Perché Wiesbaden 1932


PERCHE' "WIESBADEN 1932"? Leggete qui



Detto ciò, benvenuti nel mio Blog, angolo per riflessioni da condividere con colleghi e amici selezionati.











martedì 27 dicembre 2011

IL PRINCIPIO DEI VASI COMUNICANTI

Non mi è mai accaduto di piangere davanti a un paziente, e preferirei che non capitasse, anche se farlo non mi sembrerebbe una tragedia. 
Tempo fa, poco dopo l’alluvione che il 4 novembre 2011 ha colpito la zona di via Fereggiano a Genova, noi del Centro Trauma (*) ci siamo messi a disposizione per dare sostegno alle vittime del disastro. Pochi giorni dopo, incontro una coppia colpita dall’esondazione: sono rimasti senza casa, dopo che il fiume li ha risparmiati soltanto perché, rompendo gli argini, è andato a uccidere da un’altra parte. Quando ci sediamo di fronte, il marito dice qualcosa con difficoltà, mentre lei mantiene gli occhi, di un azzurro intenso e scintillante, fissi nel vuoto. All’improvviso i nostri sguardi si incrociano, e io, dentro di me, praticamente a freddo, sento salire agli occhi come una gran massa d'acqua, un bisogno quasi violento di piangere. Capisco che, almeno per oggi, lei non dirà nulla; ma penso che, in fondo, ci siamo già detti molto più di quanto potessi aspettarmi da un primo colloquio.
Più tardi, ripensando all'azzurro così intenso di quegli occhi, li immagino come invasi sul punto di tracimare; piangere è vietato, perché un altro diluvio sarebbe insopportabile. Mi piace pensare che quella donna abbia usato i miei occhi come canale scolmatore.


(*) Centro Trauma per la diagnosi e la cura degli stati di stress post-traumatico nei bambini, negli adolescenti, e nelle donne. Struttura Complessa Assistenza Consultoriale, ASL 3 Genovese.

lunedì 26 dicembre 2011

LA RELAZIONE PSICOANALITICA CON LA VITTIMA D'INCESTO

Riferendosi alla paziente B., che quattro anni prima aveva ricevuto una proposta amorosa da parte del padre, Ferenczi scrive nel Diario Clinico (*):

"ora si aspetta che: (1) io creda alla realtà dell'evento; (2) la rassicuri sul fatto di essere da me ritenuta innocente; (3) la reputi innocente anche se dovesse risultare che nell'aggressione lei ha sperimentato un enorme soddisfacimento e ha provato ammirazione per il padre; (4) le dia la certezza che non mi lascerò trasportare da una simile passione".

Leggendo queste righe mi chiedo: come mai un pensiero tanto lucido e lineare, e persino semplice da comprendere, è stato oggetto di feroce ostracismo, tacciato di eresia, ignorato e dimenticato per oltre ottant'anni? E oggi, di quanti terapeuti è patrimonio?

(*) Sándor Ferenczi (1932), "Sopportare la solitudine", 8 Agosto 1932. In: Diario Clinico, Milano: Raffaello Cortina editore, 1988, p. 293.

PELLE D'ASINO

Per sostenere l'appassionata richiesta, rivolta alla psicoanalisi, di spogliarsi di alcuni indumenti (in sospetto di paramenti), occorre contraddire molte obiezioni: di soggiacere a primitive difese, di essere schiavi di una furia iconoclastica di matrice invidiosa, di non voler vedere i propri conflitti interiori. In ogni caso, verremo accusati di voler asportare non indumenti, ma organi vitali. Ma perché negare la prova? E se, alleggerita degli orpelli, ci apparisse più bella, più calda e giovane di prima?

domenica 25 dicembre 2011

COME SI RICORDANO I SOGNI

Ricordare un sogno notturno proprio così come è stato è probabilmente impossibile. Ogni volta che ripercorriamo con la mente  un sogno, il mattino seguente o dopo molti anni, lo risogniamo. E ogni volta è espressione del momento presente, nell'incessante fluire della vita psichica.

venerdì 23 dicembre 2011

POSTILLA A "L'INQUIETUDINE DEI POTENTI"

Nel post "L'inquietudine dei potenti" (28 Settembre 2011), temo di avere un po' esagerato, paragonando il mio paziente ad Alessandro e me al filosofo cencioso (Diogene il Cinico). E se fosse vero il contrario?

lunedì 19 dicembre 2011

NELLA SCENA DEL MIO SOGNO C'E' SEMPRE LEI, DOTTORE ?

