Perché Wiesbaden 1932


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Detto ciò, benvenuti nel mio Blog, angolo per riflessioni da condividere con colleghi e amici selezionati.











domenica 16 dicembre 2012

FORME DI ADATTAMENTO AI TRAUMI PSICHICI


Il trauma esogeno infantile, causato da grave trascuratezza, abbandono, o aggressione violenta, evoca lo spettro della morte. La rescissione delle radici parentali, causata dall'assenza o dal venir meno improvviso del sostegno genitoriale, o addirittura dalla sopraffazione estrema da parte di chi ci si aspetta debba fornire protezione, può avere due sole vie d'uscita: la morte o l'adattamento.
L'adattamento al trauma è una condizione psicopatologica grave (soprattutto perché implica la persistenza dell'agente traumatogeno o addirittura la sua promozione o conferma nel rango di caregiver), ma è anche una via di sopravvivenza rispetto a evoluzioni estreme quali la frammentazione o la morte psichica, la morte tout-court, gli stati dissociativi permanenti.
Ancora troppo spesso, quando una vittima di violenza incontra le Istituzioni che dovrebbero proteggerla, pesa invariabilmente su di lei un sospetto di menzogna prodotta per conto proprio o per procura, di complicità, o addirittura di primo agente provocatore dell'aggressore, come purtroppo ebbe a scrivere uno psicoanalista della statura di Karl Abraham (in: Il trauma sessuale come forma di attività sessuale infantile, 1907).
Se si studiano a fondo i resoconti di Sàndor Ferenczi sull'analisi della paziente R. N. (Diario Clinico Gennaio-Ottobre 1932), si comprende con chiarezza come i traumi estremi patiti nell'infanzia implichino profonde scissioni nella personalità della vittima (ma analoghe considerazioni si potrebbero fare per le vittime adulte di violenza radicale subita nei campi di sterminio, o in condizioni di sequestro, di tortura, o simili). In tali stati psichici le funzioni protettive sono spesso demandate a piccoli frammenti della personalità originaria, o, nei bambini piccoli, potenziale. Questi frammenti assumono il compito di conservare forme sia pure infinitesimali di benessere.
Nelle condizioni in cui l'agente traumatico non può essere allontanato per assenza di aiuti esterni, l'adattamento al trauma diventa un'indispensabile funzione di sopravvivenza psichica. Esso può consistere in forme più o meno larvate di consenso alle aggressioni subite, anche alle più efferate, o al ricorso a stati allucinatori che rappresentino la scena come distante da chi la subisce. La necessità di trovare un modus vivendi con l'aggressore assume in questi casi importanza vitale.
Questi stati mentali, se ignorati dai tecnici e dai magistrati cui spetta il compito di fornire protezione, possono dar luogo a gravissimi fraintendimenti del tutto analoghi a quello che compare nel menzionato articolo scientifico di Karl Abraham.
Tali fraintendimenti danno luogo a fenomeni di ri-abuso, questa volta di provenienza istituzionale, e hanno spesso l'effetto perverso di compromettere per sempre ogni futura speranza di riparazione del tessuto psichico tanto profondamente lesionato.
L'avvio di procedure terapeutiche o giudiziarie, infatti, costituisce una rottura dello stato di adattamento e un passaggio dal perimetro della relazione abusiva a quello di un'altra che pretenderebbe di essere protettiva.
Tuttavia le condizioni nelle quali i meccanismi di adattamento si erano precedentemente instaurati erano così drammatiche da non consentire alternative; ed è pertanto comprensibile e razionale la resistenza del soggetto ad abbandonare la zattera alla quale si è tanto faticosamente aggrappato.
Per questa ragione, chi è investito di compiti tecnici ha l'obbligo di un'ampia conoscenza e di una capacità di previsione delle possibili evoluzioni dello stato di adattamento e della sua maggiore o minore rigidità, al fine di evitare comportamenti sia pure involontariamente iatrogeni e quindi destinati a riproporre come maggiormente affidabile lo stato mentale adattato.
Se, ad esempio, gli abusi sessuali a carico di un bambino si erano accompagnati a un'ingiunzione spesso terribilmente minacciosa di omertà, occorre sapere che l'esposizione dei fatti criminosi di fronte a un perito o a un giudice rappresenterebbero una rottura (di per sé non facilmente ottenibile) del patto omertoso, che per essere realizzabile e duratura, richiede una precisa contropartita: quella di una protezione certa e definitiva. Se questa non può esserci (e la dinamica processuale fa spesso in modo che non ci sia, come nei numerosissimi casi in cui il presunto reo non è riconosciuto colpevole per insufficienza delle prove addotte, che dipendono peraltro, e in grandissima parte, dalla capacità e dal grado di libertà espositiva della giovanissima vittima), allora il risultato dell'atto di fiducia nel mondo adulto fatto dal bambino nel confidarsi con una o più persone, andrà incontro nientemeno che alla restituzione alla potestà dell'abusante che non è stato riconosciuto come tale.
Ciò comporta il ritorno definitivo del bambino sotto la potestà del carnefice e nello stato di adattamento, considerati come luoghi maggiormente inespugnabili e sicuri di ogni stanza di terapia o aula di tribunale.

