Perché Wiesbaden 1932


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sabato 29 marzo 2014

FILOFILIA

Leggo in un articolo le parole "filofobia" e "anoressia affettiva" che definiscono le difficoltà relazionali di persone che si isolano dal contesto sociale, conducendo una vita impoverita, anche se non sono psicotiche, né tantomeno possono definirsi autistiche.
Il pensiero torna immediatamente a Giovanna e alla conversazione che abbiamo avuto ieri sera: è una donna giovane, bella, intelligente: una "bella persona". Ha studiato molto ed è in possesso di conoscenze tecniche e linguistiche che le possono dare grandi soddisfazioni nel campo delle relazioni internazionali. Eppure è terribilmente sola, ambivalentemente legata a una famiglia che non l'ha mai sostenuta, svalutando molto le sue risorse intellettive, che Giovanna ha dovuto difendere con le unghie.
Oggi Giovanna vive lontana dai genitori anche se di questa lontananza porta con sé un persistente rimorso. E non ha un partner con cui dividere la propria vita, perché teme di trovare qualcuno che, al pari di suo padre, possa farle del male.
Ieri sera mi raccontava del suo precario attraversare gruppi e associazioni dove trovare un po' di compagnia. Anche la sua vita sessuale è quasi del tutto inesistente.
Le dico che mi fa tristezza pensare che lei si iscriva a un circolo per sentirsi meno sola: dopo un po' quella convivenza forzata le peserà in maniera insopportabile; dopo un po' vedrà soltanto i conflitti e le piccole rivalità, e le sfuggiranno i legami che potrebbero rivelarsi promettenti. Osserva che finora è sempre stato così.
Aggiungo che la prima socialità di cui c'è bisogno è negli affetti intimi: per poter creare "rete" c'è bisogno di una famiglia, di una coppia dalla quale partire; lei è completamente sola.
Il riflettere sulla vita di Giovanna mi consente di rispecchiarmi in lei: anche io sto attraversando un momento nel quale le reti di appartenenza si fanno problematiche: sto andando in pensione, dopo venticinque anni trascorsi all'interno di una "famiglia" professionale.
Dentro questa "rete" c'erano cerchi concentrici di relazioni più e meno strette. Per anni ho visto allontanarsi decine di colleghi e arrivarne altri. Molte separazioni mi hanno provocato un sottile dolore, altre meno. Oggi sono io ad andarmene: non per votarmi alla solitudine, ma per entrare in nuovi mondi, finora sconosciuti. Niente  più dell'incontro con ciò che ci è estraneo insinua in noi e negli altri il tarlo della diffidenza. Ma per fortuna capita anche di incontrare sorrisi accoglienti, che fra un po' ci diventeranno familiari. Forse è qualcosa che portiamo in noi a comunicare un senso di maggiore o minore allarme nello sconosciuto con il quale dobbiamo condividere uno spazio ristretto.
E poi ci sono i pazienti, la famiglia che mi porto al seguito, coloro le cui vite intime sono autorizzato ad attraversare per cercare di farne un nido, un'abitazione reciproca. Mai come oggi mi sono sentito grato verso i miei pazienti, facce domestiche nell'attraversamento dell'unheimlich.

2 commenti:

  1. "Aggiungo che la prima socialità di cui c'è bisogno è negli affetti intimi: per poter creare "rete" c'è bisogno di una famiglia, di una coppia dalla quale partire; lei è completamente sola."

    A volte questo non è possibile, non per incapacità personale ma per diffidenza altrui, penso a chi ad esempio non rientra nei canoni della "bellezza" (leggi taglia abbondante ad esempio) e non riesce a trovare un compagno/a e allora che si fa?
    Sara

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  2. Giusta osservazione. Ma una taglia oversize è spesso indice di una cattiva relazione con se stessi, che bisognerebbe affrontare.

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