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venerdì 14 ottobre 2011

LA "PIETAS" DELLO PSICOANALISTA

A volte, incontriamo parole che si depositano dentro di noi perché cariche di un’attrattiva misteriosa, il cui senso profondo ci si chiarisce solo nel corso del tempo.
Nei miei ricordi è rimasta appuntata la parola latina “pietas”, udita alle scuole medie, e rivelatasi immediatamente capace di muovere in me un affascinato rispetto, perché così simile e allo stesso tempo distante da  “pietà”, parola comune e banale, sgradevole e di senso irrimediabilmente compiuto.
Se la pietà era un inchinarsi verso una condizione di minorità, la “pietas” di Enea mi appariva come un gesto di autentica umiltà, un guardare in alto, non tanto verso il Dio proclamato da qualche religione organizzata, ma verso una dimensione allo stesso tempo “alta” ed eticamente “giusta” dell’esperienza umana, non disgiunta da un certo grado di bellezza. Risuonata nelle mie orecchie di adolescente come parola ben più attraente dello stantio predicare dei catechisti, la “pietas” rimase nella mia libreria interna come un reperto prezioso ancorché indecifrabile, anche attraverso le successive trasformazioni che dalla religiosità ingenua e conformista dell’infanzia mi condussero all’agnosticismo  dell’età adulta.
Oggi, parlando con un giovane collega, questa parola mi è tornata alla mente come possibile dimensione interna dell’atto del curare psicoanaliticamente.
Un analista non pietoso ma “pius” potrebbe riunire in sé, nell’incontro con il paziente, l’empatia, una piena consapevolezza del carattere bipersonale della relazione analitica, la capacità di armonizzarne le profonde implicazioni di mutualità con un atteggiamento necessariamente asimmetrico perché appartenente al registro genitoriale, lo stile terapeutico “materno” (cioè non autoritario, né freddamente "neutrale"), una profonda capacità di identificazione con le vittime di relazioni predatorie,  e infine la tolleranza per la critica anche inconscia che proviene dal paziente e il coraggio di riconoscere con umiltà i propri errori. L’insieme di questi ingredienti potrebbe forse essere chiamato la “pietas” dello psicoanalista.

2 commenti:

  1. Senz'altro d'accordo: pius mi sembra un attributo importante per lo psicoanalista oggi. A me pietas ha sempre evocato Antigone col suo "nacqui a generar amor, non odio", a Creonte che impediva la degna sepoltura ai di lei fratelli Eteocle e Polinice. Antigone trasgredirà la legge, mossa da pietas, disposta a subire le conseguenze della sua trasgressione, e ricomporrà con amore le salme dei fratelli morti nell'odio fratricida. Ancora, è Antigone che troviamo al fianco di Edipo nel suo cammino verso Colono, dove Edipo, nel bosco sacro alle Eumenidi alle porte di Atene, consegnerà a Teseo i segreti della democrazia e poi scomparirà per sempre, lasciandoci la speranza che si possa davvero superare il destino crudele che tocca ai figli di Laio e Giocasta. Cosa meglio anche di questo per rinforzare il senso del tuo pensiero sull'analista "pius"? Abbiamo anche un modello femminile, senza sdolcinatura nè forzature di sorta. "Pietas", appunto.

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  2. Antigone è un'icona dell'etica. Quindi il tuo suggerimento ci porta in una dimensione alta dell'etica dello psicoanalista. Già Etchegoyen aveva scritto che in psicoanalisi etica e tecnica sono inscindibili. In effetti è vero: in nessun altro mestiere o arte il risultato è altrettanto condizionato dalla correttezza tecnica e dalla trasparenza deontologica come in questo. Se tu chiami il miglior idraulico della città che ti fa un lavoro perfetto e poi ti ruba un anello, non per questo il tuo lavello ricomincerà a gocciolare. Mentre per lo psicoanalista l'infrazione etica comporta il crollo dell'opera. Ma forse c'è di più: l'invito alla Pietas
    non richiede soltanto di astenersi dall'Empietas, ma anche di compiere un atto di maternità che va molto oltre la neutralità freudiana.

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