Perché Wiesbaden 1932


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martedì 20 novembre 2012

DAL TRONO DI DIO

Soledad è una donna appassionata, la cui disposizione all’attaccamento si è rivelata, fin dal primo istante, estremamente tenace. La “sento” solidamente attaccata e bisognosa di legame, anche se ciò contrasta con l’ipotesi di ambivalenza che si può avanzare di fronte al ripetersi dei suoi piccoli ritardi, che sono giustificati dal fatto che il mio studio sarebbe “a tron di dio”, vale a dire in un punto lontanissimo, irraggiungibile (prima di questa circostanza non avevo mai pensato - che potere straordinario ha la scrittura!- al significato di questa frase idiomatica: il trono di Dio è il punto più lontano da raggiungere, da qualsiasi latitudine noi partiamo, e forse anche la sorgente del TUONO di Dio, cioè della paranoia primaria).
Forse è per questa ragione che, come chi abbia compiuto un cammino tanto lungo, Soledad deve trattenermi saldamente dentro il suo campo visivo rimanendo seduta di fronte a me, anziché sdraiarsi sul lettino come pure le ho più volte suggerito.
Se io fossi uno psicoanalista blank screen (qualcuno obietterà: “se tu fossi uno psicoanalista”) avrei forse, con un po’ di fatica e una buona dose di imposizione, ottenuto che Soledad si sdraiasse, lasciando poi al lavoro interpretativo il compito di venire a capo del suo conflitto, che è quello -mi par di capire- di chi è molto preoccupato di suggere il latte materno fino all’ultima goccia, non lasciandosi sfuggire niente, nella probabile convinzione che comunque niente basterà.
Per ottenere questo scopo, Soledad si attacca con gli strumenti di un’allegria di fondo che pervade la sua depressione, e che mi diverte molto.
E’ molto piacevole stare a contatto con Soledad, anche se ciò mi impedisce di fare un lavoro più pulitamente psicoanalitico (anche noi terapeuti bipersonalisti ci proviamo); qualcuno potrebbe chiamare tutto ciò seduzione, ma essere sedotti significa essere trascinati in un luogo dove un altro ci conduce prima ancora che noi abbiamo deciso di andarci, mentre io sono un compagno di viaggio ostinato e piuttosto litigioso. Così non ho paura della seduttività di Soledad (siamo tutti e due abbastanza anziani da non farci venire idee troppo strane o pericolose), e per questo, nel cammino che abbiamo intrapreso, mi pongo soprattutto l’obiettivo di precederla sempre di qualche passo, per aspettarla dietro ogni curva, seduto sulla seggiola della Madre, anziché sul trono di Dio. Prima o poi lei, che è una donna molto intelligente, imparerà a distinguere.

Ciò premesso, mi chiedo che cosa perdiamo, Soledad e anche io, dal fatto che non si stia facendo un lavoro conforme al canone.
Da tempo considero il lavoro terapeutico di questo genere come una possibile risposta al tema sollevato da Winnicott, quando parla della funzione di specchio esercitato dal volto della madre sullo sguardo del bambino (o del paziente). E’ questo, io credo, il punto dal quale dobbiamo partire, se vogliamo riflettere sulla dinamica della relazione terapeutica vis-à-vis, che può essere una riedizione del legame madre-bambino quale si presenta nei primi anni di vita.
In confronto a ciò, il lavoro psicoanalitico con il paziente sdraiato sul lettino mi sembra più simile alla rêverie che si instaura fra madre e figlio (figlia) durante la gravidanza. Escluso ogni altro tipo di comunicazione mimica e persino verbale, la comunicazione è condotta attraverso le identificazioni reciproche; una specie di telepatia, insomma.

La considerevole difficoltà che deriva dalla pretesa di effettuare del lavoro psicoanalitico da una posizione vis-à-vis è quella della comunicazione gestuale, il più delle volte inconscia, che si svolge in entrambi i sensi fra paziente e analista.
In questo caso lo sguardo e la mimica facciale veicolano comunicazioni che l’analista non è quasi mai in grado di controllare, e che possono essere comprese e decodificate soltanto in parte e soprattutto dopo che si sono manifestate.


Un esempio: l’altro giorno, pochi minuti prima che una Soledad insolitamente puntuale entrasse nella stanza, avevo appreso dal computer una notizia (non ricordo esattamente quale) che doveva avermi reso pensieroso. Pertanto, devo aver accolto Soledad con una faccia particolarmente “blank screen”. In seguito a ciò, quando la donna, con l’espressione preoccupata, mi ha chiesto: “è arrabbiato?”, mi sono sentito per un attimo spiazzato, e ho risposto proprio quello che non avrei dovuto, ciò che chiude ogni ipotesi, anziché aprirla: “no, non sono arrabbiato”, senza approfondire ulteriormente l’argomento.
Nel rivedere criticamente quella mia risposta, mi sono giustificato con me stesso dicendomi che, se la paziente fosse stata sdraiata sul lettino, avrei avuto tutto il tempo di rimanere in silenzio e di pensare, ricorrendo a quel rallentamento del tempo forse un po’ artificiale ma tanto prezioso per il lavoro dell’analista; e poi -ho aggiunto fra me e me- la percezione di Soledad non era il frutto di una sua proiezione, perché il mio stato d’animo era effettivamente occupato da un pensiero spiacevole.
Ma è sufficiente tutto ciò a liquidare la questione? Direi di no, anzi: posso ipotizzare persino che la percezione angosciata dei contenuti provenienti dal mio interno e l’aspettativa che essi avessero un significato per lei persecutorio (il "Tuono di Dio") debba essere, a seguito della mia performance così intempestiva e poco brillante, persino aumentata.

