Perché Wiesbaden 1932


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Detto ciò, benvenuti nel mio Blog, angolo per riflessioni da condividere con colleghi e amici selezionati.











mercoledì 25 aprile 2012

TUTTA LA VITA (CON QUEST'ORRIBILE RUMORE)


Una ventina d’anni fa, nel bel mezzo di una seduta totalmente silenziosa, una persona mi disse: “sa che l’ho sognata?” Ciò detto, riprese a tacere.

domenica 15 aprile 2012

L'IMPOSSIBILE VOCATIVO (IL TU, IL LEI, LE DISTANZE)


Normalmente, analista e paziente adulto si danno reciprocamente del lei. La regola non dovrebbe essere obbligatoria, ma l’uso del lei è utile a evitare scivolamenti in contiguità premature o false: qualcosa che, essendo diverso da una vicinanza autentica, rischierebbe di provocare ulteriore imbarazzo e persino umiliazione.
Gli anglosassoni, che hanno uno “you” che va bene per tutto (distanze siderali comprese), riescono a cavarsela benissimo lo stesso. Evidentemente hanno a disposizione altri sistemi per avvicinarsi o per allontanarsi.
La questione della distanza in analisi è complessa, perché dipende in primo luogo da un’angoscia di base del paziente che ha alle spalle esperienze precoci di malaccudimento.
Mario, un mio paziente, una volta mi raccontò che sua madre, ogni volta che lui, bambino, si arrampicava sul divano sul quale lei era seduta, diceva immediatamente “mi fanno male le gambe”, come a voler implicitamente avvertire: “bada bene di non salirmi in braccio”.
L’analisi di Mario durò molti anni, e fu difficile raggiungere un accettabile grado di vicinanza: era chiuso in una specie di “rifugio della mente”, e stentava molto a entrare in contatto. Per lui, che era un dirigente industriale, le sedute erano sempre “riunioni”, parola dai molti significati, che nel suo caso, tuttavia, evocava l’atmosfera rigida e formale dei briefing aziendali.
Se la lontananza affettiva di madri depresse e "poco entusiaste della vita" (rubo questa felice espressione a Franco Borgogno) è una condizione  iniziale che può conferire alla personalità gravi difficoltà relazionali, è possibile che anche noi terapeuti, attraverso formalismi eccessivi, facciamo troppo poco per incoraggiare i nostri pazienti più introversi e bisognosi di un'accoglienza calda ed empatica.
Ed è proprio sull’ambiguità del “lei” che si gioca il desiderio impossibile del paziente di avvicinarsi, quando soltanto il ricorso a un vocativo (sempre difficile, sempre imbarazzante) potrebbe rompere certe distanze impossibili.
Pochi giorni fa, Rosa mi parlava di un’altra donna e diceva “lei mi ha detto … e mi sono ricordata che lei mi aveva detto ...”. E io: “ma lei chi?”, “Lei, lei!”, rispondeva Rosa. “Lei?” “Lei!” E alla fine, per “disperazione”, si è risolta a indicarmi con il dito, senza guardarmi. 
L’episodio mi ha ricordato che, tanti anni fa, durante la mia analisi, mi era accaduta la stessa cosa. E ricordo ancora l’emozione e l’imbarazzo con il quale accarezzavo con la lingua la parola “lei”, che in quel caso aveva esattamente la funzione di vocativo. Un vocativo clandestino, come se chiamare la mia (prima) analista direttamente e per nome fosse un piacere segreto e proibito. Del secondo non dirò altro se non che il chiamarlo “professore” mi cresceva in bocca come un uovo a espansione.
(p.s.: Questo post ne sostituisce uno precedente che quasi nessuno aveva capito. Ci sarà un motivo?)

lunedì 9 aprile 2012

SEDUZIONE CONTRO IDEALIZZAZIONE


Lo psicoanalista Hans Amadeus Gebrochen racconta di una sua allieva, Belle, che era tale di nome e di fatto. Aspirante psicoterapeuta, avvicinava il supervisore con l’ansia di chi teme che tutto sia già perduto, come se ogni parola del Maestro potesse suonare come una dolorosa esclusione. Fu una fortuna per entrambi che lui fosse decisamente troppo presbite per poter essere abbagliato dal colore dei suoi occhi: non avrebbe visto  nient’altro. E Belle imparò che non era necessario passare dal parrucchiere prima di ogni seduta di supervisione.

venerdì 6 aprile 2012

CHE COSA CI DANNO I PAZIENTI?

