Perché Wiesbaden 1932


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Detto ciò, benvenuti nel mio Blog, angolo per riflessioni da condividere con colleghi e amici selezionati.











domenica 17 febbraio 2013

CONVERSAZIONE MAI AVVENUTA


M. è un collega. Durante una discussione su di un caso clinico mi racconta un fatto personale che trovo molto interessante. "Posso raccontarlo sul mio Blog?" gli chiedo. "Mi farebbe molto piacere", mi risponde. "Io non saprei farlo, anche se sento che questa mia esperienza debba essere comunicata".

Molti anni fa, M. era un giovane laureato in materie umanistiche, che durante gli studi universitari aveva sofferto per stati d'angoscia. Per questo aveva deciso di rivolgersi a F., un'analista con la quale si stabilì un rapporto molto intenso e gratificante, per quanto doloroso e difficile, al termine del quale non soltanto aveva risolto il problema per il quale aveva cercato aiuto, ma aveva sentito sorgere in lui un prepotente desiderio di saperne di più, di continuare quella che gli era sembrata un'avventura affascinante, di studiare la psicoanalisi e di imparare a curare pazienti. In una parola: di diventare psicoanalista. Siccome durante i decenni trascorsi era stato un cattivo studente (o così, perlomeno, gli era sembrato) aveva deciso, con un po' di ossessività, che questa volta non avrebbe sbagliato, che la sua formazione avrebbe dovuto essere di prim'ordine. Si era così risolto a rivolgersi alla Società Psicoanalitica Italiana, meta allora molto ambita da tutti coloro che desideravano intraprendere quella professione, ed ottenne di essere ammesso alle selezioni, iniziando così una seconda analisi, che avrebbe dovuto obbligatoriamente essere svolta con un analista didatta.
Per la verità, M. non capiva molto bene il perché di quel passaggio: lui aveva già fatto un'analisi piuttosto lunga: cinque anni a quattro sedute la settimana. Certo, la sua analista non aveva ancora conseguito il titolo di didatta, ma poiché l'analisi aveva raggiunto i propri scopi, perché mai farne un'altra? E soprattutto perché farla sull'onda di una motivazione così "burocratica" in un tempo nel quale, semmai, sarebbe stato meglio sedimentare ciò (non proprio poco) che era stato elaborato durante quei cinque anni? Saggezza avrebbe voluto che M. aspettasse che di fare una seconda analisi gli tornasse almeno la voglia, ma si intravedeva all'orizzonte il traguardo dei quarant'anni, oltre il quale la Società Psicoanalitica Italiana non lo avrebbe più accettato (ma perché, poi? Non era quello dello psicoanalista un mestiere adatto a persone un po' più anziane e un po' più sagge?), decise di procedere con la seconda analisi, pur cercando di ignorare la sgradevole impressione di star facendo qualcosa di forzato. Si rivolse ad E., uno studioso noto per i suoi scritti, considerati all'avanguardia, un didatta provvisto di tutti i requisiti necessari. Il loro incontro avvenne quando ancora la prima analisi era in corso, e la sua analista gli disse che, in merito al suo progetto, lei ed E. si erano sentiti telefonicamente, secondo una prassi allora molto in uso nei passaggi da un analista all'altro, ad evitare, "colpi di testa" di pazienti troppo angosciati. Ad ogni buon conto, seguendo i consigli di entrambi gli analisti, M. concluse la prima analisi, e lasciò passare circa due anni prima di iniziare la seconda, nella presunzione che quel tempo, dettato da esigenze non soltanto sue, sarebbe stato sufficiente alla "rimonta del desiderio".
Ma non fu così, e la seconda analisi, come M. ebbe ripetute occasioni di spiegarmi, non conseguì successo a causa di quella forzata adesione a un progetto così poco sentito sul piano emotivo.
Anche stasera M. è tornato sull'argomento (che evidentemente ancora, a distanza di tanto tempo, non lo lascia in pace). Questa volta, però, M. ha aggiunto un aneddoto che ha destato la mia curiosità facendomi pensare a lungo.

