Perché Wiesbaden 1932


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Detto ciò, benvenuti nel mio Blog, angolo per riflessioni da condividere con colleghi e amici selezionati.











mercoledì 27 novembre 2013

ANALISTI TUTTOFARE

Qui finisce che devo fare tutto io. E già, perché i vecchi analisti la facevano facile: se uno non aveva i requisiti era considerato inanalizzabile, e via, pedalare. Invece poi é arrivato quel rompiballe di Ferenczi a scompigliare tutto: e prima con la tecnica attiva, poi con il rilassamento e la neocatarsi, le ha tentate tutte. E alla fine, quando non sapeva più cosa inventarsi, addirittura l'analisi reciproca. Eh, già, ci manca solo che ci facciamo analizzare dai nostri pazienti, e magari li paghiamo anche. E dopo? Peccato sia morto così giovane, avrei proprio voluto vedere che cos'altro si sarebbe inventato.
E poi non è che abbia risolto tanto: certi pazienti di coccio sono, e di coccio rimangono.
Prendete Matilde: sono mesi che non mi porta un sogno. Anzi: certe volte, neppure parla. E io lì, ad aspettare. Fortuna che non mi vede, cosī mentre lei sta lì, sdraiata nel suo sonno eterno, io gioco a Backgammon su Internet. E non si deve!, direbbe la Buonanima. Ma vorrei vedere lui a rompersi le palle così. E poi, lui ragionava all'antica: Matilde, se torna, non la devi prendere mai più. Così diceva. Ma io ho sempre fatto di testa mia. Lei tornava sempre. Magari stava qualche anno senza venire, e poi tornava. Così, ridendo e scherzando, sono passati trent'anni. E in trent'anni, hai voglia di tacere: qualcosa ti scappa per forza. Non sarò mica soltanto io a rompermi le palle. E poi, io sono fatto così: ho la smania di sapere che cosa c'è dietro. Perché se stai a sentire Bion, sembra che siamo noi (vabbè, nostra madre) a dare senso alle cose, come quella storia di Adamo, che il giorno dopo la faccenda della costola se ne andò in giro a dar i nomi alle cose. Ma i nomi non sono mica tutto: perché ogni cosa ha un suo perché. E poi, quel significato lí non è ancora il significato vero, è una specie di bollino che diamo alle cose e che ci serve per capirci fra noi. Ma le cose hanno un loro perché, un loro come sono arrivate lì, un loro come ci stanno, dove vanno, che cosa fanno e che cosa pensano. E perfino che cosa non sanno di pensare. Insomma, è impossibile che Matilde mentre sta lì che sembra una statua di Giacometti non pensi niente. Magari pensa a se stessa pensante, niente di più facile. E allora, delle due l'una: o me lo dice, o mi dice guardi non sono cazzi suoi. E va bene, ma allora perché vieni qui? E non mi dire scusi mi sono sbagliata (dopo trent'anni? Mi prendi per il culo?), che tu adesso non te ne vai di qui se non mi spieghi. Tutto, dall'a alla zeta. Tutto.
Mah. Sono anni che faccio questi ragionamenti, che m'incazzo, che facciamo la pace, che poi dopo un po' ricomincia. Chissà Ferenczi che cosa direbbe. Eppure oltre l'analisi reciproca (che poi non è detto che al paziente gliene freghi più di tanto di sapere gli affari tuoi. Che magari ha paura che tu abbia problemi seri, e allora che cosa fa?) non è che resti molto, perché dopo non c'è più niente. A meno che, più che l'analisi reciproca non decida di fare tutto io, di cantarmela e di suonarmela da solo. Sogno, mi sveglio e mi interpreto il sogno. E se lei non c'è peggio per lei. Io l'ho invitata, poi, se non viene!
Così, stanotte ho sognato di essere Matilde. Ero molto vecchia, avevo ottantasei anni. E come faccio da sessant'anni ogni mattina, anche oggi sono scesa nel garage. A guardarla. È sempre bella, anche se ormai dicono che è fuori moda. Ieri il meccanico mi ha detto che, a forza di non usarlo, il motore dev'essere un blocco di ruggine. La batteria l'avevo già tolta dieci anni fa, perché tanto, di non girare mai, era sempre scarica. E poi c'era pericolo che l'acido cominciasse a colare e corrodesse qualcosa. I quattro scappamenti, invece, li ho tenuti lucidi. La carrozzeria, ha perso quella brillantezza che aveva, ma è sempre rosso-fuoco. La mia Ferrari è proprio bella. Peccato non averla mai guidata. Anche se la patente ce l'ho dall'età di diciotto anni, e ho sempre guidato la mia vecchia cinquecento.
Che strano sogno. Se fosse ancora vivo, mi piacerebbe raccontarlo a lui. Che magari, con quella storia che un giorno gli avevo detto che quando leggevo le cose che scriveva mi sarebbe piaciuto averlo come analista (anche se era il mio analista, sia pure parcheggiato lì), direbbe che la Ferrari è lui. Era proprio un narcisista. Inguaribile.