Checché se ne dica, non c’è relazione senza scambio emotivo. Quindi, la domanda è: che cosa ci danno i pazienti? Che cosa prendiamo noi da loro? Soltanto la parcella? E se ciò fosse vero, perché mai dovremmo essere così altruisti da fare un lavoro meno remunerativo di altri che richiedono una preparazione più breve e meno costosa sotto tanti aspetti?
E’ possibile che, in analisi, l’emersione di queste semplici domande risulti interdetta, per una congiura del silenzio che parta da entrambi gli interlocutori. Sul versante del paziente è l’auto-disistima che normalmente accompagna gli stati di sofferenza psichica a sconsigliare una domanda del genere, tanta è la paura di uscirne severamente frustrati. Sul versante dell’analista, la ragione può essere più preoccupante: la consapevolezza della persistenza dei propri nuclei nevrotici, accompagnata dalla presunzione irrealistica che la mente dell’analista debba essere un campo sterile a lui totalmente trasparente. Se l’analista riconoscesse di cercare “qualcosa” nel paziente, qualcuno potrebbe pensare –Dio non lo voglia!- che egli abbia ancora dei bisogni, o, peggio, dei problemi irrisolti. Come se fosse possibile non averne anche dopo la più accurata delle analisi personali. 
Quando ero giovane, pensavo che il mio piacere di entrare a contatto profondo con la mente di un’altra persona fosse semplicemente un tentativo, un po’ furbesco e a buon mercato, di rivivere scorci della mia analisi che speravo ripetibili. Oggi so che continuare a sviluppare la mia personale capacità di rêverie materna (che è quello speciale intuito attraverso il quale le madri colgono i bisogni dei bambini molto piccoli), mi consente di effettuare una continua “manutenzione” del mio apparato emotivo e percettivo.
Una volta mi è persino capitato di conoscere e curare una persona che aveva caratteristiche emotive molto simili a quelle di mia madre, donna che fu dotata di una grande riserva affettiva accompagnata da una bassissima capacità di esprimere gli affetti, essendo stata precocemente frustrata nelle proprie emozioni. Se fra me e mia madre ci fu sempre un cristallo per quanto trasparente e contornato dalla reciproca sensazione di impotenza, credo che al precoce desiderio di infrangerlo si debba ricondurre la mia vocazione terapeutica. Indubbiamente, l’aver curato quella persona ha soddisfatto un mio bisogno vitale, molto antico e profondo. Come potrei non provare gratitudine?

M.


Se non sarai buona non ti vorrò più bene. E lei divenne buona, che più buona non avrebbe saputo fare. Esaurita inutilmente quella riserva d’energia, non riuscì a pensare ad altro che a farsi di pietra. Soltanto così, pietra adagiata sul fondo del mare, i raggi del sole avrebbero -forse- sentito la sua mancanza. Fortuna fu che i pesci, incantati dalle sue barzellette, le tennero compagnia. Ma i pesci sono animali a sangue freddo, e lei continuò a rimpiangere il calore del sole.

