Perché Wiesbaden 1932


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mercoledì 25 aprile 2012

TUTTA LA VITA (CON QUEST'ORRIBILE RUMORE)


Una ventina d’anni fa, nel bel mezzo di una seduta totalmente silenziosa, una persona mi disse: “sa che l’ho sognata?” Ciò detto, riprese a tacere.

5 commenti:

  1. "Conosce la storia dell'albero che cade nella foresta deserta, dove non c'è nessuno che possa sentirlo precipitare al suolo?"
    "No"
    ...

    "Se non c'è nessuno a sentirlo precipitare, l'albero produce rumore?"
    "Cosa intende?"
    "Se non c'è nessuno in quella foresta o nelle vicinanze e dunque quel rumore non lo sente nessuno, possiamo dire che è esistito?"
    "Il rumore?"
    "Si"
    "Ovviamente mi viene da dire di si, ma immagino ci sia qualche trabocchetto."
    "Nessun trabocchetto. Il rumore è esistito o no?"
    "Certo che è esistito."
    "E come facciamo a dirlo se nessuno lo ha sentito e..."
    "Ma che c'entra..."
    "Aspetti, mi faccia finire. Come facciamo a dirlo se nessuno lo ha sentito e nessuno può raccontarlo?"
    Roberto non replicò subito. Non era una frase o una provocazione casuale e dunque, con ogni probabilità, la risposta più ovvia non era quella esatta. Altre volte il dottore aveva accennato al fatto che i paradossi aiutano a capire la realtà e a risolvere i problemi. In particolare quelli della psiche imbizzarrita...

    Gianrico Carofiglio, Il silenzio dell'onda, Rizzoli

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    1. Questo lo trovo molto appropriato ricollegato al discorso che facevo di trauma, testimone e crimini dentro le mura.
      C'è bisogno che si torni lì, indietro nella memoria (o a quello che accade altrove dall'ufficio), e che l'albero spezzato faccia questa volta rumore. Che qualcuno senta altrimenti il fatto non esiste, nella mente di nessuno neanche dell'albero-paziente, scisso dalla coscienza.

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    2. Sono d'accordo con lei. C'è bisogno di far rumore.

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  2. In tempi di deforestazione (un processo che dura da millenni), agli elefanti disoccupati può capitare di trovar lavoro di apprendisti in qualche cristalleria. Forse è per questo che Ingmar Bergman fa dire a un suo personaggio che “il primo dovere del medico è quello di chiedere perdono”.
    Ciò doverosamente premesso, è da immaginare che anche della capziosa ossessività dei legulei usi a spaccare il cavillo (e il cavallo) in quattro, facendo volteggiare i loro falsi sillogismi come le clave di un giocoliere, ci sia da fare qualche penitenza.
    Di fronte all’impronta di una colonna un tempo piantata nel terreno, Freud (in buona compagnia di frotte di archeologi) non ebbe alcuna remora ad immaginarne il capitello, polverizzato dai secoli. E anzi ebbe persino l’ardire, in epoca positivista, di nobilitare la congettura, affermando:

    "(parla il paziente:) «Lei domanda chi possa essere questa persona del sogno. Non è mia madre». Noi rettifichiamo: dunque è la madre. Ci prendiamo la libertà, nell’interpretazione, di trascurare la negazione e di cogliere il puro contenuto dell’associazione. È come se il paziente avesse detto: «Per la verità mi è venuta in mente mia madre per questa persona, ma non ho voglia di considerar valida questa associazione»” (La Negazione, 1926, OSF, vol. 10, pag. 197).

    Senza questo arbitrio la “Negazione” sarebbe ancora lì, in attesa di essere scoperta.

    Quindi, io mi prendo la libertà di avere la certezza assoluta che l’albero caduto abbia fatto rumore come ben sapranno gli uccelli scappati e i formicai che avranno sacramentato per il lavoro da ricominciare.
    Prima che comparisse l’uomo, per millenni le foreste vergini sono nate e morte senza alcun bisogno di autorizzazione. E anche di fronte al più ostinato silenzio c’è, ne sono matematicamente sicuro, un dolorosissimo pensiero.

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