lunedì 10 dicembre 2012

QUANDO MUORE IL PROPRIO ANALISTA

Quando seppe della morte di sua madre, fu gesto istintivo il coprirsi il volto.
Ora che gli avevano annunciato la morte di chi era stato suo analista (con il quale erano sorti equivoci e incomprensioni, seguite poi da un silenzio tombale protrattosi inviolato per oltre venticinque anni) provò un sentimento dapprima indecifrabile, sospeso fra il dolore e l'indifferenza.
La notizia lo raggiunse mentre stava mostrando a un amico un calendario per l'anno nuovo con bellissime foto de La Sagrada Familia. Il primo pensiero che gli venne, appena si fu riavuto dalla sorpresa, fu proprio quel calendario.
Aveva pensato per molti anni a quella morte, spesso augurandosela. Ma non perché lo odiasse. Si era semplicemente sentito incompreso e aveva trovato molto strano che il suo analista non fosse mai colto dalla curiosità di conoscere ciò che nessuno dei due (per esplicita ammissione di entrambi) aveva capito al termine di un'analisi che aveva lasciato immutate tutte le cose, anche quelle secondarie (illusioni a parte). “Una class action gli avrei dovuto fare”, soleva ripetersi.
Gli era sembrato di non desiderare nulla da lui, e neppure quella morte alla quale, ogni tanto, pensava. Ma “chi pensa alla morte di qualcun altro”, si era detto con ragionare schematico, “probabilmente se la augura”.
Riguardò il calendario e pensò che nel momento in cui lo aveva comperato non avrebbe supposto di scartarlo proprio all’arrivo della notizia. Aveva l'impressione, bizzarra impressione, che quel calendario, per il futuro, gli sarebbe stato caro.
Poi gli tornò in mente l'incipit dell'Aleph di Borges e si rese conto che era di proprio di questo che parlava:

"L’incandescente mattina di febbraio in cui Beatriz Viterbo morì, dopo un’imperiosa agonia che non si abbassò un solo istante al sentimentalismo né al timore, notai che le armature di ferro di piazza della Costituzione avevano cambiato non so quale avviso di sigarette; il fatto mi dolse, perché compresi che l’incessante e vasto universo già si separava da lei e che quel mutamento era il primo di una serie infinita.

Ora anche quel calendario era esterno alla vita del morto. Quando lo aveva comperato, lui era ancora in vita e ora, dentro quella leggera foschia di tristezza, pensava al fatto di non aver immaginato che quando lo avesse scartato lui non sarebbe stato più. Non che pensasse a lui sempre: solo ogni tanto. E quei pensieri di morte che tornavano non troppo di rado ora gli apparivano per quello che erano: segni di antiche rabbie inespresse, ma non solo. Anche oscure premonizioni  di ciò che stava provando ora.
Ripensò all'ultima seduta di tanti anni prima, che era stata anche l'ultimo incontro. L'altro aveva concluso la conversazione con una certa mestizia: "sa, non ho capito che cosa non ha funzionato fra noi". Lui se ne andò, ripetendo fra sé una canzone che gli diceva di andare via di lì, e non tornò mai più. Quanto a quell'interrogativo irrisolto su ciò che non aveva funzionato, se lo sarebbe risolto da solo, molti anni più tardi.
Adesso, ripensando alla ragione della sua tristezza, scopriva di aver desiderato per tutto quel tempo che anche all'altro fosse rimasta la stessa curiosità di sapere il perché delle cose non accadute. Ma siccome nessuno dei due avrebbe fatto mai il primo passo, la morte avrebbe lasciato entrambi all'oscuro l'uno dell'altro. E sarebbe stato per sempre.

sabato 8 dicembre 2012

QUANTO E' LUNGO IL FUTURO?


