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domenica 1 aprile 2012

DONNE IN ANALISI

Si parva licet componere magnis, Federico Astengo, amico di tutta la vita, è un po’ come il poeta ungherese Hugó Veigelsberg detto Ignotus (1869-1949): un osservatore curioso e discreto della psicoanalisi, che  nelle vicinanze più immediate non ha la fortuna di avere Ferenczi, ma, ben più modestamente, il sottoscritto.
Oggi mi scrive: “Come sai, leggo con attenzione e candida incompetenza il tuo blog. Ora mi accorgo che tutti, o quasi, i tuoi pazienti sono di sesso femminile. Le persone disturbate sono quindi in grandissima parte donne, oppure i disturbi di noi uomini sono troppo aridi e banali per diventare pretesto letterario?”
La domanda merita una risposta approfondita. E’ vero: fra i pazienti adulti che incontro almeno una volta la settimana, la presenza di uomini è il 22,2% del totale. Ma la domanda riguarda anche la “narrabilità” di tali esperienze cliniche, ovvero la loro suscettibilità a essere ripensati in termini che Federico ha la bontà di chiamare “letterari”, e che io forse potrei definire “onirici” perché prodotti dalla com-mozione.
Circa la questione della prevalenza femminile, la questione è nota: nel suo eccellente “Menti che si incontrano” (Raffaello Cortina, 2004), Lewis Aron dedica una lunga riflessione al tema “Le donne, il femminismo e la psicoanalisi” (pag. 23 e segg.), sottolineando come la presenza femminile si sia progressivamente allargata nel corso della storia della psicoanalisi, fino a diventare prepotentemente egemone ai nostri giorni. Tale trasformazione è probabilmente la più concretamente vistosa che si sia registrata nella storia delle professioni psicoterapeutiche e di aiuto in genere. Secondo Ilene Phlipson (citata da Aron), la causa del cambiamento è da ricondursi al passaggio dal modello “pulsionale” (la teoria freudiana che studiava la dinamica delle pulsioni inconsce in una prospettiva che guardava al paziente come a una realtà oggettiva non influenzata dalla relazione con il terapeuta), a una visione detta “bipersonale” o, con varie sfumature, “relazionale” o “intersoggettiva”, nella quale anche l’inconscio del terapeuta entra nel campo di osservazione scientifica in una relazione dotata di un alto grado di mutualità.
Il concetto di “mutualità” in analisi è il frutto prezioso lasciatoci in eredità dalla “folle” (e pericolosa) impresa tentata da Ferenczi con gli esperimenti sull’"analisi reciproca" attuati con Elizabeth Severn, Clara Thompson e una terza allieva o paziente la cui identità ci è sconosciuta.
Cessato il sessantennale oblio nel quale la comunità psicoanalitica lo aveva confinato, Ferenczi è tornato alla luce del sole grazie a un insieme complesso di condizioni storiche che includono anche le epocali trasformazioni della coscienza femminile.
Il suo approccio “bipersonale” richiama uno stile di lavoro che può essere definito “materno” in contrapposizione allo stile “paterno” di Freud; nel primo il tema dell’accudimento e del contatto emotivo ha assunto un ruolo ben più pregnante rispetto a quello fondato sulla presenza asettica dell’“analista-funzione”: presente in quanto funzione impersonale a disposizione della mente del paziente, ma assente in quanto persona e “soggetto” (anziché unicamente “oggetto”) di relazione.
Aron ritiene che una più spiccata mutualità fra paziente e analista e l’aperto riconoscimento della dimensione intersoggettiva del trattamento siano stati influenzati dalla critica femminista agli ideali maschili di “scienza oggettiva” e di mancanza di coinvolgimento con l’oggetto dell’indagine, così come la nuova sottolineatura dell’attaccamento materno e dell’empatia si sono incontrati con il prevalere degli interessi sugli stadi pre-edipici anziché sul complesso di Edipo,  con i suoi correlati di invidia del pene e di castrazione femminile, da sempre e  con ragione oggetto delle critiche più serrate che il movimento femminista ha rivolto alla psicoanalisi.
Il risultato di questo sommovimento è che “mentre alcuni decenni fa l’analista era un uomo che faceva parte di una professione (la medicina) praticata in modo predominante da uomini, oggi ci sono molte probabilità che l’analista sia una donna che fa parte di una professione praticata in modo predominante da donne (la psicologa e l’assistente sociale)” (Aron, cit., pag. 25). E, aggiungo io, la sempre più preziosa educatrice (anche se nel settore educativo la presenza di uomini è a dire il vero più sostenuta).
A parte le molte considerazioni che si possono fare sulla trasformazione (con relativa destabilizzazione) dell’identità maschile, dobbiamo osservare, ancora con Aron, "che insegniamo e facciamo supervisioni fondamentalmente a delle donne, e inoltre che scriviamo articoli e libri per un pubblico di analisti che è in gran parte femminile e che lavora per la maggior parte con pazienti donne”.
Anche nell’esperienza che condivido con alcuni colleghi che lavorano alla ASL  e in alcune scuole di psicoterapia (Bruno Morchio in primis) quale tutor e docente, gli allievi maschi si riducono a poche unità. Non è propriamente il mondo della psicoanalisi, quindi, a essere monopolizzato, operativamente e contenutisticamente, dal femminile: è l’intero mondo delle professioni di aiuto.
I contributi di psicoanaliste femministe (Nancy Chodorow, Jessica Benjamin, Muriel Dimen  e Adrienne Harris), protagoniste dell’indirizzo relazionale del NYU Post-doctoral Program, ci offrono interessanti indicazioni circa le differenze di genere che possono andare incontro agli interrogativi sollevati da Astengo:  secondo la Chodorow (allieva di Karen Horney), “nella misura in cui nella nostra cultura le funzioni materne sono portate avanti quasi esclusivamente dalle donne, il Sé maschile e quello femminile tendono ad essere costituiti in maniera differente. Il Sé delle donne è costruito nella relazione con la madre, mentre il Sè degli uomini (più distanziato e distaccato) si fonda su confini e negazioni difensivi del legame Sé-madre”. (Aron, cit., pag. 26-27).
Tutto ciò mi offre una base di riflessione sul significato di una mia propensione a sognare (nel senso che Bion assegna al termine “rêverie”) relazioni più intime con soggetti maggiormente disposti alla vicinanza di un Sé materno. Che poi questo sia il mio, potrebbe essere un ottimo argomento per un altro post.

1 commento:

  1. Quando la parte femminile interna di una donna viene portata all’esterno essa diventa come una lama che squarcia ogni velo,ogni incomprensione, ogni muro di freddezza che spesso soggetti di ogni età decidono di crearsi come proprio mezzo di difesa personale.
    Le donne solitamente riescono ad estrarre qualcosa dalla loro mancanza, dalle loro vicissitudini personali facendone qualcosa per la loro produzione teorica, trasformano le loro esperienze in numerosi ed importanti insegnamenti.
    L’uomo, mi sembra vedere come un pericolo la diversità positiva della donna, in quanto questa diversità mette in crisi il suo immaginario, spesso determinato esclusivamente dal fallocentrismo; ma il mondo oggi sente la necessità di un pensiero maturo e saggio come quello femminile che riesce ad arrivare diretto al cuore della gente e a stimolare questa nostra società un po’ troppo addormentata…

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