Un tempo, riconoscermi nel sogno di un altro mi gratificava; oggi, il pensiero di quella gratificazione mi imbarazza. Dobbiamo essere pronti ad accogliere qualsiasi fantasia, diurna o notturna, dei nostri pazienti, senza dimenticare che c'è qualcosa di impudico in ogni interpretazione di transfert che ponga l'analista al centro della scena. Dobbiamo proteggere i pazienti dal nostro narcisismo per far si che esso non cannibalizzi il loro: camminare nel prato altrui può essere necessario, ma è qualcosa di cui occorre chiedere "permesso" e "scusa".

CRIA CUERVOS Y TE SACARÁN LOS OJOS *

Giovanni (nome di fantasia) è un ragazzo di seconda media, il cui padre, disoccupato, si è suicidato otto mesi fa.
Giovanni  non va bene a scuola, e l’anno scorso, un paio di mesi dopo la morte del padre, sono stato costretto a intervenire presso la scuola perché non fosse bocciato. Una delle obiezioni che allora sentii fare da un paio di insegnanti fu che il ragazzo era un cattivo studente “anche prima della morte del padre”.
Oggi Milena, l’educatrice che si occupa di lui, mi riporta una frase pronunciata in sua presenza dal professore di ginnastica: “Giovanni è un pessimo studente, e non mi dica che la cosa dipende dalla morte del padre. Otto mesi dopo, il problema non c’è più. Io lo so perché sono padre”.
Mentre Milena parla, mi torna in mente Giancarlo Casseri, il militante razzista di Casa Pound che il 12 Dicembre 2011, a Firenze, ha ucciso gli ambulanti senegalesi Di
op Mor e Samb Moudou, e mi chiedo chi lo abbia aiutato a diventare così.

* alleva corvi e ti caveranno gli occhi

giovedì 8 dicembre 2011

I DID IT MY WAY

Fare psicoanalisi a modo proprio è peccato mortale, ma una psicoanalisi fatta a modo altrui è morta. Ed è di vitale importanza che la psicoanalisi non muoia.

domenica 20 novembre 2011

TRAVESTIMENTI

Da bambino, fu fortemente affascinato dai travestimenti perché lo avvicinavano in maniera concreta ai propri sogni. Usando materiali di recupero fu un po’ di tutto: cow-boy, sacerdote, re, antico romano, sandokan, capostazione, guerriero pellirossa. Poi, probabilmente all’improvviso, il travestimento cominciò a pesargli come un macigno, e ricorda di aver continuato ad usarlo, per indecisione e tra la benevolenza degli adulti, coltivando però una indicibile vergogna segreta.
L’età, la scuola, le ragazze, ricoprirono di un salutare velo di inattualità i suoi travestimenti, ma per un tempo lunghissimo ancora, destinato a sconfinare nella vita adulta, fu indeciso fra il disgusto per la finzionalità e un'oscura angoscia di mostrarsi nella propria immagine reale. Ora, da vecchio, misurava i centimetri di autenticità che si era tanto faticosamente conquistato.

giovedì 3 novembre 2011

RISCHI PROFESSIONALI

1. "E' difficile scrutare gli altri nel profondo e rimanere personalmente intatti". (Elias Canetti, La tortura delle mosche).

2. "Chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare egli stesso un mostro. E se tu guarderai a lungo in un abisso, anche l'abisso vorrà guardare dentro di te." (Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male).

3. Il contagio, a volte, ci guarisce.

martedì 1 novembre 2011

TRAUMDEUTUNG 2011

Spogliare il sogno fino ad afferrarne il significato nascosto, o rivestire il significato nascosto (e impensabile) con il tessuto dei sogni?

sabato 22 ottobre 2011

SE IL PAZIENTE ANALIZZA IL TERAPEUTA

Scrive Ferenczi: “Il narcisismo dell’analista risulta atto a divenire una fonte abbondante di errori in quanto, dando luogo a una specie di controtransfert narcisistico, induce l’analizzato da un lato a mettere in evidenza cose che lusingano l’analista, dall’altro a reprimere critiche sul suo conto e associazioni a lui sfavorevoli. (Ferenczi 1924) (*).

Leggendo queste righe, non cesso di sorprendermi: com’è stato possibile che nessun altro prima e durante (e ben pochi, dopo) abbia potuto pensare che transfert e controtransfert non appartengono ad alcuno per contratto?
Se in seduta io dico qualcosa che disturba il paziente e questi mi risponde: “lei deve aver avuto una madre molto cattiva”, se volessi ricorrere a un’interpretazione “di maniera” potrei dirgli: lei vuol invertire i ruoli, perché non tollera la dipendenza. Ma che cos’ha che non va l’inversione dei ruoli? E quali danni provoca un’interpretazione “di maniera”?
Di fronte ad essa, il paziente ha due sole risposte:
  1. Un silenzio rassegnato, espressione dell’introiezione patologica del mio rifiuto di confrontarmi. «Se il mio analista si comporta così -penserà- sarà giusto così. Sarò io ad essere sbagliato: troppo avido, onnipotente, maniacale. Arrogante».
  2. Proverà ostinatamente a remare contro corrente, spingendosi in una direzione non autorizzata. E in questo caso, io starei difendendo una mia “area cieca” inanalizzata e inaccessibile all’analisi, sia pure proveniente da un paziente. (Che cos’hanno che non va le interpretazioni dei pazienti?).