M. mi parla di un momento della seconda analisi, nella quale egli aveva evocato il ricordo di ciò che F. gli aveva detto a proposito della telefonata fra lei ed E..
Il commento di E. fu una doccia gelata: "Quella telefonata non c’è mai stata. Si tratta di un ricordo delirante", sentenziò. Dunque, fu la conclusione implicita del discorso, dei ricordi di M. non c'era da fidarsi.

"Sai, mi dice oggi M., io non ho mai veramente creduto alle parole di E. Naturalmente so benissimo quanto i ricordi possano trasformarsi nel tempo. Io stesso ho sperimentato come un sogno fatto e trascritto tanti anni fa e rievocato oggi, risulti sensibilmente diverso  rispetto alla versione originale. E poi ho sempre saputo (all’epoca ne avevo già raccolto molte prove) che E. era un uomo singolarmente distratto e smemorato, e in questo, un po’ ci assomigliavamo. Ho quindi convissuto a lungo con un atteggiamento di incredulità e con un senso di disagio provocato dal fatto che sentivo quella refrattarietà come qualcosa che mi rendeva un po' inadatto alla psicoanalisi, ammesso che quella e quella soltanto, si potesse considerare "psicoanalisi". Ma, allora, l'idea di terre a me sconosciute, la cui esistenza non fosse ancora certificata da una concordanza con la narrazione biblica era per me inavvicinabile. In psicoanalisi è accaduto un po' ciò che si era verificato in occasione delle grandi scoperte scientifiche. Come rendere la scoperta di Colombo compatibile con l'Antico Testamento? Come spiegare che i nativi americani discendevano anch’essi da Adamo per impedire che la nuova scoperta geografica fosse considerata il frutto di una seduzione demoniaca? Così accadde per le idee psicoanalitiche non discese direttamente da Freud o da coloro che nel suo nome fossero stati ordinati sacerdoti e depositari del Verbo.
Per ritornare a E., fu quell'implicito invito a non fidarmi delle mie percezioni che mi ferì profondamente. Io allora, ero già abbastanza "strizzacervelli" per sapere chiaramente ciò che avrebbe nuociuto a un paziente. E., invece, sembrava ignorarlo. E io non potevo ammettere che un analista didatta, e per di più il mio analista, fosse uno sprovveduto privo di tatto e di empatia, perché ciò avrebbe mandato all'aria tutta la mia costruzione idealizzante di una psicoanalisi infallibile (l'unico sintomo che dovetti curarmi da solo!), e capace di salvarsi se mi fossi affidato, totus tuus (per usare il motto apostolico di un Papa), in maniera incondizionata a un Credo. Ecco, il sintomo che mi impediva di aver successo nella mia analisi didattica fu proprio l'irriducibile rifiuto, che volli ostinatamente mantenere al di sotto della coscienza per non addentrarmi in una guerra dispiegata, per qualsiasi forma di sottomissione a un pensiero che non mi rendesse ragione di sé. Fu arroganza, questa? È possibile, ma ciò mi fece perdere la possibilità di ricevere l'iniziazione (ciò che non troppo scherzando oggi paragono a un'"ordinazione sacerdotale" nella sottomissione e nel silenzio della coscienza) e mi salvò l'"anima", qualunque cosa essa sia". 

Ti capisco, amico mio. E sento profondamente come questo dolore, per dirla con Dante, "ancor t'offende". Certo, potremmo anche osservare che fortunatamente abbiamo vissuto, tu ed io, rispondendo abbastanza accettabilmente alle sfide che la vita ci ha imposto: tu per queste ragioni, io per altre non troppo dissimili dalle tue. Però noi, oggi, abbiamo, sia pure retrospettivamente, un ampio dominio di quei fatti. Ciò che oggi fa ancora male è il ricordo di quel dolore, ma se oggi potessimo rivivere le medesime circostanze che imposero una battuta d’arresto al nostro cammino non avremmo alcuna esitazione nel farvi fronte. A volte sai, mi scopro a ripercorrere vecchie situazioni che mi hanno ferito, e mi consola il pensiero del come reagirei oggi. A te non capita?

