Perché Wiesbaden 1932


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Detto ciò, benvenuti nel mio Blog, angolo per riflessioni da condividere con colleghi e amici selezionati.











domenica 30 marzo 2014

RECIPROCITÀ

Carla è una collega con la quale sto progettando un lavoro comune; in passato sono stato uno dei suoi supervisori. Oggi noi abbiamo un rapporto molto "alla pari", però in lei è rimasto qualcosa di quel rispetto un po' "reverenziale" che spesso, nelle relazioni magistrali, residua fra gli allievi psicoterapeuti non di rado frenandone la crescita. Almeno a me, da discepolo, era accaduto questo, e perciò oggi, nelle relazioni con chi mi è transitoriamente allievo, cerco di essere attento a non lasciar crescere troppo l'idealizzazione, ricordando sempre, a me stesso prima che ad altri, ciò che spesso ripeteva un mio professore di liceo: "tutti nasciamo nudi", per dire che, alla fin fine, ci riconosciamo tutti nelle medesime difficoltà, e soffriamo di identici timori. In fondo, fra i peccati originali della Psicoanalisi, vi è anche quello di un Maestro che si lasciò ripetere dagli allievi: "Lei è l'unica persona che non ha bisogno di analisi, avendo già capito tutto". Fu davvero un delitto che ciò sia passato senza essere messo al vaglio della potente lente psicoanalitica, perché si permise che un pensiero tanto superstizioso e subalterno inquinasse gravemente le sorgenti di un sapere rivoluzionario.
Sono qui, con Carla, ma non sono sereno. Dobbiamo progettare un lavoro tutto nuovo, che sostituirà, almeno parzalmente, il lavoro pubblico che sto lasciando dopo un quarto di secolo di attività, nel quale la mia identità personale  si è in buona parte incarnata. Sono in lutto: mentre stiamo parlando perdo spesso il filo del discorso perché altri pensieri mi attraversano la mente.
Carla mi dice: "sei depresso!", ma subito sembra spaventata di aver "osato" ciò che evidentemente ritiene essere un eccesso di confidenza.
"Hai ragione" rispondo. E vorrei cominciare a parlarle del fatto che i miei percorsi quotidiani stanno cambiando, le mie abitudini mutano radicalmente, i punti di riferimento, le scadenze orarie: tutto è improvvisamente diverso da come era prima, e mi devo adattare. Niente di drammatico, nulla che possa essere paragonato a un'angoscia grave o inquietante. Ma un senso di perdita, un nuovo e irrimediabile modo di guardare il futuro sono ormai qui.
Questo vorrei dire a Carla, ma non riesco. Mentre sto iniziando ad aprirmi, vengo alluvionato da un fiume di parole che vorrebbero essere rassicuranti e ottimistiche, ma che hanno quale unico effetto quello di impedirmi di parlare. Il mio senso di oppressione aumenta.
A un certo punto la interrompo: "chi è, ora, il paziente?". Carla rimane per un attimo interdetta: "come chi è il paziente? C'è un paziente?". "Io sono il paziente" rispondo. "Mi sto aprendo con te che mi ascolti. E se sono il paziente, devi lasciarmi parlare".
Intendiamoci: conosco Carla da molti anni, avendola vista lavorare bene con pazienti difficili. In lei ho totale fiducia. Quindi credo che questo suo atteggiamento scarsamente accogliente sia il prodotto, momentaneo e assolutamente inusuale, del suo timore reverenziale per me. Io mi sono rivolto a lei cercando ospitalità, spazi mentali aperti e accoglienti per poter pensare. Avevo, come ogni paziente, bisogno di vuoti, non di pieni. Di una casa dove rifugiarmi, non di comizi o di buoni consigli.

Carla si è trovata all'improvviso sprovvista della propria abituale saggezza terapeutica perché imbarazzata dall'occuparsi per una volta di me anziché io di lei. Mi ha persino ricordato che, in un tempo lontano, aveva fantasticato di chiedermi di diventare  suo analista. Come è possibile che ora le parti si invertano? Cos'è questa storia che i genitori invecchiano? Com'è possibile che, a un certo punto, dobbiamo diventare noi i genitori di chi ci ha messo al mondo? Sulla nave che li trasportava in America, Freud ascoltava volentieri i sogni di Jung e Ferenczi, ma quando venne il suo turno, accampò scuse, si sentì male, disse di non poter rinunciare "alla propria autorevolezza". Quell'immodestia diede un contributo non secondario all'allontanamento di Jung e contribuì non poco all'infelicità di Ferenczi. Ma soprattutto inserì nel  DNA spirituale di una grande famiglia scientifica il gene della sottomissione.