La psicoanalisi è una straordinaria occasione di vicinanza fra gli inconsci di due persone. In questo contatto ravvicinato i messaggi non verbali transitano nei due sensi.
Per il paziente, l’analisi è un lungo addestramento a riconoscere il contenuto delle acquisizioni di provenienza empatica; una speciale forma di intuito, che permette di vedere un po’ al di là di ciò che comunemente appare.
Immaginare che il paziente debba acquisire insight verso i propri contenuti inconsci, tacitando contemporaneamente la consapevolezza di quanto proviene dall’analista perché non autorizzato dallo stesso, è un’operazione complessa che, chiudendo la porta alla mutualità della conoscenza, da un lato offre al paziente una sorta di double-bind (doppio legame, doppio e contraddittorio messaggio), mentre dall’altro impedisce allo stesso analista di autoanalizzarsi, partendo dal suggerimento che proviene dal paziente.


(*) Ferenczi S. (1924), Prospettive di sviluppo della psicoanalisi, in: Opere, Vol. III, pag. 213, Milano: Cortina 1992.

venerdì 14 ottobre 2011

LA "PIETAS" DELLO PSICOANALISTA

A volte, incontriamo parole che si depositano dentro di noi perché cariche di un’attrattiva misteriosa, il cui senso profondo ci si chiarisce solo nel corso del tempo.
Nei miei ricordi è rimasta appuntata la parola latina “pietas”, udita alle scuole medie, e rivelatasi immediatamente capace di muovere in me un affascinato rispetto, perché così simile e allo stesso tempo distante da  “pietà”, parola comune e banale, sgradevole e di senso irrimediabilmente compiuto.
Se la pietà era un inchinarsi verso una condizione di minorità, la “pietas” di Enea mi appariva come un gesto di autentica umiltà, un guardare in alto, non tanto verso il Dio proclamato da qualche religione organizzata, ma verso una dimensione allo stesso tempo “alta” ed eticamente “giusta” dell’esperienza umana, non disgiunta da un certo grado di bellezza. Risuonata nelle mie orecchie di adolescente come parola ben più attraente dello stantio predicare dei catechisti, la “pietas” rimase nella mia libreria interna come un reperto prezioso ancorché indecifrabile, anche attraverso le successive trasformazioni che dalla religiosità ingenua e conformista dell’infanzia mi condussero all’agnosticismo  dell’età adulta.
Oggi, parlando con un giovane collega, questa parola mi è tornata alla mente come possibile dimensione interna dell’atto del curare psicoanaliticamente.
Un analista non pietoso ma “pius” potrebbe riunire in sé, nell’incontro con il paziente, l’empatia, una piena consapevolezza del carattere bipersonale della relazione analitica, la capacità di armonizzarne le profonde implicazioni di mutualità con un atteggiamento necessariamente asimmetrico perché appartenente al registro genitoriale, lo stile terapeutico “materno” (cioè non autoritario, né freddamente "neutrale"), una profonda capacità di identificazione con le vittime di relazioni predatorie,  e infine la tolleranza per la critica anche inconscia che proviene dal paziente e il coraggio di riconoscere con umiltà i propri errori. L’insieme di questi ingredienti potrebbe forse essere chiamato la “pietas” dello psicoanalista.

sabato 8 ottobre 2011

ISRAELIANI E PALESTINESI

Una enorme stanza, ampia chilometri quadrati, stipata di persone. A un’estremità della stanza, a un certo punto scoppia un terribile incendio, appiccato da qualcuno da fuori. La gente più vicina alle fiamme comincia a correre, tutti corrono. Ma dalla stanza non si può uscire. La gente che sta all’altra estremità rispetto all’incendio viene calpestata a morte. Mentre muoiono, i calpestati azzannano i polpacci di quelli sopra di loro. Quelli che corrono gridano: “perché ci azzannate?” Quelli sotto gridano: “perché ci calpestate?” Quelli di sopra: “noi non calpestiamo nessuno, siete voi, piuttosto, che non dovreste essere qui” Quelli di sotto: “noi siamo sempre stati qui, questa è casa nostra”. Quelli di sopra: “non è vero, voi siete venuti qui per negarci lo spazio vitale, perché siete d’accordo con quelli che hanno appiccato il fuoco”. Quelli di sotto: “noi abbiamo sempre abitato questa casa. Siete voi che ci volete calpestare con la scusa del fuoco”. Qualcuno di quelli di sotto grida: “non c’è mai stato nessun fuoco”. Uno di quelli di sopra: "anche quelli che hanno appiccato il fuoco negano che ci sia stato. Allora è vero che siete come loro". "No, rispondono quelli di sotto: voi che ci uccidete siete come quelli che hanno appiccato l'incendio, che non c'è mai stato". Alcuni di quelli di sotto e alcuni di quelli di sopra gridano agli altri, a tutti gli altri, di smetterla di delirare,  che bisogna salvarsi tutti. Ma nessuno, in quel frastuono, li sente: chi è dominato dal terrore riesce ad ascoltare soltanto parole avvelenate e pensieri folli; è sordo a tutto il resto. Intanto la casa continua a bruciare. Nessuno si salva.