Dentro la stanza a tre letti c'è un'indefinibile odore di chiuso, misto ad altri che fanno pensare a corpi rilavati da poco, a farmaci e a cibi poco invitanti. La vecchia del letto di mezzo dorme con la bocca aperta. È immobile: sembra morta. Sono mesi che sembra morta.
Nel corridoio, fra l'andirivieni di infermiere vocianti e di degenti che si preparano per tempo per la cena serale delle cinque, la donna passeggia nervosamente avanti e indietro come chi sia pressato da un compito urgente che la riporta subito sui suoi passi, una volta esaurite le mattonelle di quel breve percorso. Ogni tanto la donna entra nelle stanze più affollate, dove i parenti scambiano concitatamente informazioni con le ausiliarie di turno (qui tutto è frenetico, a dispetto del tempo che non passa: chi può, ha fretta di andar via). La donna guarda gli interlocutori con aria interrogativa, come chi si senta chiamato a un compito urgente. Si inserisce nelle discussioni senza interloquire, con l'aria un po' stupita per il fatto di esserne estranea e all'oscuro. Forse è alla ricerca di un'efficienza perduta, di un protagonismo domestico che ne aveva fatto, al suo buon tempo, una donna spiccia e abituata al ponte di comando.
Dopo aver guardato gli interlocutori con aria perplessa, la donna esce di scatto dalla stanza, per riprendere quel suo affaccendarsi inoperoso, percorrendo a passi decisi quel piccolo corridoio, come a risolvere una nuova incombenza subito destinata a dissolversi contro un muro in penombra.
Oggi ci siamo parlati. Mentre sono nel corridoio in attesa, si affianca e mi guarda. Vedendo che ricambio lo sguardo, dice come se io comprendessi: "è là ...", indicando un punto vuoto, a metà del corridoio. Io non dico nulla, ma la guardo annuendo, con un gesto d'intesa. Mi guarda e prosegue, con l'aria quasi rassicurante: "ma non è ...". Sembra che voglia alludere a qualcosa o a qualcuno rispetto a cui ci si può rassicurare. Allora io dico: "ma non fa paura, vero?" "No, no, assolutamente". "Proprio così, proseguo, sembra anche a me che non faccia paura".
Subito dopo mi allontano. Le stesse ragioni che mi hanno condotto qua, mi portano fuori dal reparto per circa un quarto d'ora. Poi ritorno dentro.
Sono ancora nel corridoio, in attesa. La donna sta procedendo verso di me, e inizia a gesticolare, come per chiedermi di andarle incontro, intanto che procede. Io rimango fermo, con lo sguardo a terra. La signora mi viene accanto: "lei è quel signore di prima, vero? perché non è venuto? La chiamavo!" "Mi scusi, rispondo mentendo, ero soprappensiero, guardavo per terra e non ho visto che mi chiamava". In realtà volevo risponderle, evitando però di andarle incontro per non trasformare la nostra conversazione di prima in una pantomima che non avrebbe fatto bene né a lei né a me.
Mi guarda e dice: "io sono andata. Ho cercato di ..." fa un gesto con le mani, come chi mette assieme qualcosa. Fantastico di un oggetto assemblato in maniera precaria, la cui persistenza durerà un tempo molto limitato.
"Io, sa, ho fatto quello che potevo ... Per adesso sembra che ... Ma non so se ... Non so per quanto ...." La ascolto attentamente: davanti a quel discorso che in altri momenti della mia vita avrei  considerato fastidioso, mi sento a mio agio. Lei non sa dire, ma ciò che vorrebbe dire per me è chiaro: basta pensare a quanto futuro le resta. È una donna dal fisico ancora energico e scattante, ma il suo destino potrebbe misurarsi su di una corona di rosario fatta di piccoli istanti.
Ho pensato altre volte al significato di un futuro che si accorcia. E mi sono chiesto anche come sarò io quando me ne resterà pochissimo. Per questo non mi sembra per niente  strano o incomprensibile quel suo sconsolato bisogno di dirmi che lei il suo futuro sta cercando di tenerlo assieme, e per un po', forse, ci riuscirà. Ma per quanto tempo ancora? Non è tutto così dolorosamente precario?
Più tardi, siamo seduti nella caffetteria dell'Istituto, assieme alla persona che siamo venuti a trovare. "Sono contenta", dice mia figlia, all'improvviso. "Di che cosa?", le chiedo. "Di tutto!".

