre capacità di percepire e di pensare.
Quando patiamo un dolore che non può essere sopportato in solitudine, abbiamo bisogno di poterlo raccontare a qualcuno che ci accolga come una casa che spalanca le porte per offrirci accoglienza e protezione.
Ogni volta che da bambini ci siamo trovati in pericolo, abbiamo tutti sperimentato il desiderio di poter dire “mamma, lo sai che cosa mi è successo?”. E’ questa la prova dello scampato pericolo, il sentirsi “tornati a casa”, dove la minaccia che simbolicamente o realisticamente allude alla morte, è ormai lontana. Anche nel linguaggio adulto, noi frequentemente diciamo: “meno male che siamo qui a raccontarcela … se non fosse accaduto questo e questo, oggi non sarei qui a raccontarla …”.
Essere qui, a casa; l’imboccatura dell’inferno è lontana.
C’è un passo di “Se questo è un uomo” di Primo Levi che mi ha sempre colpito. E’ quando il protagonista, detenuto nel campo di sterminio, sogna di essere a casa sua, a Torino. Egli sale le scale, suona alla porta dell’appartamento abitato dai familiari. La porta viene aperta da sua sorella, che non lo vede: lo sguardo di lei gli passa attraverso come se fosse fatto d’aria. L’angoscia è troppo forte e il protagonista si sveglia.
Svegliarsi per far cessare un brutto sogno: quante volte lo abbiamo sperimentato! Quante volte nel mezzo di un incubo, abbiamo improvvisamente percepito di stare sognando e abbiamo fatto uno sforzo per svegliarci! “E’ soltanto un sogno”: gli occhi si aprono e la persecuzione è definitivamente lontana.
Svegliarsi.
Ma da quale angoscia ci si può voler risvegliare nella consapevolezza preconscia di riaprire gli occhi in una baracca gelata di Auschwitz-Birkenau? Fra poco sarà l’alba di un giorno che forse sarà l’ultimo; magari finirà subito, in una pozza di orina, sangue e orrore. Speriamo. Speriamo che almeno finisca. Non avere nessuno a cui raccontare.

Lo psicoanalista Leonard Shengold, nel suo famoso libro “Soul Murder” (Omicidio dell’Anima) scrive che quando ad aggredire sessualmente il bambino è la stessa persona che dovrebbe proteggerlo, la vittima è costretta a “scindere” la figura dell’aggressore in due parti, una buona e una cattiva. Se ad abusare di me è mio padre io sarò costretto a rapportarmi a lui tanto come a un aggressore quanto come a un difensore. Alla scissione dell’oggetto, cioè della figura dell’aggressore, segue sempre la scissione dell’Io del bambino, che spesso non potrà mai più ricomporsi. Non di rado gli aggressori accettano di impersonare tale duplice ruolo, diventando a loro volta i consolatori delle vittime delle loro stesse violenze, in un gioco circolare la cui perversità è la più solida garanzia del mantenimento del legame di sottomissione.
Questo perché tutti: aggressori, vittime, e anche chi non è né l’uno né l’altra, sappiamo bene quanto sia indispensabile “poterla raccontare”.

Quando i nostri operatori provvedono al compito di tutelare le vittime minorenni di abusi intrafamiliari, sono spesso risucchiati in avvilenti diatribe peritali e controperitali che sospingono loro e le madri denuncianti nella condizione psicologica di presunti colpevoli. Quelle a loro indirizzate non sono vere e proprie accuse: si tratta piuttosto di un clima neppure troppo sottilmente ostile, che chiede loro di giustificarsi su tutto, e che spesso li sospetta di essere professionalmente incapaci, o visionari, o fanatici persecutori che vedono incesti dappertutto, pronti ad allontanare i figli da genitori quasi per definizione innocenti. Il più delle volte, quando si denunciano le enormi sofferenze psicopatologiche di bambini gravemente traumatizzati ci si sente chiedere se per caso tali sofferenze non dipendano dalla lontananza forzata dal genitore accusato. In alcuni casi è persino capitato di sentire qualcuno che proclamava l’assoluta necessità di mantenere il legame tra un bambino e un genitore “sia pure gravemente colpevole”!. Come se essere padri fosse qualcosa che prescinde dall’amore, dalla relazione, dalla preoccupazione per i figli. Un mero attributo biologico, o una convenzione sociale.

