Perché Wiesbaden 1932


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sabato 8 ottobre 2011

LA GERARCHIA DELLA PAURA

Scrive Bruno Bettelheim (Sopravvivere e altri saggi, Feltrinelli, Milano 1981) che, nei campi di sterminio, anche i guardiani avevano paura, e che la distruzione degli Ebrei, dei Rom, degli Omosessuali, e di tutti gli altri Sommersi, era una prova generale di dominio delle popolazioni sottomesse (quella Tedesca in primo luogo) e di quelle ancora da sottomettere.
Non mi sembra da rigettare l'idea che chi esercita la violenza abbia paura: anzi, è probabile che questa sia una condizione necessaria, di base. Forse è proprio la vittima finale, ultimo gradino della scala dell'abominio, ad avere meno paura di tutti: egli è un morto che cammina, un anestetizzato. Grazie a quel grado di anestesia, molti di loro si salvarono, ed era constatazione comune, nei Lager, che chi sopravviveva per più di cinque anni, aveva una speranza di vita migliore di altri.
Ma quelli che stavano appena un po' sopra di loro, i kapò, commettevano di certo le efferatezze che commettevano per paura; la loro paura e il loro comportamento erano una coppia coerente, spiegabile con quel meccanismo che si chiama "identificazione, anzi: introiezione dell'aggressore" (Sándor Ferenczi, Confusione delle lingue fra gli adulti e i bambini, 1932). E, sopra di loro, la scala gerarchica della paura saliva fino al vertice. Forse anche le SS, nella loro estrema interpretazione del tragico declinata in forma di sadismo, avevano più paura di tutti.
Chi pensi che la gerarchia della paura abbia una sommità abitata dalla sicurezza, forse, sbaglia: Hitler si suicidò per evitare qualcosa di incomparabilmente più spaventoso di un processo e dell'inevitabile condanna all'impiccagione.
E' possibile che anche al di sopra del Capo ci sia un gradino più alto, abitato da un Nulla spaventoso (molti lo chiamano Dio, ma non ha apparenza misericordiosa).

In coda a queste considerazioni, un corollario: ogni tiranno colpisce mortalmente i suoi, prima che chiunque altro. Ne trasforma, terrorizzandoli, l'anima nel profondo. Nell'anima della vittima, almeno, può continuare ad abitare, nascosta, una sete incolmabile di giustizia e di umanità.
Ciò vale anche per i nostri piccoli e patetici dittatorelli di oggi, che si circondano di stuoli di individui pagati per prostrarsi avvilendosi quotidianamente. Essi hanno ottenuto le ferite più profonde e irreparabili, in cambio della loro sciocca, inutile, umiliante, e ridicola avventura.

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