(Al momento di andar via dopo il pasto delle cinque che prelude al ritiro in camera delle degenti per una notte che inizia all'imbrunire, una donna che vedo per la prima volta, mi chiama: "dove vai?" "vado via", rispondo. "Vai già via?" "E' tardi" "Che ora è?", insiste. "Sono le cinque e mezza", rispondo. "Ma non è tardi, allora! Puoi restare ancora un po'").

giovedì 6 dicembre 2012

OTTIMISMO


Io sono un ottimista. Dopo tanti anni affronto il mio lavoro con avidità ed entusiasmo infantili. Credo di avere una buona dose di energia, che cerco di trasmettere. Ho attraversato luoghi desolati e pieni di dolore, e ogni volta che ho potuto ho detto: vedi questo è stato, ma ora non è più. Ora lo guardiamo da una postazione sicura. Lo possiamo guardare perché non hai più bisogno di loro. Loro ti facevano del male e tu non potevi rappresentarteli così come li percepivi perché non lo avresti sopportato. Così, seppellivi il dolore e il disgusto, fingendo che non ci fossero. Così sei cresciuta nella nebbia di chi non sente il dolore. Ma una parte di te, esiliata, avrebbe voluto piangere. Ora può.
Dire questo è possibile se si percepisce la differenza fra ieri e oggi, fra il buio e la luce. Ma con lei non ci riesco.
Quando entra lei, sembra che entri una forma leggera e goffa, inconsistente e disarmonica. Urta le sedie ma non tocca terra.
Una volta mi ha detto: “in certi posti non sono bene accolta”. La frase mi è caduta addosso come uno schiaffo, perché in certi momenti io desidero che lei non ci sia. Eppure so che se non la sorreggo cade, e se la lascio cadere io, cade per sempre.
Oggi la seduta è stata particolarmente pesante: cinquanta minuti di orrore e di rabbia sorda, per fuggire dalla quale mi rintanerei volentieri nella fantasia di uccidere suo padre e i suoi amici. Ma la cosa insopportabile non è quello che mi racconta, ma il fatto che non riesco a vedere niente. E’ un tunnel infinito, senza uscita, e probabilmente, il mio compito, per adesso, è quello di rimanere qui, con lo stomaco stretto e le palpebre pesanti, senza poter dire altro che dei mh.
Ecco, sono riuscito a formulare due parole meno pesanti: “per adesso”. Peccato che lei non sia qui, a sentirne il rumore.

domenica 2 dicembre 2012

ANALISTI FERENCZIANI


In un breve lasso di tempo, ben due Colleghi mi hanno chiesto informazioni relative alla possibilità di reperire un analista "ferencziano".
La richiesta mi ha un po' spiazzato perché, a parte la possibilità di offrire nominativi "classici" di personalità scientifiche che più a lungo di altri hanno riflettuto e scritto sull'opera, la vita e lo stile di Ferenczi imparando a mutuare criticamente da lui la loro prassi clinica quotidiana (in Italia: Franco Borgogno e Carlo Bonomi), non saprei proprio che cosa rispondere.
Se ripercorro l'elenco dei soci dell'Associazione Culturale Sàndor Ferenczi, trovo decine di nomi di colleghi che hanno esperienza, capacità, competenza, empatia, originalità e autonomia di pensiero. Ma di nessuno di loro potrei dire che è "ferencziano", così come non posso dirlo di me stesso.
Perché io non so che cosa significhi essere ferencziano: anzi, l'unica cosa di cui sono certo è che ciò non potrebbe mai significare appartenenza a un gruppo definibile come tale.
L'Associazione di cui faccio parte si ispira al nome e all'opera di Ferenczi e partecipa a un network internazionale in cui professionisti di vari Paesi condividono il piacere e l'interesse scientifico per l'opera di Ferenczi e per la sua storia personale, indissolubilmente intrecciata con la storia della psicoanalisi di cui sono accaniti studiosi, e si riuniscono ogni tre anni in varie parti del mondo per riflettere assieme sui temi a loro cari.
Le associazioni culturali simili alla nostra (ve ne sono, in numero crescente, in varie nazioni) non sono per nulla definibili come società psicoanalitiche nel senso proprio del termine. Una società psicoanalitica di stampo tradizionale, in qualsiasi orientamento e compagine internazionale essa si riconosca, ha caratteristiche ben precise, disponendo innanzitutto di  un Istituto di training che forma allievi ai quali conferisce la qualifica di psicoanalista come risultato di tale formazione, e, in genere, è composta soltanto di soci formati al proprio interno.
L'Associazione Culturale Sàndor Ferenczi ad esempio, non è nulla di tutto questo: promuove incroci di saperi diversi, fa circolare le idee, non fornisce diplomi o qualifiche , né decreta appartenenze. È nata e continuerà a essere, orgogliosamente, un luogo trasversale e aperto a chiunque condivida le stesse finalità, inclusivo e soprattutto scientificamente laico, nel senso più ampio che a tale termine si può conferire.