Tali preoccupazioni che tendono a garantire gli adulti in misura sproporzionata rispetto a ciò che occorre fare per tutelare i bambini, non raramente sono fatti propri da tecnici, psicologi, psichiatri, periti. In questi casi il rapporto fra il bambino e il professionista è gravemente compromesso fin dall’inizio.
Quando si sospetta che un bambino subisca abusi nell’ambito familiare, per poterlo portare in salvo occorre ottenere da lui, senza influenzarlo, una rivelazione attendibile. E’ un lavoro estremamente difficile, soprattutto quando il bambino ha parzialmente o totalmente cancellato l’esperienza traumatica dalla propria memoria cosciente. Un prerequisito fondamentale per ottenere qualche risultato consiste nella capacità dell’operatore di instaurare una relazione di fiducia, pari o addirittura superiore a quella precedentemente instaurata con i genitori (che è spesso gravemente carente).
Se poi, per ragioni di procedura giudiziaria, il bambino dev’essere affidato in un secondo tempo ad un altro psicologo incaricato di perizia, se il nuovo operatore non è altrettanto accogliente, disposto a crederlo, e capace di empatia, ma freddo, diffidente o addirittura svalutante, o se cerca di falsificare le affermazioni del bambino facendo “l’avvocato del diavolo”, è facile che il bambino si senta non creduto, bugiardo e quindi implicitamente accusato di calunnia nei confronti dell’abusante (che frequentemente è un parente stretto) del quale in tal modo torna a sentire il potere intimidatorio e capace di confondere.
Sotto la spinta inconsapevole di un operatore incaricato di tutelarlo, il bambino è così ricacciato in quell’atmosfera psicologica nella quale viveva in uno stato di “adattamento” alla relazione traumatica (subire tacendo, assecondare gli abusi per evitare spaventi peggiori, “farsi piacere” la violenza, come accade nella “sindrome di Stoccolma”). Ora, di fronte a un trattamento peritale che gli ricorda quel clima, il bambino si sentirà spinto ad adattarsi nuovamente al trauma, ritrattando le rivelazioni precedenti, negando e difendendo l’aggressore, nella convinzione che il primo psicologo lo abbia sadicamente ingannato, che lo abbia “fatto parlare” per riconsegnarlo all’aguzzino.
Questo accade quando la violenza non viene riconosciuta: all’abuso segue un riabuso di cui questa volta hanno responsabilità le Istituzioni, un’esperienza dalle conseguenze ancor più devastanti, perché difficilmente la vittima ritroverà la propria fiducia in una terza prova d’appello. A volte il nostro compito è anche quello di riabilitare, agli occhi dei bambini, il mondo adulto, barbaro e crudele.


IL NOSTRO COMPITO

Abbiamo il compito di produrre pensieri che servano a qualcun altro per vivere, e a noi per non morire del tutto nella memoria di pochi. E' l'unica immortalità cui possiamo realisticamente aspirare.

martedì 6 settembre 2011

ESSERE GENERAZIONE

Tutti noi siamo soggetti alla generazione: apparteniamo alla nostra, ci portiamo addosso l'eredità di coloro che ci hanno preceduto, prepariamo quelle che ci seguono e quelle che verranno.
La nostra vita individuale ha poco senso  se è chiusa in se stessa. Il nostro andare a maturazione e a compimento ha la necessità di generare figli, in senso proprio e/o in senso traslato. Dobbiamo in ogni caso diventare genitori: di noi stessi, dei nostri figli, di altri e di altro. Dobbiamo in ogni caso diventare educatori, consegnare il nostro lascito nelle mani di chi ci segue affinché lo faccia proprio, lo mantenga in vita per quello che vale di positivo, e lo trasformi.
Ciò dovrebbe accadere nella consapevolezza che ciò che tramandiamo non è necessariamente positivo; la trasmissione è quindi anche una grande responsabilità morale.
Anche i gruppi e le organizzazioni che si fondano su un'identità, un progetto e una missione devono includere la trasmissione dell'esperienza. Senza di essa, la creatività individuale, sociale, gruppale, politica o di impresa è vuota, e non lascia che scorie destinate a diventare materia informe. Dove non c'è trasmissione, le generazioni successive devono continuamente ricominciare da zero. In realtà, devono cominciare da un numero negativo, perché, per raggiungere lo zero che sta in alto, occorre prima ripulire il terreno dai detriti non digeribili e nemmeno trasformabili ricevuti in dote dalle generazioni precedenti.