LA GERARCHIA DELLA PAURA

Scrive Bruno Bettelheim (Sopravvivere e altri saggi, Feltrinelli, Milano 1981) che, nei campi di sterminio, anche i guardiani avevano paura, e che la distruzione degli Ebrei, dei Rom, degli Omosessuali, e di tutti gli altri Sommersi, era una prova generale di dominio delle popolazioni sottomesse (quella Tedesca in primo luogo) e di quelle ancora da sottomettere.
Non mi sembra da rigettare l'idea che chi esercita la violenza abbia paura: anzi, è probabile che questa sia una condizione necessaria, di base. Forse è proprio la vittima finale, ultimo gradino della scala dell'abominio, ad avere meno paura di tutti: egli è un morto che cammina, un anestetizzato. Grazie a quel grado di anestesia, molti di loro si salvarono, ed era constatazione comune, nei Lager, che chi sopravviveva per più di cinque anni, aveva una speranza di vita migliore di altri.
Ma quelli che stavano appena un po' sopra di loro, i kapò, commettevano di certo le efferatezze che commettevano per paura; la loro paura e il loro comportamento erano una coppia coerente, spiegabile con quel meccanismo che si chiama "identificazione, anzi: introiezione dell'aggressore" (Sándor Ferenczi, Confusione delle lingue fra gli adulti e i bambini, 1932). E, sopra di loro, la scala gerarchica della paura saliva fino al vertice. Forse anche le SS, nella loro estrema interpretazione del tragico declinata in forma di sadismo, avevano più paura di tutti.
Chi pensi che la gerarchia della paura abbia una sommità abitata dalla sicurezza, forse, sbaglia: Hitler si suicidò per evitare qualcosa di incomparabilmente più spaventoso di un processo e dell'inevitabile condanna all'impiccagione.
E' possibile che anche al di sopra del Capo ci sia un gradino più alto, abitato da un Nulla spaventoso (molti lo chiamano Dio, ma non ha apparenza misericordiosa).

In coda a queste considerazioni, un corollario: ogni tiranno colpisce mortalmente i suoi, prima che chiunque altro. Ne trasforma, terrorizzandoli, l'anima nel profondo. Nell'anima della vittima, almeno, può continuare ad abitare, nascosta, una sete incolmabile di giustizia e di umanità.
Ciò vale anche per i nostri piccoli e patetici dittatorelli di oggi, che si circondano di stuoli di individui pagati per prostrarsi avvilendosi quotidianamente. Essi hanno ottenuto le ferite più profonde e irreparabili, in cambio della loro sciocca, inutile, umiliante, e ridicola avventura.

mercoledì 28 settembre 2011

RISOGNANDO I SOGNI DI UN ALTRO

Quanta “verità” oggettiva ci può essere nell’interpretazione psicoanalitica di un sogno? Sarebbe facile, oltreché assolutamente onesto, rispondere: “nessuna”.
Ma il problema è se la psicoanalisi sia un’indagine paragonabile a un esame di laboratorio o a una radiografia, qualcosa che serva ad evidenziare ciò che non si vede ad occhio nudo, o piuttosto qualcosa che serve ad attribuire senso a ciò che, altrimenti, sarebbe destinato a rimanerne privo.
Un interlocutore non passivo avrebbe diritto di chiedere: “ma allora il senso e la giustezza di un’interpretazione sono arbìtri che gli psicoanalisti offrono ai pazienti come pezze calde, favole consolatorie buone a riempire le loro aree cieche e i loro buchi inquietanti solo per qualche ora e a caro prezzo? No, rispondo: non ci sono (o ci sono raramente) interpretazioni “giuste”, nel senso che rivelano una “verità” incontrovertibile. Ma ci sono interpretazioni corrette, e sono quelle che descrivono, come possono, qualcosa che potrebbe essere rappresentato in mille modi, ma che il paziente non sa narrarsi da sé, e che una volta ascoltatolo, riconosce, almeno emotivamente, come vero, come testimone attendibile del proprio malessere.

