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sabato 5 maggio 2012

RENZO B. E LE INSIDIE DEL NARCISISMO PATOLOGICO


Su Renzo Bossi non c’è proprio niente da ridere, e ancor meno da sfottere. Quella sua è una tragedia, invece: la tragedia di un bambino educativamente “ucciso” dalla propria famiglia. Io non lo conosco, e di lui so quello che raccontano i giornali. E anche se mi sbaglio (consola pensare al fatto che le persone sono sempre un po’ diverse da come vengono divulgate), quello che ho da dire in proposito vale per tutti noi.
Di lui,  maturazione emotiva  e potenzialità intellettuali sembrano esser state soffocate sul nascere: un esame di maturità più volte fallito è diventato occasione di una speculazione politica di bassissimo livello (un’improbabile congiura di professori meridionali ai danni del figlio di un “rivoluzionario” nordista). In seguito a ciò, complice la bramosia dei media, i suoi insuccessi si sono ripetuti diventando proverbiali e argomento di cazzeggio da bar.
Lo stesso insulso soprannome, inventato -a quanto si racconta- in famiglia, è diventato un potente strumento di dileggio, buono per i nemici esterni e i falsi amici (tanti, troppi per un ragazzo che in certi momenti sembra non aver capito chi è e in quale contesto vive).
Tutto ciò appartiene a una vicenda familiare, locale, politica, sociale, nazionale: troppe cose insieme per chi sembra incapace di proteggersi da solo e privo di qualcuno che possa farlo per lui.
La famiglia, che normalmente ha il compito di tutelare i più deboli e che dovrebbe creare le condizioni basilari indispensabili allo sviluppo, è interamente soggiogata da un sistema di pensiero intossicato dalla bugia.
Secondo quanto tramandano le gazzette, il primo fu il padre: studente in medicina incapace di transitare dalla scuola superiore all’università senza perdersi, arrivò  a simulare esami, laurea e persino vita professionale, se è vero che usciva di casa tutte le mattine con la mitica valigetta. Poi, faute de mieux, la Scuola Radio Elettra con la costruzione di un laser nel garage di casa, in “collaborazione con la Facoltà di Medicina”, tanto per dire senza fare nemmeno una piega: “lo sai che sono un elettro-medico?”.
La valigetta del medico, e la “collaborazione con la facoltà di medicina” sono insegne, al pari delle vetrofanie da applicare sul parabrezza dell’auto che un tempo l’Ordine dei Medici distribuiva ai propri iscritti, e che da studenti ci siamo adoperati a falsificare in mille forme, sempre ingegnose e sempre scherzose, anche se fino a un certo punto. 
Le insegne però non sono innocue: se le si usa per giocare, bisogna saperlo. Anche i truffatori, se tengono alla salute mentale, devono saper bene quello che fanno e mantenere distinto l’inganno che propinano agli altri, da quello che somministrano a se stessi. E purtroppo pare che le truffe perfette siano proprio quelle che non lasciano in giro testimoni, quindi è meglio truffare anche la propria consapevolezza, perché non si sa mai.
Così un famoso tycoon può imbrogliare le carte diffondendo falsi sondaggi circa il proprio indice di gradimento politico, sicuro che, per imitazione, tanta gente che non lo avrebbe nemmeno considerato correrà a votarlo, rendendo i falsi sondaggi una profezia che poi si avvera. E’ la legge della società dello spettacolo, baby, bisogna farsene una ragione. Però poi c’è il rovescio della medaglia: alla corte dei famosi tycoon arrivano eserciti di ruffiani che ad ogni richiesta di tastare il polso alla nazione rispondono invariabilmente nel modo che credono faccia piacere al loro capo. Specchio specchio chi è il più figo del reame? Digitare uno se si desidera la risposta “tu, naturalmente”. La Realtà è “comunista” (in altri tempi si sarebbe detto: “è del Maligno”).
Ma la verità bisognerebbe conoscerla sempre, per non perdersi nel mondo delle favole, dal quale, a volte, non si riesce più a tornare. E in casa Bossi, tornare indietro dalle favole è difficile al punto che, quando non bastano più, si preferisce ricorrere alla mitologia. Intendiamoci: è la mitologia di chi ha fatto la Scuola Radio Elettra, mica quella di chi ha letto “Le nozze di Cadmo e di Armonia”.
E così, il resto della storia è tutto un susseguirsi di insegne: la canottiera esibita come un capo di lingerie erotica, e tutto quel dilagare di verde, dalle cravatte all’immancabile fazzoletto da taschino, fino alla full immersion nel mito: la sacra ampolla, una nazione che non esiste neppure nella coscienza dei propri mal delimitati abitanti, eserciti virtuali, elmi le cui corna fanno pensare più alla beffa che si consuma ai danni di un popolo militante e soggiogato nell’ipnosi collettiva che alla discendenza dai Celti, carri armati di cartapesta, parlamenti e ministeri finti come le capanne che ci costruivamo da ragazzi: tutto assomiglia sempre di più a uno psicodramma, a una messinscena da bambini che giocano alla guerra e agli eroi: «io “ero” Sandokan e tu eri James Brooke» (nel nostro linguaggio di bambini, per ragioni misteriose, l’imperfetto fu sempre un marcatore, usato per distinguere il gioco dalla realtà).
