Perché Wiesbaden 1932


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venerdì 6 aprile 2012

CHE COSA CI DANNO I PAZIENTI?

Checché se ne dica, non c’è relazione senza scambio emotivo. Quindi, la domanda è: che cosa ci danno i pazienti? Che cosa prendiamo noi da loro? Soltanto la parcella? E se ciò fosse vero, perché mai dovremmo essere così altruisti da fare un lavoro meno remunerativo di altri che richiedono una preparazione più breve e meno costosa sotto tanti aspetti?
E’ possibile che, in analisi, l’emersione di queste semplici domande risulti interdetta, per una congiura del silenzio che parta da entrambi gli interlocutori. Sul versante del paziente è l’auto-disistima che normalmente accompagna gli stati di sofferenza psichica a sconsigliare una domanda del genere, tanta è la paura di uscirne severamente frustrati. Sul versante dell’analista, la ragione può essere più preoccupante: la consapevolezza della persistenza dei propri nuclei nevrotici, accompagnata dalla presunzione irrealistica che la mente dell’analista debba essere un campo sterile a lui totalmente trasparente. Se l’analista riconoscesse di cercare “qualcosa” nel paziente, qualcuno potrebbe pensare –Dio non lo voglia!- che egli abbia ancora dei bisogni, o, peggio, dei problemi irrisolti. Come se fosse possibile non averne anche dopo la più accurata delle analisi personali. 
Quando ero giovane, pensavo che il mio piacere di entrare a contatto profondo con la mente di un’altra persona fosse semplicemente un tentativo, un po’ furbesco e a buon mercato, di rivivere scorci della mia analisi che speravo ripetibili. Oggi so che continuare a sviluppare la mia personale capacità di rêverie materna (che è quello speciale intuito attraverso il quale le madri colgono i bisogni dei bambini molto piccoli), mi consente di effettuare una continua “manutenzione” del mio apparato emotivo e percettivo.
Una volta mi è persino capitato di conoscere e curare una persona che aveva caratteristiche emotive molto simili a quelle di mia madre, donna che fu dotata di una grande riserva affettiva accompagnata da una bassissima capacità di esprimere gli affetti, essendo stata precocemente frustrata nelle proprie emozioni. Se fra me e mia madre ci fu sempre un cristallo per quanto trasparente e contornato dalla reciproca sensazione di impotenza, credo che al precoce desiderio di infrangerlo si debba ricondurre la mia vocazione terapeutica. Indubbiamente, l’aver curato quella persona ha soddisfatto un mio bisogno vitale, molto antico e profondo. Come potrei non provare gratitudine?

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