Nessun paziente è in grado di raccontare all’analista un sogno sognato una notte precedente tal quale è stato; il racconto narrato in analisi è piuttosto un “risogno” del sogno, un racconto filtrato da una memoria opaca e fluttuante, che può omettere, arricchire, o persino trasformare, stravolgendola, la trama apparsa alla coscienza durante il sonno.
Lo stesso vale per l’interpretazione fornita dall’analista: è un nuovo sogno, del “risogno” del sogno.
In quel caso, la “giustezza” dell’interpretazione non può essere rimandata a un codice “obiettivo”, né d’altronde può essere ammissibile un’interpretazione arbitraria, perché ciò destituirebbe di senso il tutto.
E può anche capitare che l’analista, dopo la seduta, ripercorra il sogno, o se lo scriva, o lo racconti a un supervisore, o a un gruppo paritetico di colleghi che ripensano, nel rispetto della privacy e del segreto, a ciò che i pazienti raccontano loro. E anche lungo queste successive narrazioni e trascrizioni, il sogno lieviterà, cambiando un poco di forma, e arricchendosi di senso.
Le interpretazioni, i commenti, le rimemorazioni delle nostre stesse esperienze sono punti di osservazione che guardano da posizioni diverse uno stesso oggetto, rivelandone particolari che prima erano nascosti. Ci raccontano la verità sommandosi fra di loro, e trasformandosi nel tempo, così come noi stessi, pazienti e analisti, ci trasformiamo incessantemente.

L'INQUIETUDINE DEI POTENTI

Stanotte ho sognato che Creso, il ricco per antonomasia, veniva a trovarmi per una consultazione nel mio orario di libera professione intramoenia, e io gli applicavo la normale tariffa concordata con la ASL, facendogli la ricevuta senza che lui me la chiedesse. E che dopo di ciò, aveva deciso di non tornare, non sentendosi riconosciuto da me come Creso, il ricco per antonomasia. Per onorarlo come si conviene, avrei dovuto chiedergli una cifra favolosa: in nero, naturalmente. Solo così il suo onore sarebbe stato salvo.

("Che cosa posso fare per te?" chiede Alessandro al filosofo cencioso. "Puoi spostarti un metro sulla destra, perché così mi fai ombra". "Chiedimi quello che vuoi!" incalza Alessandro disperato, ma quello non lo ascolta più).

NON SAPERE

Il paziente conosce di sé mille cose di più di quelle che l'analista sa di lui.
L'analista conosce del paziente mille cose di più di quelle che il supervisore ha capito.
Entrambi, paziente e analista, hanno bisogno di imparare a riconoscere ciò che già sanno.
(Consapevole della propria ignoranza, il supervisore si sforza di imparare dai propri pazienti e dai propri allievi).

domenica 18 settembre 2011

MEDICI E NO

"La conoscenza che ho di me stesso mi dice che in verità non sono mai stato propriamente un medico. Sono diventato medico essendo stato costretto a distogliermi dai miei originari propositi, e il trionfo della mia esistenza consiste nell'aver ritrovato, dopo una deviazione tortuosa e lunghissima, l'orientamento dei mie esordi".
Sigmund Freud, dal Poscritto (1927) a "Il problema dell'analisi condotta da non medici".

sabato 17 settembre 2011

EQUIVOCI

Poiché era convinto che la propria mancanza di libertà fosse causata da una sconfinata ignoranza, quando gli dissero che poteva ottenere una speciale conoscenza interiore ne fu affascinato. Ma era troppo avido per accontentarsi di così poco. Fu per questo che tentò di diventare uno dei dispensatori di tale conoscenza. E fu allora che qualcuno “dimenticò” di dirgli che per compiere tale passo ulteriore, bisognava uccidere la conoscenza e perdere la libertà. Quarant’anni dopo, si rese conto dell’equivoco: anche i maestri erano ciechi e ignoranti. Forse avrebbe potuto insospettirlo il fatto che la parola “libertà” da quelle parti si pronunciasse così raramente.

mercoledì 14 settembre 2011

RAME

Il mendicante gli restituì la moneta d'oro, scosse il capo e disse: "rame!"
(Elias Canetti, La Provincia dell'Uomo).

lunedì 12 settembre 2011

RÊVERIE-CAUCHEMAR

Se la rêverie materna è un’attività capace di nutrire il bambino fornendogli significazione, mi chiedo se, nel segno di un anti-accudimento materno, non si possa ipotizzare anche una rêverie-cauchemar, contrassegnata, specularmente alla rêverie pro-libidica, da caratteristiche di  trasformazione degli elementi beta in elementi persecutori, che non derivano tale persecutività soltanto dall’essere respinti, ma dall’essere incorporati dentro fantasie paranoidi materne e come tali reintroiettate.

