Perché Wiesbaden 1932


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domenica 1 febbraio 2015

L'AGGETTIVO "FREUDIANO"

Ho una prevalente antipatia per l'aggettivo "freudiano", definizione rischiosa e troppo spesso ellittica: quando non è usato per definire una teoria o un'opera, è spesso impiegato per proclamare un'eredità, un'appartenenza, un situarsi in un campo anziché in un altro; e in questi casi il settarismo è uno dei rischi da tenere in conto, per non dire della religiosità e del credo, deformazioni così lontane dall'originario spirito rivoluzionario della psicoanalisi.
Questo per ciò che riguarda il registro professionale: per ciò che riguarda il registro colloquiale l'uso è anche peggiore.
Questa riflessione mi scaturisce dall'ascolto di una trasmissione radiofonica (La Lingua Batte, Radiotre, domenica mattina del 1 febbraio 2015), in cui parlando di Leopardi, si chiede a Martone, autore e regista de Il Giovane Favoloso, se abbia stabilito una connessione fra la relazione del poeta con la madre e il dolore dello stesso per la propria condizione che egli fa risalire alla "natura matrigna". "Si, è così" risponde Martone: loro hanno tratteggiato la madre fredda severa e respingente e il padre geloso e autoritario, e la biblioteca paterna come una prigione dalla quale il poeta desidera fuggire, pur essendo essa la fonte enciclopedica della sua sterminata conoscenza, pensandole come matrice della condizione emotiva e della riflessione filosofica del Poeta.
"Allora ne avete dato una lettura freudiana", commenta l'intervistatore.
Ecco, la frase è sufficiente a urtare la mia sensibilità; perché in questa declinazione del pensiero ermeneutico c'è sempre una sorta di imbarazzo, di preoccupazione classificatoria, come l'ansia di relegare il "freudiano" nell'ambito dell'esotismo, della stranezza elegante, della preziosità barocca e un po' autoreferenziale.
Ma che cosa c'è di strano se un uomo che cresca in una famiglia fredda, anaffettiva, culturalmente ricca ma gelosa e preoccupata di mantenere le proprie conoscenze dentro il proprio ambito tanto spaziale (la casa, la biblioteca), e ancor più dentro il proprio spazio relazionale simbiotico? Per il padre, Giacomo non deve lasciare la casa paterna, non deve "trasgredire" i limiti del conosciuto familiare, non deve diventare il più grande poeta della letteratura italiana secondo soltanto al celebrato (dentro le mura di casa) "padre Dante". E che cosa c'è di strano se un uomo tanto creativo e tanto oppresso non desideri più di ogni altra cosa uscire dalla prigione, tanto materialmente, quando ricostruendo un'opera intellettuale, artistica, poetica che abbia la capacità di consolare, di riparare, di ricostruire la catastrofe di un incontro mancato, di una tremenda costrizione, di un'abissale solitudine stabilita fin dalle origini? Che bisogno c'è di chiamare "freudiana" (cioè lettura alternativa, secondaria, e in sospetto di costrutto artificioso o storicamente passeggero) un'evidenza tanto patente? Che la natura "matrigna" sia per il poeta stesso la propria vita familiare, le proprie origini?
O magari, nel relegare tale conoscenza nell'ambito iniziatico di pochi non c'è forse il senso di disagio  che deriva dal constatare che ciò che è patrimonio dell'umanità, nostra vitale proprietà, base stessa del nostro pensiero (come lo sono le Mura di Ninive, recentemente distrutte dalla psicotica arroganza dell'Isis), è in realtà il prodotto di un dolore indicibile, la conseguenza di un evento almeno teoricamente evitabile come il cattivo accoglimento di un bambino non o malamente amato nella propria famiglia? Non c'è forse l'oscura e colpevolizzante impressione che in tali casi l'Artista sia in realtà una vittima sacrificale, il cui sacrificio ci consegna l'opera immortale che ci riscatta? Ma nessun Poeta è Cristo, e forse molti di loro avrebbero preferito essere felici in vita anziché circondati dalla memoria eterna.

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