"Qualche volta, si", mi risponde M. "Anzi, sai che ti dico? Mi fai venire voglia di inscenare, qui con te, il remake di quella seduta, per poter rispondere a quelle parole, cosa che allora non feci".

Ma perché? Di una situazione così pesante non avete mai più parlato? Lui ti stava diagnosticando un disturbo del pensiero, una forma, sia pure momentanea, di delirio e non avete detto più niente? Sei rimasto così, con la tua bella diagnosi di psicosi sulla groppa?

"Io preferii non approfondire. E sinceramente non so dirti se il mio timore principale fosse allora di star sul serio delirando, oppure di scoprire che ero caduto nelle mani sbagliate. Ma a giudicare dal fatto che dopo di allora (e son passati quasi trent'anni) non sono mai stato sfiorato dal timore di essere matto, credo di avere in mente la risposta. Ma, sai che cosa ti dico? Che avrebbe dovuto essere lui ad avere il senso del peso delle sue parole, e a tentare di indagare l'effetto che avevano avuto su di me. Ma continuò a tacere, in attesa di che cosa non si sa".

E allora tu oggi vorresti fare, qui in mia presenza, una specie di psicodramma, attraverso il quale dire ad E. ciò che allora non gli dicesti? Mi sembra un'idea molto interessante. Soltanto, sono un po' imbarazzato per il privilegio che mi concedi. Essere il testimone di pensieri tanto intimi è qualcosa che presuppone un grande senso di responsabilità. Ma voglio essere degno della tua fiducia fino in fondo.
Come intendi procedere?

"Semplice. Mi sdraio sul lettino, qui nel tuo studio dove ci troviamo adesso, tu abbassi appena un po' la luce, e io iniziò a parlare. Tu non devi fare nulla: solo rimanere in silenzio dietro di me ed ascoltare. A te non affido il compito di interpretare teatralmente la sua parte, perché fatalmente cercheresti di riparare ciò che ha fatto. Ma nessuno può farlo. È una cosa fra me è me, con te come testimone muto".

Vai,  ho detto a M. abbassando un po' la luce, fai pure quello che credi.

.....

"Delirante, dice lei? Un ricordo delirante? Certo: delirante. E delle conseguenze delle sue parole non si preoccupa? Che cosa devo fare io, ora, delle mie percezioni, dei miei ricordi? Non devo fidarmene? Saranno tutti deliranti? E a quale "verità", a quale salvagente potrò aggrapparmi? Lei non è delirante, vero? E neppure smemorato, perché se glielo facessi notare, probabilmente lei direbbe che voglio "farle le interpretazioni", invertire i ruoli rispettivi, rifiutare la dipendenza e la posizione asimmetrica. Quindi a me nella mia condizione attuale, non resta che tacere, far finta di non averla sentita, perché le conclusioni cui potremmo giungere se andassimo in fondo a questa discussione o affonderebbero me (e la cosa non mi piacerebbe per niente), o affonderebbero lei, e io sarei costretto a seguirla, come lo scorpione sulla rana nella favola di Esopo. Quindi, per non affondare del tutto, preferisco non pungerla. Lei deve star su per sorreggermi, anche se non so ancora (lo saprò dopo) quanto ciò mi costerà.

Ma se il discorso potessi farglielo "quando sarò grande"  (diciamo: fra una trentina d'anni), allora le direi ....

Delirante, sì, lei ha ragione. Il mio discorso è delirante. O perlomeno dobbiamo supporlo tale perché non ci sono le prove che quella telefonata fra lei e F. sia realmente avvenuta. Se ci fosse stata, due soli sarebbero i testimoni possibili: lei, che non la ricorda, e F.. Ora, se la cosa fosse realmente avvenuta e anche F. ne avesse smarrito la memoria (sono trascorsi alcuni anni), io sarei certamente in una brutta situazione, e quindi non voglio rischiare. Per questo le dico: escludiamo pure ogni altra ipotesi e ammettiamo che il fatto non sia accaduto e che il mio ricordo sia, come lei dice, "delirante".