(in parole semplici: la follia dei figli non deriva soltanto dal malaccoglimento e dal rifiuto, ma anche dall'esser stati fagocitati nella follia dei genitori).

venerdì 9 settembre 2011

TROVARE

"Trovare anche una sola spiegazione è meglio che possedere tutto l'impero persiano". (Democrito)

mercoledì 7 settembre 2011

CRIMINI E CRIMINI

Pare proprio che i confronti tra i vari Mali Assoluti che hanno imperversato nel secolo appena trascorso siano difficili e rischiosi: tuttavia credo che il primato del Nazismo sia difficile da scalzare. Mentre il Comunismo uccideva -intollerabile bestemmia- in nome dell'Uguaglianza tra gli uomini, il Nazismo uccideva per punire una "colpa" misteriosa e inafferrabile, come quella di cui è accusato Joseph K., nel Processo di Kafka. Forse, essere annientati (nel corpo, nell'anima o in entrambi) in nome del Nulla, è ancora la maledizione più terribile.

PINOCCHIO E L'OMINO DI BURRO


(pubblicato su Il Secolo XIX del 4 Novembre 2010)


No, scusate, ma così non ce la facciamo. Non possiamo competere. Con quelle ragazzine che in una notte guadagnano due mesi dello stipendio del privilegiato che scrive e tre o quattro di quello dell’assistente sociale, e nove o dieci o venti di quelli degli educatori che dovrebbero trascorrere le giornate con loro, noi non abbiamo  più alcuna voce in capitolo. Si ha un bel darsi da fare, da questo balcone affacciato sulla disperazione, sulla miseria dell’abbandono affettivo, degli abusi e delle violenze familiari, dei bambini la cui venuta al mondo non è stata gradita e che ora, una volta diventati dei non-adulti, si apprestano a ripetere lo stesso trattamento nei confronti dei loro figli nati ancora una volta per sbaglio; si ha un bel darsi da fare per tentare ciò che è già impossibile (restituire a chi non l’ha mai avuto un minimo di intimità familiare, un minimo di sicurezza, una base a cui ritornare precipitosamente quando i predatori che affollano la strada si fanno troppo vicini), quando offrire solidarietà e sostegno affettivo può sembrare una misera cosa per chi non ha avuto niente, immaginate che cosa succederà quando, per caso, incrociamo un diavolo minorenne che veste Prada e srotola sotto gli occhi luccicanti e umiliati delle compagne di stanza un rotolo di banconote per un totale di diecimila euro. Che cosa possiamo raccontare a queste ragazzine, cui basta una telefonata per trovare una limousine alla porta? A queste Cenerentole scappate dal libro di favole, che quel libro richiama prepotentemente, e non soltanto con i mezzi della seduzione ipnotica che proviene dal denaro, dalla fama e dai lussi smodati, ma da quell’ansia implicitamente minacciosa che fa accorrere persone che in apparenza non c’entrerebbero nulla, come se la loro sorte importasse davvero? Come se non ci fosse sotto quell’affaccendarsi di avvocati dalle parcelle favolose la sottile preoccupazione di chi ha forse troppo da nascondere?
Cosa ci resterà da fare, se neanche i giornalisti più indignati alla fin fine trascurano di sottolineare la considerazione più ovvia: che risparmiare alla Ruby di turno una notte in Questura e il ritorno in Comunità non è quel trattamento “di favore” cui non hanno diritto neppure le nipoti dei Potenti, ma l’esatto contrario: è la negazione del diritto di essere sottratta alla strada, alle sue escort, ai suoi sordidi avvocati di grido. Ancora una volta, Pinocchio è condotto via dall’Omino di Burro nel Paese dei Balocchi, sotto gli occhi annichiliti delle Istituzioni.

RACCONTARSELA


(pubblicato sul n. 2/2011 di MinoriGiustizia, rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, Franco Angeli Editore, Milano)

Alzarsi
Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finché suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:
“Wstawàc”:
E si spezzava in petto il cuore.
(…)

(da “Ad ora incerta” di Primo Levi, Garzanti)