domenica 1 aprile 2012

DONNE IN ANALISI

Si parva licet componere magnis, Federico Astengo, amico di tutta la vita, è un po’ come il poeta ungherese Hugó Veigelsberg detto Ignotus (1869-1949): un osservatore curioso e discreto della psicoanalisi, che  nelle vicinanze più immediate non ha la fortuna di avere Ferenczi, ma, ben più modestamente, il sottoscritto.
Oggi mi scrive: “Come sai, leggo con attenzione e candida incompetenza il tuo blog. Ora mi accorgo che tutti, o quasi, i tuoi pazienti sono di sesso femminile. Le persone disturbate sono quindi in grandissima parte donne, oppure i disturbi di noi uomini sono troppo aridi e banali per diventare pretesto letterario?”
La domanda merita una risposta approfondita. E’ vero: fra i pazienti adulti che incontro almeno una volta la settimana, la presenza di uomini è il 22,2% del totale. Ma la domanda riguarda anche la “narrabilità” di tali esperienze cliniche, ovvero la loro suscettibilità a essere ripensati in termini che Federico ha la bontà di chiamare “letterari”, e che io forse potrei definire “onirici” perché prodotti dalla com-mozione.
Circa la questione della prevalenza femminile, la questione è nota: nel suo eccellente “Menti che si incontrano” (Raffaello Cortina, 2004), Lewis Aron dedica una lunga riflessione al tema “Le donne, il femminismo e la psicoanalisi” (pag. 23 e segg.), sottolineando come la presenza femminile si sia progressivamente allargata nel corso della storia della psicoanalisi, fino a diventare prepotentemente egemone ai nostri giorni. Tale trasformazione è probabilmente la più concretamente vistosa che si sia registrata nella storia delle professioni psicoterapeutiche e di aiuto in genere. Secondo Ilene Phlipson (citata da Aron), la causa del cambiamento è da ricondursi al passaggio dal modello “pulsionale” (la teoria freudiana che studiava la dinamica delle pulsioni inconsce in una prospettiva che guardava al paziente come a una realtà oggettiva non influenzata dalla relazione con il terapeuta), a una visione detta “bipersonale” o, con varie sfumature, “relazionale” o “intersoggettiva”, nella quale anche l’inconscio del terapeuta entra nel campo di osservazione scientifica in una relazione dotata di un alto grado di mutualità.
Il concetto di “mutualità” in analisi è il frutto prezioso lasciatoci in eredità dalla “folle” (e pericolosa) impresa tentata da Ferenczi con gli esperimenti sull’"analisi reciproca" attuati con Elizabeth Severn, Clara Thompson e una terza allieva o paziente la cui identità ci è sconosciuta.
Cessato il sessantennale oblio nel quale la comunità psicoanalitica lo aveva confinato, Ferenczi è tornato alla luce del sole grazie a un insieme complesso di condizioni storiche che includono anche le epocali trasformazioni della coscienza femminile.
Il suo approccio “bipersonale” richiama uno stile di lavoro che può essere definito “materno” in contrapposizione allo stile “paterno” di Freud; nel primo il tema dell’accudimento e del contatto emotivo ha assunto un ruolo ben più pregnante rispetto a quello fondato sulla presenza asettica dell’“analista-funzione”: presente in quanto funzione impersonale a disposizione della mente del paziente, ma assente in quanto persona e “soggetto” (anziché unicamente “oggetto”) di relazione.
Aron ritiene che una più spiccata mutualità fra paziente e analista e l’aperto riconoscimento della dimensione intersoggettiva del trattamento siano stati influenzati dalla critica femminista agli ideali maschili di “scienza oggettiva” e di mancanza di coinvolgimento con l’oggetto dell’indagine, così come la nuova sottolineatura dell’attaccamento materno e dell’empatia si sono incontrati con il prevalere degli interessi sugli stadi pre-edipici anziché sul complesso di Edipo,  con i suoi correlati di invidia del pene e di castrazione femminile, da sempre e  con ragione oggetto delle critiche più serrate che il movimento femminista ha rivolto alla psicoanalisi.
Il risultato di questo sommovimento è che “mentre alcuni decenni fa l’analista era un uomo che faceva parte di una professione (la medicina) praticata in modo predominante da uomini, oggi ci sono molte probabilità che l’analista sia una donna che fa parte di una professione praticata in modo predominante da donne (la psicologa e l’assistente sociale)” (Aron, cit., pag. 25). E, aggiungo io, la sempre più preziosa educatrice (anche se nel settore educativo la presenza di uomini è a dire il vero più sostenuta).
A parte le molte considerazioni che si possono fare sulla trasformazione (con relativa destabilizzazione) dell’identità maschile, dobbiamo osservare, ancora con Aron, "che insegniamo e facciamo supervisioni fondamentalmente a delle donne, e inoltre che scriviamo articoli e libri per un pubblico di analisti che è in gran parte femminile e che lavora per la maggior parte con pazienti donne”.
Anche nell’esperienza che condivido con alcuni colleghi che lavorano alla ASL  e in alcune scuole di psicoterapia (Bruno Morchio in primis) quale tutor e docente, gli allievi maschi si riducono a poche unità. Non è propriamente il mondo della psicoanalisi, quindi, a essere monopolizzato, operativamente e contenutisticamente, dal femminile: è l’intero mondo delle professioni di aiuto.
I contributi di psicoanaliste femministe (Nancy Chodorow, Jessica Benjamin, Muriel Dimen  e Adrienne Harris), protagoniste dell’indirizzo relazionale del NYU Post-doctoral Program, ci offrono interessanti indicazioni circa le differenze di genere che possono andare incontro agli interrogativi sollevati da Astengo:  secondo la Chodorow (allieva di Karen Horney), “nella misura in cui nella nostra cultura le funzioni materne sono portate avanti quasi esclusivamente dalle donne, il Sé maschile e quello femminile tendono ad essere costituiti in maniera differente. Il Sé delle donne è costruito nella relazione con la madre, mentre il Sè degli uomini (più distanziato e distaccato) si fonda su confini e negazioni difensivi del legame Sé-madre”. (Aron, cit., pag. 26-27).
Tutto ciò mi offre una base di riflessione sul significato di una mia propensione a sognare (nel senso che Bion assegna al termine “rêverie”) relazioni più intime con soggetti maggiormente disposti alla vicinanza di un Sé materno. Che poi questo sia il mio, potrebbe essere un ottimo argomento per un altro post.