Però, se la psicoanalisi non è una bagattella, anche dietro a un discorso delirante bisogna cercare un significato, un desiderio che, allucinatoriamente soddisfatto, abbia dato luogo a un falso convincimento.

Ammettiamo pure che io abbia creduto di ricordare qualcosa: perché? A me la risposta sembra abbastanza semplice: perché desideravo fortemente che quella telefonata ci fosse stata. Si, lo so: nella psicoanalisi di questo tempo (siamo negli anni 80), quando un paziente sogna che l'analista pensi a lui, o si occupi di lui al di fuori dei minuti canonici, commette un’immaginaria intrusione, che però sembra pesare come un’intrusione reale. È il talamo nuziale della sua mente ad essere violato dalle mie fantasie intrusive, a causa del mio bisogno di avere di più di quanto mi è stato accordato. L'avidità è il mio male, e lei ha il compito, per la tutela di entrambe le nostre menti, di scoraggiare tali barbariche invasioni.

Ma forse c'è un'altra spiegazione: io ho costruito quella fantasia delirante perché speravo di creare così un legame tra voi, qualcosa che mi potesse consolare del dolore del distacco dalla mia prima analisi. Telefonandole, e affidandomi nelle sue mani, la mia analista mi dava un suo viatico, e forse mi rassicurava sul fatto di non essere ostile al mio voler crescere, lasciando la casa che mi aveva fatto nascere.
Ci sarebbe stato qualcosa di male in tutto questo? Qualcosa di particolarmente vergognoso, al punto di tacciarlo di follia? Io non credo.

Adesso, lei mi dirà certamente che in lei non c'era tanta cattiveria da aver albergato tutte le fantasie mortifere che io le ho appena attribuito: il fatto che lei mi ritenesse sfrontato perché mi ero permesso di pensare che avesse parlato di me al telefono, il fatto che io avessi una prepotente nostalgia della mia prima analisi, e che ciò non fosse lecito. No, lei probabilmente ha ragione a rifiutare un'etichetta di tale "arroganza" (ricordo bene che questo termine le piaceva). Può darsi che ciò sia vero. Ma è un fatto che tutte queste fantasie, che non hanno mai prima di oggi raggiunto il livello della verbalizzazione, hanno continuato a vivere in me, come in un nido di serpenti, e mi hanno impedito di fidarmi di lei, rana traghettatrice. 
Se lei fosse stato più attento e sollecito, meno addormentato e distratto, forse la nostra storia avrebbe avuto un senso. Invece è rimasta soltanto una grande occasione perduta.

Si è fatta sera e M. rimane ancora un po’ sul lettino, in un silenzio pensieroso. Ma non è nei patti che io ora gli chieda altro. Quasi quasi, mi dispiace dirgli che dobbiamo andare.

12 commenti:

  1. sono in analisi da 6 anni con un analista della SPI; questo post mi rincuora e mi restituisce un pochino di speranza..... sono anni che sento le stesse cose e vivo nella paura, proprio così, vivo nella paura di ciò che io stessa sento e sento essere vero ma so che non ne posso parlare con il dottore che ogni volta che ci provo sento un secco rifiuto un diniego come a dire "di questo non si deve parlare", sento una vera e propria violenza psicologica, che mi tiene ferma, che mi impedisce di pensare che qualcosa non va, perchè tanto poi sono le mie resistenze.....che forse doveva essere diverso perchè io con questa persona sento di non riuscire ad incontrarmi, sento di ripercorrere paro paro quello che è stata la mia vita....solo che adesso deve starmi bene, devo reagire con creatività (la stessa che mi toglie)è crudele mi dico a volte! ma non sono io..... sa una cosa, la prossima seduta voglio dire tutto quello che penso a costo di trovarmi di fronte un muro di ostilità e arroganza....che esca allo scoperto, che si confronti lui con se stesso...tanto poi gli strumenti per non crollare ce li ha, torna da papà che è sempre pronto a dire "è così", "non è così", tanto la matta sono io; meglio così a questo punto mi appare così fragile che forse è meglio che se ne stia al calduccio, forse non sopravvivrebbe senza quella certezza, ma dietro di me a sentenziare no.
    non sono io che non sono autentica eppure è proprio autenticità che mi aspettavo di incontrare e non qualcuno che difendesse dogmi e posizioni. scusate lo sfogo ma sono così angosciata....non riuscivo a capire come mai mi stessi facendo così male durante questi anni e sempre di più....e certo....forse perchè sono una bambina capricciosa e ricattatoria....come gli piace al mio dottore quando dico così.......