La violenza contro le persone fragili ha un suo lato nascosto, un corollario insospettato, i cui effetti sono spesso più devastanti del trauma originario, perché si sottraggono all’indagine e alla sanzione: parlo di quelle “omissioni di soccorso” che possono provenire dal gruppo familiare, dall’istituzione sanitaria, dal servizio sociale, dall’autorità giudiziaria, o dall’agenzia educativa, il cui compito di riconoscere la violenza e di proteggere la vittima viene meno per sordità emotiva, odio inconfessato, superficialità, conformismo, trascuratezza, incapacità professionale, interesse, o paura.
Quando veniamo fatti oggetto di un’aggressione, di un affronto, di una ferita dell’anima che sentiamo come eccessiva, soverchiante, tale da renderci impotenti e quasi-morti, ciò di cui abbiamo immediato bisogno è un rapporto di condivisione. Ci occorre, nell’immediato, poter raccontare a qualcuno che sia capace di rimanere lì ad ascoltarci senza essere preso dal bisogno incontenibile di andarsene o di liquidare i nostri racconti come inverosimili e inventati, frutto di fraintendimento o, peggio, di un’evoluzione patologica delle nostre capacità di percepire e di pensare.
Quando patiamo un dolore che non può essere sopportato in solitudine, abbiamo bisogno di poterlo raccontare a qualcuno che ci accolga come una casa che spalanca le porte per offrirci accoglienza e protezione.
Ogni volta che da bambini ci siamo trovati in pericolo, abbiamo tutti sperimentato il desiderio di poter dire “mamma, lo sai che cosa mi è successo?”. E’ questa la prova dello scampato pericolo, il sentirsi “tornati a casa”, dove la minaccia che simbolicamente o realisticamente allude alla morte, è ormai lontana. Anche nel linguaggio adulto, noi frequentemente diciamo: “meno male che siamo qui a raccontarcela … se non fosse accaduto questo e questo, oggi non sarei qui a raccontarla …”.
Essere qui, a casa; l’imboccatura dell’inferno è lontana.
C’è un passo di “Se questo è un uomo” di Primo Levi che mi ha sempre colpito. E’ quando il protagonista, detenuto nel campo di sterminio, sogna di essere a casa sua, a Torino. Egli sale le scale, suona alla porta dell’appartamento abitato dai familiari. La porta viene aperta da sua sorella, che non lo vede: lo sguardo di lei gli passa attraverso come se fosse fatto d’aria. L’angoscia è troppo forte e il protagonista si sveglia.
Svegliarsi per far cessare un brutto sogno: quante volte lo abbiamo sperimentato! Quante volte nel mezzo di un incubo, abbiamo improvvisamente percepito di stare sognando e abbiamo fatto uno sforzo per svegliarci! “E’ soltanto un sogno”: gli occhi si aprono e la persecuzione è definitivamente lontana.
Svegliarsi.
Ma da quale angoscia ci si può voler risvegliare nella consapevolezza preconscia di riaprire gli occhi in una baracca gelata di Auschwitz-Birkenau? Fra poco sarà l’alba di un giorno che forse sarà l’ultimo; magari finirà subito, in una pozza di orina, sangue e orrore. Speriamo. Speriamo che almeno finisca. Non avere nessuno a cui raccontare.

Lo psicoanalista Leonard Shengold, nel suo famoso libro “Soul Murder” (Omicidio dell’Anima) scrive che quando ad aggredire sessualmente il bambino è la stessa persona che dovrebbe proteggerlo, la vittima è costretta a “scindere” la figura dell’aggressore in due parti, una buona e una cattiva. Se ad abusare di me è mio padre io sarò costretto a rapportarmi a lui tanto come a un aggressore quanto come a un difensore. Alla scissione dell’oggetto, cioè della figura dell’aggressore, segue sempre la scissione dell’Io del bambino, che spesso non potrà mai più ricomporsi. Non di rado gli aggressori accettano di impersonare tale duplice ruolo, diventando a loro volta i consolatori delle vittime delle loro stesse violenze, in un gioco circolare la cui perversità è la più solida garanzia del mantenimento del legame di sottomissione.
Questo perché tutti: aggressori, vittime, e anche chi non è né l’uno né l’altra, sappiamo bene quanto sia indispensabile “poterla raccontare”.

Quando i nostri operatori provvedono al compito di tutelare le vittime minorenni di abusi intrafamiliari, sono spesso risucchiati in avvilenti diatribe peritali e controperitali che sospingono loro e le madri denuncianti nella condizione psicologica di presunti colpevoli. Quelle a loro indirizzate non sono vere e proprie accuse: si tratta piuttosto di un clima neppure troppo sottilmente ostile, che chiede loro di giustificarsi su tutto, e che spesso li sospetta di essere professionalmente incapaci, o visionari, o fanatici persecutori che vedono incesti dappertutto, pronti ad allontanare i figli da genitori quasi per definizione innocenti. Il più delle volte, quando si denunciano le enormi sofferenze psicopatologiche di bambini gravemente traumatizzati ci si sente chiedere se per caso tali sofferenze non dipendano dalla lontananza forzata dal genitore accusato. In alcuni casi è persino capitato di sentire qualcuno che proclamava l’assoluta necessità di mantenere il legame tra un bambino e un genitore “sia pure gravemente colpevole”!. Come se essere padri fosse qualcosa che prescinde dall’amore, dalla relazione, dalla preoccupazione per i figli. Un mero attributo biologico, o una convenzione sociale.