Soledad ha percepito la reale esistenza di miei pensieri “neri”, percezione che ha coinciso con il saluto, quindi con l’accoglienza (in un certo senso: con la nascita). Il mio comportamento successivo è stato quello di affermare con sbrigativa perentorietà che non c’era rabbia dentro di me (effettivamente, non ero arrabbiato), evitando di spiegare la vera causa della mia espressione mimica. La paziente potrebbe aver percepito un messaggio del genere: “ciò che c‘è dentro di me e che ti fa paura non devi saperlo”: un viatico poco rassicurante per la notte. Poiché non si può dormire con un pensiero del genere, si seppellisce tutto nel più profondo della cantina; poi, dal buio, saliranno gl’incubi. Soledad è stata “male accolta”, e il bambino male accolto, sostiene Ferenczi, è soggetto in maniera particolarmente intensa a desideri di morte.
E allora che fare? Non posso essere certo che la prossima volta farò meglio, perché il ritmo della comunicazione vis-à-vis non consente più di tanto il controllo preventivo delle comunicazioni. E allora non c’è che una strada: quella di tornare, appena se ne presenterà l’occasione, sull’argomento, scendendo “attivamente” in cantina a cercare quello che si è depositato per portarlo alla luce del sole. Il cantiere è aperto, e la psicoterapia vis-à-vis può essere non inutilmente l’analisi fatta con il senno di poi.

13 commenti:

  1. Caro Gianni, mi viene spontaneo osservare che molti pazienti sarebbero felici di chiamarsi Soledad. Con un nome così, portare alla luce del sole ciò che si è depositato nelle cantine dell'albergo, non dovrebbe essere un'impresa tanto difficile.
    Nel nome di ogni tua (tuo) paziente sembra esserci già scritta parte della sua storia.
    Posso dirlo? Si, certo che posso: nel nome del padre... amen

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  2. Neanche Maddalena è così male. Fu la fidanzata di Dio e ne conobbe il boato.

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  3. Il Collega Vittorio Gonella mi invia il seguente commento:

    Caro Gianni, mi piace pensare che la prossima occasione favorevole sarà la prossima seduta! Penso che a noi terapeuti è offerta la possibilità di dire al paziente "ho ripensato alla precedente seduta e credo di averle risposto in un modo affrettato". Forse questo significa "rubare" spazio della seduta al paziente, bloccare la libera associazione, ma non pensi che l'atto di onestà potrebbe aiutare la paziente a farti scendere nella sua cantina? A me personalmente succede di riprendere con i bambini comportamenti, parole, reazioni che ho vissuto nel gioco e nelle sedute, e noto sempre un sospiro di stupore frutto del mio essere "ritornato" sul mio stare con lui in seduta.

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    1. Caro Vittorio,
      il tuo commento mi conforta molto perché solleva un problema che ho in mente da qualche tempo.
      Siamo stati "educati" a un'osservanza quasi "estremistica" del precetto bioniano secondo il quale l'analista, per mettere in pratica la raccomandazione freudiana di mantenere in seduta un'attenzione uniformemente sospesa, avrebbe dovuto lavorare "senza memoria e senza desiderio", e, in confidenza ti dirò che ho più volte provato a pensare che Bion, cui non era estraneo il pensiero poetico, nel formulare quell'affermazione pensasse a Eliot e alla sua Terra Desolata ("Aprile è il più crudele dei mesi, generando/Lillà dalla terra morta, mischiando/Memoria e desiderio, eccitando/Spente radici con pioggia di primavera"). Assenza di memoria e desiderio quindi come stato di "mente vuota" lontano dalle passioni: stupendo. Ma l'applicazione per l'appunto "estremistica" che ne conseguì, veicolata attraverso una cultura non esente da un certo grado di militarizzazione della coscienza, ci costrinse ad essere astinenti in una maniera insana, che recideva ogni passione sul nascere, rischiando di trasformarci in burocrati che sapevano operare soltanto seguendo un copione. Di qui, probabilmente ci è nata la voglia di trasgredire, e di esplorare l'altro lato della medaglia, quello in cui memoria e desiderio si fanno irrinunciabili. A me capitò attraverso il lavoro diagnostico con bambini vittime di abuso sessuale, che volli sempre affrontare, ostinatamente, con strumenti psicoanalitici.
      Ma di fronte alla distruzione traumatica della loro memoria, come avrei potuto lavorare senza memoria? E di fronte a un bambino ancora prigioniero di un padre carnefice, al quale è urgente sottrarlo per salvargli la vita, come avrei potuto fare a meno del desiderio, della preoccupazione, dell'ansia? Molto peggio che un aprile: un agosto infernale, desertico, infuocato.
      Così, dovendo fare di necessità virtù, mi risolsi molto presto ad abbandonare quell'insegnamento che mi aveva portato a guardare a qualsiasi pensiero "negli interstizi del tempo dell'analisi" (così ho titolato un recente post di questo blog) come insano, come un elemento estraneo e tossico.
      Ciò mi consentì di imparare ad apprezzare il mio desiderio di pensare a questo o a quel paziente al di fuori della seduta, e a concedermi tutto il tempo necessario ad elaborare il materiale che, nell'arco ristretto della seduta, non poteva essere sviluppato a sufficienza. Oggi quella trasgressione è diventata metodo: essa mi consente di continuare a elaborare un pensiero, o persino di sognarlo, per poi riportarlo in seduta come il frutto del mio lavoro. Non mi pare che ciò abbia snaturato l'opera; mi pare anzi che l'abbia arricchita.

