Nel
1951, Kurt Eissler scriveva:
"E'
di certo in contraddizione con la formulazione di Boltzmann del secondo
principio della termodinamica che il cambiamento da uno stato di ordine a uno
di disordine sia più probabile
del cambiamento inverso. L'aver aperto, da parte di Freud [in occasione della propria
autoanalisi], una breccia nelle proprie difese, ha implicato il
cambiamento da uno stato probabile a uno altamente improbabile. (...) Quando
egli dovette sopportare l'assalto delle proprie libere associazioni o fu
persino tentato dal supremo sforzo di volontà di spingere immagini remote e impalpabili dentro
il fuoco dell'attenzione cosciente, Freud si rese conto che l'indomabile
urgenza di creare spinge così spesso l'artista a deplorare la propria
esistenza, oppure riuscì
a sopportare il dolore generato dall'autoanalisi, soltanto in vista di
un'aspettativa di felicità?
Il
processo di autoanalisi, al punto della Storia in cui Freud lo intraprese, fu,
per così dire,
un atto contrario alla natura umana (...) egli fu il primo a rendere possibile
agli uomini il pensare l'immorale e il malvagio senza trepidazione" (*).
Queste
considerazioni di Eissler colpiscono oggi, in maniera non del tutto bene
accetta, una sensibilità
diversamente matura, rispetto a quella predominante negli anni
cinquanta, verso la figura, la vicenda umana e l'opera di Sigmund Freud.
Grazie
al fatto che studi storici di autori (un nome fra tanti: Paul Roazen) non inclini all'agiografia ma neppure all'antipsicanalismo preconcetto, abbiano posto in
secondo piano l'opera biografica di Ernest Jones, considerata per tanti aspetti
poco rigorosa e persino propagandistica, e soprattutto grazie alla pubblicazione di una
considerevole quantità
di materiale epistolare che fornisce al lettore ordinario una via diretta di accesso alla storia della psicoanalisi, oggi si può finalmente
guardare al pensiero psicoanalitico non più
come a una serie infinita di affermazioni non sempre necessariamente in
accordo fra loro, la cui suscettibilità
ad essere sottoposte a vaglio critico è
minacciata dal timore che la loro eventuale non accettazione dipenda da
conflitti irrisolti in chi legge, ma a realizzazioni umane, sorte fra dubbi, angosce,
conflitti, meccanismi psichici di difesa, e non di rado anche a ragioni storicamente difensive e di politica
societaria.
Leggere
quindi un eccesso di aggettivi che carichino retoricamente la figura di Freud, conferendole un'aura inutilmente mitologica, può urtare la sensibilità di chi sia
seriamente interessato a comprenderne l'evoluzione del pensiero.
Tuttavia,
una cosa bisogna pur dirla: ed è
che se noi oggi guardiamo criticamente e spesso anche aspramente al
pensiero di Freud, possiamo farlo soltanto grazie alle sue scoperte e anche
alle sue invenzioni, che funzionano come modelli per pensare, indipendentemente
dalla loro reale esistenza oggettiva.
E
un'altra cosa occorre aggiungere: che quello sforzo ci fu davvero, anche se
ebbe certamente connotazioni più
umane e niente affatto eroiche. Il che va anche meglio. Perché con dei, semidei e titani si è sempre destinati a
intendersi poco.
(*) An unknown autobiographical
letter by Freud and a short comment, Int. J. Psychoanal., 32: 319-24.
Traduzione mia.
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