Non mi è mai accaduto di piangere davanti a un paziente, e preferirei che non capitasse, anche se farlo non mi sembrerebbe una tragedia.
Tempo fa, poco dopo l’alluvione che il 4 novembre 2011 ha colpito la zona di via Fereggiano a Genova, noi del Centro Trauma (*) ci siamo messi a disposizione per dare sostegno alle vittime del disastro. Pochi giorni dopo, incontro una coppia colpita dall’esondazione: sono rimasti senza casa, dopo che il fiume li ha risparmiati soltanto perché, rompendo gli argini, è andato a uccidere da un’altra parte. Quando ci sediamo di fronte, il marito dice qualcosa con difficoltà, mentre lei mantiene gli occhi, di un azzurro intenso e scintillante, fissi nel vuoto. All’improvviso i nostri sguardi si incrociano, e io, dentro di me, praticamente a freddo, sento salire agli occhi come una gran massa d'acqua, un bisogno quasi violento di piangere. Capisco che, almeno per oggi, lei non dirà nulla; ma penso che, in fondo, ci siamo già detti molto più di quanto potessi aspettarmi da un primo colloquio.
Più tardi, ripensando all'azzurro così intenso di quegli occhi, li immagino come invasi sul punto di tracimare; piangere è vietato, perché un altro diluvio sarebbe insopportabile. Mi piace pensare che quella donna abbia usato i miei occhi come canale scolmatore.
(*) Centro Trauma per la diagnosi e la cura degli stati di stress post-traumatico nei bambini, negli adolescenti, e nelle donne. Struttura Complessa Assistenza Consultoriale, ASL 3 Genovese.