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sabato 24 novembre 2012

ALDO BUSI E IL BAMBINO TRANSGENDER


Sulla scia di un tristissimo episodio di cronaca (il suicidio di un adolescente che era stato oggetto di scherno da parte di compagni omofobi), su "Repubblica" di oggi 24 novembre 2012, Aldo Busi pubblica un lungo e interessante articolo che parla di un bambino transgender e della sua famiglia tollerante.
Dalle parole dello scrittore, da quel suo compiaciuto stupore per un padre e una madre che dicono "non ci vuol molto ad essere dei bravi pedagoghi: invece di strappare i suoni che vuoi tu, col rischio di avere in risposta le urla sincopate di una bestiola in gabbia, resti in ascolto dell'umanità per come è fatta", si intuisce tutto il dolore di chi si è sentito straniero nella propria famiglia, irrimediabilmente "diverso" e rifiutato.
Come si fa, allora, a non solidarizzare con Busi, come si fa a non condividerne l'ammirazione per una famiglia che compie lo sforzo estremo di rinunciare a proiettare nel figlio reale un qualsiasi figlio immaginato? La questione riveste primaria importanza anche perché non investe soltanto le scelte di genere o di orientamento sessuale dei nostri figli e il loro eventuale sviluppo "atipico". Essa riguarda ogni ambito dello sviluppo della personalità. Mio padre, buonanima, uomo buono ma devoto a un certo sistema di valori socioculturali e a una certa ideologia politica allora egemone, soffrì molto quando scoprì di essersi allevato in seno un figlio "comunista" e troppo incline a sfuggire le scelte di vita che la famiglia intera aveva sognato per lui. Questa fu  la storia di centinaia di individui appartenenti alla mia generazione, mentre a quelli appartenenti alle generazioni successive accadde, una volta diventati genitori, anche di "peggio", per essersi dovuti adattare ad accettare scelte dei figli imprevedibili nel costume, nelle aspirazioni, nei valori. Non tutto, di ciò che andava contro i desideri dei genitori, fu egualmente accettabile, egualmente condivisibile, sopratutto se incompatibile con la felicità e con la vita; ma certo, si pose, forse in misura mai sperimentata prima, la necessità di mettersi "in ascolto dell'umanità per come è fatta", rinunciando una volta per tutte al paternalismo, a quella "pedagogia nera", patriarcale e distruttiva, che tanti guasti aveva prodotto durante il secolo che ci aveva preceduti.
Tuttavia anche oggi, quarantacinque anni dopo quel fatale 1968, per ogni individuo che si affacci all'esperienza genitoriale si pone il tema stringente di una rinuncia alla soddisfazione narcisistica di promuovere in misura prioritaria il proprio compimento, in favore del compimento di qualcun altro. Ogni volta che diventiamo genitori dobbiamo compiere una rinuncia: se ciò non accadesse, i nostri figli dovrebbero subire la proiezione dei nostri desideri, delle nostre identificazioni fino a esserne riempiti fino a scoppiare e a ribellarsi; oppure a sottomettervisi, lasciando morire così la propria anima, assieme alla propria irripetibile unicità.
Fra le divergenze più acute che un individuo eterosessuale può incontrare lungo il percorso della propria paternità vi può essere quella di un figlio omosessuale o "addirittura" transgender. Questa trasgressione suprema del genere o dell'orientamento apparentemente assegnatoci dalla natura, può essere sì una espressione di totale aspirazione alla libertà, che come tale va difesa e valorizzata; ma può esse anche altro.
Intorno alla fondamentale questione dei diritti delle persone omosessuali e transgender, oggi, nel nostro sempre vivace Paese, si affrontano due partiti uno dei quali è sicuramente estremista, becero, violento e razzista, mentre l'altro corre il rischio di fare della propria generosità e sensibilità un rituale vuoto e conformista.
Dico ciò pensando proprio al bambino transgender raccontato da Busi e alla sua coraggiosa famiglia: perché quel bambino oggi rischia di essere sacralizzato, innalzato sugli altari, diventando un piccolo Buddha intoccabile, cioè un paria. Dico questo perché ho notato con preoccupazione che dalle parole del padre raccontate da Busi è assente qualsiasi idea di conflitto, di sofferenza, di insofferenza. In quella famiglia regna la Pace Perfetta, la Tolleranza Assoluta, la capacità definitiva di rinunciare al proprio narcisismo che ci spinge ad imporre al nostro bambino reale gli abiti mentali del bambino desiderato. 
Di certo, l'omosessualità non è una malattia, come è definitivamente chiaro anche agli occhi della psichiatria maggiormente ancorata al passato. Ma ciò non significa che un omosessuale sia una persona esente da angosce e sofferenze per le identiche umanissime ragioni per le quali soffriamo tutti. Nell'esercizio della professione, ho visto fin troppi individui fuggire da un'identità di genere per sottrarsi o per assecondare la bramosia dei loro stupratori: ragazze che volevano farsi amputare i seni, per diventare maschi. O ragazzini diventati gay per sottostare a una volontà altrui. Certo il modo gay non si esaurisce in questo: è molto altro, di più e di meglio. Ma di fronte ad ogni individuo, di qualsiasi orientamento e genere, dobbiamo porci in ascolto reale, a tutto campo, guardandoci dalle demonizzazioni come anche da idealizzazioni che possono rivelarsi altrettanto traditrici.
E ai genitori del bambino descritto tanto trionfalisticamente da Busi, vorrei dire di fare attenzione alle sue troppe personalità, e alla sua capacità di tenerle tutte assieme. Perché fra i pericoli del mondo non c'è soltanto la violenza degli intolleranti, c'è anche la capacità di tenuta della mente. Perché di confusione si può anche morire. 

2 commenti:

  1. Che il senso dello scritto di Busi non sia tutto qui “Ma è straordinario! Anch’io vorrei un figlio così, anzi, li vorrei entrambi così, anzi: li vorrei tutti e tre così, visto che due in uno è sempre meglio che la metà di niente. Anzi, avrei voluto dei genitori come te e tua moglie, visto che vi sarebbe toccata addirittura la disgrazia… questo dal punto di vista dei miei, che poi i libri me li bruciavano… di avere un figlio che a sette anni si travestiva da scrittore appendendosi sulle spalle i pochi libri rimediati in giro… da noi libri in casa non esistevano… o legandoseli con la cintura attorno alla vita… a parte quando se ne metteva uno in testa per camminare senza farlo cadere…”. ???!!!

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  2. Sono d'accordo: questa è la dimostrazione della difficoltà di relazione con i figli (in questo caso si tratta -per fortuna- di figli altrui) che deriva dalla frustrazione per ciò che nell'infanzia ci è mancato, e che ci spinge a considerare i nostri bambini come appendici, nuovi inizi, repliche di noi stessi. Una bella contraddizione per chi ha appena finito di stigmatizzare tutto ciò!

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