Tali preoccupazioni che tendono a garantire gli adulti in misura sproporzionata rispetto a ciò che occorre fare per tutelare i bambini, non raramente sono fatti propri da tecnici, psicologi, psichiatri, periti. In questi casi il rapporto fra il bambino e il professionista è gravemente compromesso fin dall’inizio.
Quando si sospetta che un bambino subisca abusi nell’ambito familiare, per poterlo portare in salvo occorre ottenere da lui, senza influenzarlo, una rivelazione attendibile. E’ un lavoro estremamente difficile, soprattutto quando il bambino ha parzialmente o totalmente cancellato l’esperienza traumatica dalla propria memoria cosciente. Un prerequisito fondamentale per ottenere qualche risultato consiste nella capacità dell’operatore di instaurare una relazione di fiducia, pari o addirittura superiore a quella precedentemente instaurata con i genitori (che è spesso gravemente carente).
Se poi, per ragioni di procedura giudiziaria, il bambino dev’essere affidato in un secondo tempo ad un altro psicologo incaricato di perizia, se il nuovo operatore non è altrettanto accogliente, disposto a crederlo, e capace di empatia, ma freddo, diffidente o addirittura svalutante, o se cerca di falsificare le affermazioni del bambino facendo “l’avvocato del diavolo”, è facile che il bambino si senta non creduto, bugiardo e quindi implicitamente accusato di calunnia nei confronti dell’abusante (che frequentemente è un parente stretto) del quale in tal modo torna a sentire il potere intimidatorio e capace di confondere.
Sotto la spinta inconsapevole di un operatore incaricato di tutelarlo, il bambino è così ricacciato in quell’atmosfera psicologica nella quale viveva in uno stato di “adattamento” alla relazione traumatica (subire tacendo, assecondare gli abusi per evitare spaventi peggiori, “farsi piacere” la violenza, come accade nella “sindrome di Stoccolma”). Ora, di fronte a un trattamento peritale che gli ricorda quel clima, il bambino si sentirà spinto ad adattarsi nuovamente al trauma, ritrattando le rivelazioni precedenti, negando e difendendo l’aggressore, nella convinzione che il primo psicologo lo abbia sadicamente ingannato, che lo abbia “fatto parlare” per riconsegnarlo all’aguzzino.
Questo accade quando la violenza non viene riconosciuta: all’abuso segue un riabuso di cui questa volta hanno responsabilità le Istituzioni, un’esperienza dalle conseguenze ancor più devastanti, perché difficilmente la vittima ritroverà la propria fiducia in una terza prova d’appello. A volte il nostro compito è anche quello di riabilitare, agli occhi dei bambini, il mondo adulto, barbaro e crudele.


IL NOSTRO COMPITO

Abbiamo il compito di produrre pensieri che servano a qualcun altro per vivere, e a noi per non morire del tutto nella memoria di pochi. E' l'unica immortalità cui possiamo realisticamente aspirare.

martedì 6 settembre 2011

ESSERE GENERAZIONE

Tutti noi siamo soggetti alla generazione: apparteniamo alla nostra, ci portiamo addosso l'eredità di coloro che ci hanno preceduto, prepariamo quelle che ci seguono e quelle che verranno.
La nostra vita individuale ha poco senso  se è chiusa in se stessa. Il nostro andare a maturazione e a compimento ha la necessità di generare figli, in senso proprio e/o in senso traslato. Dobbiamo in ogni caso diventare genitori: di noi stessi, dei nostri figli, di altri e di altro. Dobbiamo in ogni caso diventare educatori, consegnare il nostro lascito nelle mani di chi ci segue affinché lo faccia proprio, lo mantenga in vita per quello che vale di positivo, e lo trasformi.
Ciò dovrebbe accadere nella consapevolezza che ciò che tramandiamo non è necessariamente positivo; la trasmissione è quindi anche una grande responsabilità morale.
Anche i gruppi e le organizzazioni che si fondano su un'identità, un progetto e una missione devono includere la trasmissione dell'esperienza. Senza di essa, la creatività individuale, sociale, gruppale, politica o di impresa è vuota, e non lascia che scorie destinate a diventare materia informe. Dove non c'è trasmissione, le generazioni successive devono continuamente ricominciare da zero. In realtà, devono cominciare da un numero negativo, perché, per raggiungere lo zero che sta in alto, occorre prima ripulire il terreno dai detriti non digeribili e nemmeno trasformabili ricevuti in dote dalle generazioni precedenti.