P.S.: so bene che ciò che ho appena scritto farà arrabbiare qualcuno. E' proprio a loro che lo dedico.

sabato 29 marzo 2014

FILOFILIA

Leggo in un articolo le parole "filofobia" e "anoressia affettiva" che definiscono le difficoltà relazionali di persone che si isolano dal contesto sociale, conducendo una vita impoverita, anche se non sono psicotiche, né tantomeno possono definirsi autistiche.
Il pensiero torna immediatamente a Giovanna e alla conversazione che abbiamo avuto ieri sera: è una donna giovane, bella, intelligente: una "bella persona". Ha studiato molto ed è in possesso di conoscenze tecniche e linguistiche che le possono dare grandi soddisfazioni nel campo delle relazioni internazionali. Eppure è terribilmente sola, ambivalentemente legata a una famiglia che non l'ha mai sostenuta, svalutando molto le sue risorse intellettive, che Giovanna ha dovuto difendere con le unghie.
Oggi Giovanna vive lontana dai genitori anche se di questa lontananza porta con sé un persistente rimorso. E non ha un partner con cui dividere la propria vita, perché teme di trovare qualcuno che, al pari di suo padre, possa farle del male.
Ieri sera mi raccontava del suo precario attraversare gruppi e associazioni dove trovare un po' di compagnia. Anche la sua vita sessuale è quasi del tutto inesistente.
Le dico che mi fa tristezza pensare che lei si iscriva a un circolo per sentirsi meno sola: dopo un po' quella convivenza forzata le peserà in maniera insopportabile; dopo un po' vedrà soltanto i conflitti e le piccole rivalità, e le sfuggiranno i legami che potrebbero rivelarsi promettenti. Osserva che finora è sempre stato così.
Aggiungo che la prima socialità di cui c'è bisogno è negli affetti intimi: per poter creare "rete" c'è bisogno di una famiglia, di una coppia dalla quale partire; lei è completamente sola.
Il riflettere sulla vita di Giovanna mi consente di rispecchiarmi in lei: anche io sto attraversando un momento nel quale le reti di appartenenza si fanno problematiche: sto andando in pensione, dopo venticinque anni trascorsi all'interno di una "famiglia" professionale.
Dentro questa "rete" c'erano cerchi concentrici di relazioni più e meno strette. Per anni ho visto allontanarsi decine di colleghi e arrivarne altri. Molte separazioni mi hanno provocato un sottile dolore, altre meno. Oggi sono io ad andarmene: non per votarmi alla solitudine, ma per entrare in nuovi mondi, finora sconosciuti. Niente  più dell'incontro con ciò che ci è estraneo insinua in noi e negli altri il tarlo della diffidenza. Ma per fortuna capita anche di incontrare sorrisi accoglienti, che fra un po' ci diventeranno familiari. Forse è qualcosa che portiamo in noi a comunicare un senso di maggiore o minore allarme nello sconosciuto con il quale dobbiamo condividere uno spazio ristretto.
E poi ci sono i pazienti, la famiglia che mi porto al seguito, coloro le cui vite intime sono autorizzato ad attraversare per cercare di farne un nido, un'abitazione reciproca. Mai come oggi mi sono sentito grato verso i miei pazienti, facce domestiche nell'attraversamento dell'unheimlich.

ORTODOSSIA E APPARTENENZA

Nella psicoanalisi la coesistenza di potenti anticorpi antidogmatici con un sorprendente e regressivo livello di adesione clericale a un credo assolutistico capace di patologizzare il dissenso in nome dell'ortodossia, rappresenta una contraddizione tutt'ora inspiegata.
Viene però il dubbio che la cecità scientifica che ha impedito ai seguaci di Freud di affrontare con animo laico la pietra angolare rappresentata dal trauma e dal traumatico sia riconducibile più che a una svista scientifica a un bisogno di appartenenza.
Non c'è dubbio che il movimento psicoanalitico ha riprodotto concretamente ciò che Freud, in Psicologia delle Masse e Analisi dell'Io (1921), aveva indicato come modalità specifica del funzionamento collettivo nella Chiesa (soprattutto cattolica) e nell'Esercito: l'identificazione nel Capo Supremo come garanzia di coesione.
Ma mi chiedo: non c'è forse una matrice ebraica in tutto questo? La cultura di un  Popolo, per secoli minacciato di estinzione e smembrato da una diaspora interminabile, che ha cercato la propria unità nella tradizione religiosa anche al di là della Fede dei suoi figli nel Dio unico, ha lasciato forse un segno profondo nella memoria sepolta degli uomini.
Il gruppo degli psicoanalisti, illuminato da una verità portentosa e accecante ha preferito rinunciare a una parte della propria curiosità per timore di perdere il privilegio di un'appartenenza unica e irripetibile. Che sia questa la ragione?