lunedì 18 novembre 2013

INTRAPSICHICO E INTERPERSONALE

Fino agli anni ottanta, i concetti di "intrapsichico" e "interpersonale" furono considerati di diversa natura e quindi il loro impiego nell'ambito delle scienze umane fu posto in termini alternativi. 
Secondo il mainstream freudiano, egopsicologico e kleiniano, sia pure con diverse sfumature, soltanto l'inconscio individuale e monopersonale poteva essere oggetto di indagine e trattamento psicoanalitico, mentre tutto ciò che indulgeva allo studio delle relazioni fra gli individui (non escluse quelle precoci) doveva essere considerato come non pertinente alla psicoanalisi considerata "vera", e distinta dalle sue forme "eretiche", dette anche "selvagge", per tacere di discipline ad essa estranee come la sociologia e la pedagogia. Tutto ciò nell'illusione che l'oggetto di indagine scientifica, soprattutto in ambito di scienze dell'Uomo, potesse essere indagato obiettivamente, come "cosa in sé", senza essere influenzato dalla presenza dell'osservatore. 
A me che scrivo, ad esempio, accadde spesso di partecipare a seminari di baby observation, portando anche riferimenti allo stato mentale materno, e incontrando perciò una sorta di riprovazione per il fatto che tali rilievi "distraevano" dall'osservazione diretta del bambino. Ciò poteva accadere perché intrapsichico e interpersonale apparivano come concetti dal significato neppure parzialmente sovrapponibile e quindi irrimediabilmente alternativo. 
Con lo sviluppo delle declinazioni bipersonaliste della psicoanalisi intervenute sopratutto negli Stati Uniti a partire dagli anni novanta, il panorama cambiò parecchio e i due concetti furono considerati meno distanti non più soltanto nelle aree culturali definite "neofreudiane" che avevano maggiormente risentito dell'influsso interpersonalista di Harry Stack Sullivan e della sua scuola, ma in generale anche fra molti psicoanalisti scontenti dell'autoritarismo che aveva permeato la cultura psicoanalitica fino allora dominante, e in qualche caso, addirittura perché personalmente danneggiati da analisi didattiche troppo "ortodosse". 
Le radici di una diversa concezione dei legami fra l'Io e le sue relazioni è da ricercarsi, tra gli altri, in studiosi come Sándor Ferenczi e John Bowlby. 
Il primo, attraverso lo studio dei fenomeni dissociativi arrivò a concepire una "mente esterna" cui il soggetto può fare ricorso per stivarvi contenuti mentali intollerabili; Bowlby, d'altra parte, avendo formulato il concetto di "base sicura" come luogo materno della protezione, aveva identificato nelle fasi dello sviluppo che precedono l'autonomia una singolare attitudine, fra i piccoli dei primati, ad affidarsi alla madre non soltanto per riceverne le necessarie cure parentali, ma anche un lavoro di vigilanza e di messa in sicurezza del territorio, al fine di scongiurare gli incontri con i predatori. 
Perciò, dovendo le funzioni di tutela  diventare in toto, con il procedere dell'individuazione, prerogativa e patrimonio del soggetto che -per così dire- se ne appropria, almeno in una fase transitoria coincidente con il trasferimento di tali funzioni, la mente del soggetto non solo si relaziona con l'oggetto, ma è in larga parte e per un tempo non breve con esso almeno parzialmente coincidente. Va da sé quindi che, se il soggetto "è" anche l'oggetto, ha poco senso affermare che l'attività di relazione esterna sia una funzione puramente "sociale" e perciò qualitativamente distinta dalle funzioni endopsichiche.

sabato 16 novembre 2013

UNA STORIA VERGOGNOSA

Fino a non molti anni fa, c'era una volta un cantante che si chiamava Lucio e componeva e cantava canzoni bellissime. Era un ometto piccolo, molto peloso e completamente calvo. Lucio si vergognava molto di quella sua calvizie, e andava sempre in giro con la testa fasciata e le spalle nude, per mostrare che aveva i peli neri e folti, anche sui denti.
Poi un giorno si fece coraggio, e andò davanti al suo pubblico con il capo scoperto, e quella volta cantò in maniera sublime. Poi vennero tempi bui, nei quali si fece cucire un parrucchino rossiccio sulla testa, e cominciò a cantar male, e a scrivere canzoni che nessuno riusciva a ricordare. Ci fu persino qualcuno che si chiese se quel parrucchino fosse il risultato del sortilegio di una Dalila alla rovescia. Poi, un brutto giorno Lucio morì, e la gente continuò a cantare le canzoni di quando lui non aveva i capelli, mentre le altre furono dimenticate.
Anch'io ho da tanto tempo una storia da raccontare, ma non l'ho mai raccontata tutta, perché mi sembrava una storia vergognosa.
Poi, un bel giorno decisi di raccontarla almeno a me stesso, e per questo la scrissi.
Poi andai da un maestro e gli dissi: Maestro, leggi questa storia e dimmi due cose: è una storia troppo vergognosa? No, rispose lui. È anche la mia storia, virgola più, virgola meno. E tu pensi che la possiamo raccontare così come l'ho scritta? No, rispose il Maestro. Non dobbiamo raccontarla affatto. La gente non la capirebbe.
Stamattina dovevo far lezione ai ragazzi e, dopo tanto tempo, mi sono svegliato con una voglia calma di raccontare la mia storia. L'ho raccontata tutta, per filo e per segno, con tutti i dettagli e senza nascondere nulla. E dopo ho sentito che la gente mi voleva più bene. E che quella storia non era per niente vergognosa, ma mi faceva sembrare immensamente ricco. Perché le storie dipende da come (te) le racconti.