Nella famiglia di Renzo, la bugia ha radici profonde: la madre, insegnante e appassionata di magia, pare lo voglia successore del padre, alla testa di un movimento rivoluzionario che restaurerà la Verità e la Giustizia, usurpate da Garibaldi e da Roma ladrona, nuova versione delle congiure demo-giudaico-massoniche, guidato da un nuovo Alberto da Giussano.
Già ma come si fa a essere albertidagiussano? Ci si nasce o si diventa? C’è qualche scuola apposita? Renzo non lo sa, e non si pone il problema, perché i suoi non glielo hanno detto. Ma quella della scuola apposita no, non sembra: perché gli hanno detto che lui lo sarà comunque, e quindi dev’essere vero. E poi sua mamma è maestra e queste cose le sa.
Gli eroi e i capi rivoluzionari, se vogliono entrare nella Storia senza sfigurare, devono avere una paga adeguata. A questo pensa il partito, che fa avere a Renzo uno stipendio mica male, per una mansione che non richiede poi grande applicazione. Nel frattempo, il giovanotto, con tutti quei soldi in tasca, fa quello che farebbe qualsiasi ragazzo che potesse disporre di diecimila euro al mese: donne e champagne, mica seghe e gazzose come i compagni che ha lasciato, economicamente parlando, indietro. Ma diecimila al mese vanno via come l’acqua; e oltretutto ora Renzo ha un sacco di amici arrivati da ogni parte. Di qualcuno si dice che sia poco raccomandabile, ma la cosa non impensierisce sua mamma e dunque non dev’essere un problema.
Un capo rivoluzionario, un eroe, ha bisogno di titoli onorifici: dottore, professore, avvocato, ingegnere.
Veramente oggi, dopo l'istituzione delle lauree triennali, i titoli accademici cominciano a diventare stretti, e bisogna allargarsi. Anche a me capita, quasi quotidianamente, di sentirmi chiamare “professore” nonostante io non abbia diritto a questo titolo. Saranno gli anni, la barba bianca, la parlantina e lo sguardo meditabondo; oppure il desiderio di qualcuno di manifestarmi genuinamente stima e rispetto, o magari anche piaggeria: fatto sta che molta gente mi chiama, indebitamente, professore. E a me torna sempre alla mente l’ironia di Pietro Germi (“Un maledetto imbroglio”), quando, nei panni del commissario Ingravallo passato dalle pagine del Pasticciaccio di Gadda al cinema, ripeteva continuamente a chi lo chiamava dottore, come un mantra utile soprattutto a sottolinearne l’irritazione di fondo per quanto gli accadeva attorno: “non sono dottore!”. Ma erano altri tempi.
Oggi, chiunque abbia ricoperto il ruolo di presidente di qualcosa è presidente a vita, anche dopo la scadenza del mandato. Persino la carica di “senatore a vita” che per definizione non scade mai, sembra non bastare. L’usanza cominciò con Cossiga, che quanto a narcisismo patologico non scherzava. Così, in televisione quando viene intervistato un giornalista, tutti lo chiamano invariabilmente “direttore”, perché signor cronista o caro collega sembra limitativo, e qualcuno magari si offende.
Così anche per Renzo Bossi ci voleva una laurea. Ma ormai, recisi i legami con la Realtà, anche un diploma scritto in albanese va bene, anche se potrebbe essere come la vetrofania con la finta croce da medico che il mio amico Federico, un grafico mancato (e medico vero) cui questo Blog deve molto,  aveva prodotto in serie per tutti noi, al primo anno di Medicina, usando i trasferelli, perché allora non c’era il computer.
E così, strappato il diploma a colpi di proclami politici e comperata la laurea in albanese, al povero Renzo non restano più molte occasioni per imparare a nuotare: l’oceano è sempre lì davanti, enorme, scuro, terribile e agitato, ma lui difficilmente riuscirà a lasciare la piscinetta di casa dove i suoi lo hanno confinato, tagliandogli tutte le strade di accesso al mare. E’ grande abbastanza per scappare, ma potrà farlo?


P.S.: chiedo scusa a Renzo Bossi per questa mia intrusione nel suo privato; ma si tratta, purtroppo per lui, di un privato molto pubblico. Ciò che gli auguro, con tutta sincerità, è che la mia ricostruzione immaginaria di aspetti della sua vita affettiva sia assolutamente arbitraria e lontana dalla realtà. E’ questo il mio personale augurio di buona fortuna, accanto a quello di farcela in qualunque modo che sia lecito, a dispetto di un ambiente di sviluppo che non ha rispettato le sue esigenze vitali. Ricominciare da capo non è impossibile; ma bisogna ricominciare da una parola sincera.

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