Perché Wiesbaden 1932


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lunedì 10 dicembre 2012

QUANDO MUORE IL PROPRIO ANALISTA

Quando seppe della morte di sua madre, fu gesto istintivo il coprirsi il volto.
Ora che gli avevano annunciato la morte di chi era stato suo analista (con il quale erano sorti equivoci e incomprensioni, seguite poi da un silenzio tombale protrattosi inviolato per oltre venticinque anni) provò un sentimento dapprima indecifrabile, sospeso fra il dolore e l'indifferenza.
La notizia lo raggiunse mentre stava mostrando a un amico un calendario per l'anno nuovo con bellissime foto de La Sagrada Familia. Il primo pensiero che gli venne, appena si fu riavuto dalla sorpresa, fu proprio quel calendario.
Aveva pensato per molti anni a quella morte, spesso augurandosela. Ma non perché lo odiasse. Si era semplicemente sentito incompreso e aveva trovato molto strano che il suo analista non fosse mai colto dalla curiosità di conoscere ciò che nessuno dei due (per esplicita ammissione di entrambi) aveva capito al termine di un'analisi che aveva lasciato immutate tutte le cose, anche quelle secondarie (illusioni a parte). “Una class action gli avrei dovuto fare”, soleva ripetersi.
Gli era sembrato di non desiderare nulla da lui, e neppure quella morte alla quale, ogni tanto, pensava. Ma “chi pensa alla morte di qualcun altro”, si era detto con ragionare schematico, “probabilmente se la augura”.
Riguardò il calendario e pensò che nel momento in cui lo aveva comperato non avrebbe supposto di scartarlo proprio all’arrivo della notizia. Aveva l'impressione, bizzarra impressione, che quel calendario, per il futuro, gli sarebbe stato caro.
Poi gli tornò in mente l'incipit dell'Aleph di Borges e si rese conto che era di proprio di questo che parlava:

"L’incandescente mattina di febbraio in cui Beatriz Viterbo morì, dopo un’imperiosa agonia che non si abbassò un solo istante al sentimentalismo né al timore, notai che le armature di ferro di piazza della Costituzione avevano cambiato non so quale avviso di sigarette; il fatto mi dolse, perché compresi che l’incessante e vasto universo già si separava da lei e che quel mutamento era il primo di una serie infinita.

Ora anche quel calendario era esterno alla vita del morto. Quando lo aveva comperato, lui era ancora in vita e ora, dentro quella leggera foschia di tristezza, pensava al fatto di non aver immaginato che quando lo avesse scartato lui non sarebbe stato più. Non che pensasse a lui sempre: solo ogni tanto. E quei pensieri di morte che tornavano non troppo di rado ora gli apparivano per quello che erano: segni di antiche rabbie inespresse, ma non solo. Anche oscure premonizioni  di ciò che stava provando ora.
Ripensò all'ultima seduta di tanti anni prima, che era stata anche l'ultimo incontro. L'altro aveva concluso la conversazione con una certa mestizia: "sa, non ho capito che cosa non ha funzionato fra noi". Lui se ne andò, ripetendo fra sé una canzone che gli diceva di andare via di lì, e non tornò mai più. Quanto a quell'interrogativo irrisolto su ciò che non aveva funzionato, se lo sarebbe risolto da solo, molti anni più tardi.
Adesso, ripensando alla ragione della sua tristezza, scopriva di aver desiderato per tutto quel tempo che anche all'altro fosse rimasta la stessa curiosità di sapere il perché delle cose non accadute. Ma siccome nessuno dei due avrebbe fatto mai il primo passo, la morte avrebbe lasciato entrambi all'oscuro l'uno dell'altro. E sarebbe stato per sempre.

2 commenti:

  1. A me è capitato. Ho reso eterno un silenzio credendo fosse l'unico modo possibile per assolvere per sempre chi temevo colpevole: in contumacia...

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  2. Per non incappare negli inconvenienti di cui sopra, bastano pochi ingredienti:
    1) in primo luogo, l'esistenza in vita dei due partner;
    2) quindi, una buona dose di curiosità reciproca per il pensiero dell'altro, oltreché -ça va sans dire- per il proprio;
    3) terza, ma non ultima, un'altrettanto buona dose di coraggio rispetto al sapere.

    Con questa ricetta, l'amministrazione della giustizia diventa più scorrevole, e i processi più rapidi.

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