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  4. Negli interstizi del tempo dell'analisi:
    http://wiesbaden1932.blogspot.it/2012/06/negli-interstizi-del-tempo-dellanalisi.html

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  5. E' sempre interessante notare come, in una generazione di terapeuti più vecchia ed esperta
    della mia, ogni movimento e scelta sia sentita come una trasgressione, una rivoluzione contro i Padri! Un aspetto significativo che noi giovani terapeuti sentiamo meno.
    Detto questo, mi sono sempre chiesto che cosa intendesse Bion con il suo suggerimento, soprattutto se pensato all'interno di psicoterapie a una-due sedute a settimana.
    Rimane il dubbio, nella mia giovane mente, che questo consiglio possa essere paradossale rispetto a un'idea relazionale dell'incontro psicoterapeutico, un luogo in cui il terapeuta possa non solo essere "senza memoria" ma anche libero di dire "mi sono sbagliato".

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  6. Noi vivemmo al tempo dell'egemonia trionfante e la subimmo. Voi vivete in un tempo pluralistico, nel quale la Chiesa ha perduto il suo carisma e il suo copyright.
    Oggi poter dire "mi sono sbagliato" è un atto di libertà, oltre che di onestà.

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  7. @ Maddalena: rileggendo il tuo commento del 21 Novembre scorso, noto un curioso lapsus, sfuggito mentre parlavi di "portare alla luce ciò che si è depositato nelle cantine dell'albergo". Perché "dell'albergo"? Io avevo parlato semplicemente di "cantina".

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  8. No, non era un lapsus. L'ultima ( la prima) volta che hai parlato di Soledad era alla reception
    di un albergo, mentre tu, nel ruolo di portiere (?) registravi i suoi documenti. Nel frattempo Soledad è uscita dalla stanza, è andata a fare una passeggiata ed è ritornata. Allora io ti ho messo addosso la divisa da lift , perchè nel tuo albergo che guarda sul lago, ci sono anche ascensori che vanno in cantina, sotto il livello dell'acqua.

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  9. Normalmente gli avventori degli alberghi hanno una casa loro: io, in effetti, parlavo della cantina di Soledad. Oppure tu immagini che la casa di Soledad e l'albergo siano così vicini da avere gli scantinati in comune? Chissà: potrebbe anche essere.

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  10. Ognuno ha certo il proprio seminterrato. Si, immagino una vicinanza dei vostri sotterranei. Labirinti comunicanti . Ma questo ha a che fare con il mio naso... Ogni odore che sale dai fondi mi attira e lo annuso sempre ( pur raffreddata) con grande curiosità. Sarà perchè nel mio tempo libero faccio la trovarobe e le cantine ( tutte) sono sempre miniere inesauribili di materiale. Il rischio è, non trovando esattamente quello che mi serve , che io prenda alcuni pezzi che m'ispirano e li forgi solo a mio uso e consumo.

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  11. Condivido la tua curiosità per le cantine e per i loro segreti.

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  12. Dato che l'opera dell'inconscio è più forte e radicale che nel conscio, non credo che due parole riparative compensino il lavoro accurato da lettino.
    Detto ciò, en passant, da profana, chiedo anche: compito dell'analista non è rompere, decostruire, dei meccanismi reiteranti, anzichè accondiscendervi perpetuando la spirale? Perchè Lei decide di assecondare la voglia materna di Soledad?
    Poi, magari, dati i suoi non anelanti ritardi, la sua è una risposta ad una aspettativa precosTRUITA: crede di rispondere o dover rispondere lì per lì a un bisogno dissimulato, anzichè essere poi un suo bisogno.
    Forse vuole proprio distaccarsi da questo dover offrire. D'altronde se dice che è depressa, la percezione di gioia come territorio non proprio, ma fatica per l'altro, ci sta tutta.

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