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    1. Grazie per questo contributo, che apprezzo molto per la sua sincerità e per il dolore che esprime, rispetto al quale non mi sento di formulare commenti o giudizi.

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  2. L'Anonima delle 05:02, in 6 anni non ha capito che l'analista è neutro e le sue sono proiezioni? Non sa che vige la regola fondamentale? Non ha mai sentito parlare di transfert?
    L'analisi è un'esperienza unica, straordinaria, dolorosa, faticosa, meravigliosa, ma certamente non è per tutti.
    Cordiali saluti.
    Chanel


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    1. Gentile Chanel,
      Lei probabilmente parla della sua analisi: unica, straordinaria, dolorosa, faticosa, meravigliosa e non per tutti. Infatti è soltanto sua. Ciò è molto bello, ma conceda che sulla terra esista anche qualcos'altro.
      E, per favore, non dica: "le sue sono proiezioni" se non conosce la vicenda nei dettagli. Perché vede, così facendo, lei trasforma la seduta psicoanalitica in un automatismo rituale, dallo svolgimento preordinato e privo di qualsiasi peculiarità. Quindi, morto.
      Io, per quello che vale la mia opinione, mi sono astenuto dal formulare giudizi per la stessa ragione.

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  3. Va bene, Dottore: ammetto di essere una bambina capricciosa e ricattatoria.
    :-)
    Chanel

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    1. Magari, lei è soltanto una bambina che vuol giocare un po', magari ci conosciamo e lei vuol prendermi un po' in giro. Ma mi lasci dire che dal tono della sua risposta, lei non sembrava particolarmente capricciosa, né tantomeno "ricattatoria" (e da che cosa avrei dovuto capirlo?). Sembrava soltanto un po' saccente.

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  4. Dottore, io ho solo usato le parole di Anonima delle 05:02!! Non le ha riconosciute?
    Chanel

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  5. Lei è triste, stasera.
    E non sto proiettando...
    Addio, Dottore.
    Chanel

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  6. ops, mi perdoni Chanel.... sono l'anonima dell 5,30, la "capricciosa",
    non credevo di suscitare in lei una reazione così....calda.... era solo uno sfogo.
    in 6 anni di analisi ho capito moltissime cose, ho ricostruito la mia storia, drammatica e molto complessa, ed in assoluto è stata ed è l'esperienza più drammatica e meravigliosa in cui mi sia imbattuta;
    non amo usare termini che non mi appartengono tipo "proiezione" e "transfert" ma sicuramente non posso che darle ragione, solo, quello che volevo dire è che ..... lei è proprio sicura che l'analista sia "neutro" totalmente? voglio dire siamo forse in presenza di un automa o un elaboratore elettronico privo di sentimenti e sue "proiezioni"? non crede possibile che io possa aver colto qualcosa che possa avermi ferita profondamente? inoltre mi sembra veramente troppo facile ridurre tutto a proiezioni e resistenze... se così fosse potrei fare anche io l'analista, mi metto seduta dietro qualcuno e aspetto...... prima o poi nel silenzio il paziente o impazzisce o risolve le sue cose.... se impazzisce saranno le sue proiezioni e se guarisce.... sono stata io :).....
    perdoni l'ironia ma forse la verità è nel mezzo, un pò le mie proiezioni e un pò ... ogni storia è personale ed ingiudicabile se non da chi la vive.
    buona notte

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