Ma allora, ci si potrebbe chiedere, quali caratteristiche dovrebbero avere psicoanalisti o psicoterapeuti che abbiano scelto l'opera di Sàndor Ferenczi come fonte principale di ispirazione?

Cercherò di rispondere, senza l'ambizione di scrivere un "manifesto" (non ne avrei l'autorità, né la necessaria statura scientifica), ma provando a tracciare una mappa aperta e suscettibile di ogni sorta di integrazioni e modifiche, alle quali solleciterei chi mi legge a contribuire. Elencherò quindi alcune caratteristiche così da delineare un profilo.

1) Innanzitutto, il bipersonalismo. È l'idea che nella situazione analitica non entra soltanto l'inconscio del paziente ma anche quello dell'analista. Anche l'inconscio dell'analista deve essere analizzato in primo luogo dal terapeuta stesso, che dovrebbe essere in grado di accogliere con onestà autocritica le eventuali intuizioni "controtransferali" del paziente, riconoscendole e ammettendone con lui la fondatezza. Un comportamento opposto avrebbe come conseguenza la repressione della capacità intuitiva del paziente che sarebbe spinto, come sostiene Ferenczi nel Diario Clinico, a "essere offeso per la mancanza o scarsità di interesse"; a "cercare la causa della mancata reazione in se stesso, nella qualità della sua comunicazione" e, ciò che è più grave, "a dubitare della realtà del contenuto" dei propri pensieri (Diario Clinico, 7 Gennaio 1932, "L'insensibilità dell'analista").
2) In secondo luogo un'attenzione precisa e non occasionale agli eventi storici della vita del paziente e al loro manifestarsi all'interno delle produzioni inconsce. In particolare alle esperienze traumatiche e al loro potenziale "estrattivo" (il termine è di Borgogno) e distruttivo delle passioni vitali e delle pulsioni autoconservative dell'individuo.
3) Poi, una declinazione della tecnica e dell'atteggiamento emotivo che includa lo stile materno nel lavoro clinico, non disdegnando di aiutare il paziente a vivere un'"esperienza emozionale correttiva" che, depurata di qualsiasi atteggiamento pedagogico e saldamente sostenuta dalla capacità di utilizzare la rêverie di entrambi gli interlocutori, consenta la ripetizione degli affetti mobilitati nella precedente relazione traumatica in un contesto questa volta protettivo, per un "nuovo inizio" (secondo la nota definizione di Michael Balint).
4) La disposizione a sostenere un alto grado di mutualità nella relazione terapeutica, mantenendo come punto fermo l'asimmetria della stessa.
5) Lo studio critico e spassionato della storia della psicoanalisi come fonte di riflessione sulla realtà naturalmente e vitalmente conflittuale del pensiero psicoanalitico e delle vicende del suo  sviluppo, nella serena convinzione che la psicoanalisi, come tutto ciò che è vivo, si muove e si trasforma incessantemente.
6) La tensione verso una condizione di autentica "laicità" della psicoanalisi (dove con l'aggettivo "laico" si intende non semplicemente "non medico", come nell'uso storicamente invalso, ma più correttamente "non clericale") nel rispetto della sua originaria ispirazione anti-idolatrica, attraverso la consapevolezza della necessità di superamento di qualsiasi forma di clericalismo e di idealizzazione dei Padri, che rischi di condurre a forme larvate di conformismo scientifico e di autoritarismo didattico.

Questi ed altri a venire (la discussione è aperta) i punti che potrebbero caratterizzare il profilo di un ipotetico o ideale analista che si ispiri alle idee di Ferenczi.